mercoledì 10 novembre 2010

Pregiudiziale amministrativa dibattito prima e dopo il Codice del Processo amministrativo

E trascorso poco più di un decennio dalla “storica” sentenza n. 500 del 22 luglio 1999 delle Sezioni Unite della Cassazione con cui si è aperto per la prima volta il varco al principio della “risarcibilità dell’interesse legittimo” determinando, di fatto, un forzoso, progressivo, allineamento tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, sino a quel momento capisaldi della differenza fondamentale fra giurisdizioni.

Ed è trascorso un decennio pure dall’approvazione della legge n. 205 del 2000, frettolosamente varata proprio per tentare un componimento (rectius adeguamento) fra posizioni giurisprudenziali e normative. Ancora, a distanza di un decennio esatto dalla legge n. 205 (del 21 luglio 2000), è stato licenziato un codice, il Codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2 luglio 2010), che entrerà in vigore il 16 settembre, ovvero fra una settimana esatta, salvo slittamenti dell’ultima ora.

Fatte queste veloci premesse, per poter inquadrare l’argomento con sistematicità, chiarezza e, soprattutto, sinteticità, non si può prescindere dal compiere un rapido “viaggio” fra le evoluzioni giurisprudenziali in materia così da giungere all’odierno posizionamento del legislatore delegato.

Il tentativo di “forzoso allineamento” giurisprudenziale tra le due situazioni giuridiche soggettive anzidette (diritto soggettivo ed interesse legittimo), si è scontrato da subito con forze centripete più o meno forti, più o meno convinte, da parte della pubblica amministrazione e della giurisprudenza amministrativa, attente al rispetto delle loro competenze costituzionali, e tuttavia ben consapevoli dell’evoluzione normativa e sociale in atto (in particolare dopo la legge n. 241/90), meritevole di attenzione e di adeguamenti.

Infatti, quella della “pregiudiziale amministrativa” è la tipica vicenda espressiva delle trasformazioni che hanno interessato lo svolgimento dell’attività amministrativa in un concetto evolutivo di pubblico potere, che ha visto l’amministrazione passare da “fiume carsico” a “casa di vetro”, aperta alla società esterna, a cui sempre più ha chiesto collaborazione.

Si è accennato alle due situazioni giuridiche fondamentali che compongono la struttura portante della “pregiudiziale amministrativa”, ovvero il diritto soggettivo e l’interesse legittimo, per le quali, senza aprire un tema che richiederebbe una lunga trattazione, è comunque necessario ripercorrerne i tratti essenziali.

Il prodromo della distinzione tra le due posizioni giuridiche -a fronte dell’attività dell’Amministrazione pubblica- come tutti sappiamo, affonda le sue radici nell’allegato E della Legge 20 marzo 1865, n. 2248, (LAC), che, nell’abolire il contenzioso amministrativo, mantenne in vita il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti, attribuendo loro giurisdizione in materia di interessi legittimi (senza offrirne però una definizione chiara, cosa che alimentò il dibattito, dando vita a diverse teorie), e mantenendo invece la tutela dei diritti soggettivi ai tribunali ordinari.

Poiché la situazione era dunque caratterizzata dal fatto che la Pubblica Amministrazione volgeva la propria attività alla cura dell’interesse generale, fine che non consentiva di vincolare il raggiungimento del pubblico interesse alle ragioni dei singoli, ad essi (privati) si attribuì una posizione di tutela differenziata rispetto alla collettività indistinta proprio per non lasciarli privi di tutela, posizione che era/è per l’appunto l’interesse legittimo. Tale stato di fatto trovò successivamente dignità nella Carta Costituzionale (e precisamente gli artt. 24, 103 e 113).

Restava il problema più tangibile, concreto, della tutela risarcitoria, a lungo negata per gli interessi legittimi, sulla convinzione che il “danno ingiusto” poteva derivare solo dalla lesione di un diritto soggettivo e non ex se dalla lesione di un mero interesse, seppur legittimo. Tuttavia, come anticipato, l’evoluzione giurisprudenziale, notoriamente più rapida di quella normativa, si stava dirigendo verso l’elaborazione di nuove teorie, fra le quali spicca per quanto d’interesse quella dell’ “affievolimento dell’interesse legittimo” con conseguente riemersione del diritto sottostante. Secondo questa teoria, in termini molto sintetici, a fronte di un atto emanato da una pubblica amministrazione, la posizione giuridica soggettiva non rivestirebbe più caratteri assoluti, ma relativi, e strettamente correlati al corretto esercizio dell’azione amministrativa, dimodoché, nel caso in cui l’azione pubblica risultasse illegittimamente esercitata, il privato potrebbe attivarsi per ottenere l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo, e veder così riaffiorare la propria posizione di diritto soggettivo con la conseguenza di poter ottenere il risarcimento del danno.

Nasce in tal modo il concetto di “pregiudiziale amministrativa”, per la quale il privato destinatario di un provvedimento che ritenga lesivo deve ricorrere al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto pregiudizievole e, solo successivamente all’annullamento dell’atto, egli può attivarsi in sede civile per il giudizio risarcitorio. Fatte salve le ipotesi di giurisdizione esclusiva.

In questa situazione, esaminata con estrema rapidità, caratterizzata anche -è bene ricordarlo- da un decennio di fortissime riforme riguardanti la P.A., orientate in una unica direzione, ovvero ridurre il “gap” che storicamente distanziava le posizioni pubbliche da quelle private, sino ad allinearle….anzi, forse a rovesciarle, si cala la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, n. 500 del 1999, ponendo in maniera dirompente il riconoscimento della risarcibilità dell’interesse legittimo e, di conseguenza, spezzando la secolare tradizione legata alla pregiudiziale amministrativa, motivando sulla base di una interpretazione ampia dell’art. 2043, c.c., inteso quale norma generale che sanziona la lesione ingiusta a prescindere dalla posizione giuridica soggettiva del privato. Impostazione che non è andata esente da critiche e che, come è noto, ha comportato problematiche così rilevanti ed oscillazioni così opposte, da spingere il legislatore ad una sistemazione “d’emergenza” a mezzo della legge n. 205/2000, in ragione della quale il giudice amministrativo è competente di tutte le questioni relative al risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, nonché gli altri diritti patrimoniali fondamentali.

Non a caso, da quel momento preciso iniziano i forti contrasti tra giurisdizioni sul tema in oggetto, coinvolgenti anche la Corte Costituzionale.

Questo in sintesi il principio “rivoluzionario” espresso dalla Cassazione sulla spinta del diritto comunitario: l’obbligo di risarcire il danno ingiusto cagionato al privato da provvedimenti amministrativi illegittimi può essere proposta nell’ambito della giurisdizione ordinaria anche in difetto del previo annullamento dell’atto lesivo. Per la prima volta si sanciva il principio autonomistico dell’azione risarcitoria e di quella d’annullamento. L’effetto dirompente più evidente era costituito dall’elevazione a situazione giuridica soggettiva piena dell’interesse legittimo, la cui risarcibilità era subordinata alla richiesta da proporre nel termine prescrizionale, ben più ampio di quello di decadenza fissato in 60 giorni, che per la P.A. è pari a 5 anni.

Le S.U. si fecero paladine dell’accertamento sulla lesione di queste posizioni giuridiche, attraendo nel proprio alveo di competenze, quello degli elementi costitutivi della tutela offerta dall’art. 2043 c.c., l’illegittimità del provvedimento amministrativo, accertamento che sino a quel momento era precluso al giudice ordinario. La sentenza “pioniera” (n. 500/1999) interveniva, da un lato, ad abbattere uno steccato fra giurisdizioni sino a quel momento ben delineato, e, dall’altro, dava avvio ad un attrito senza esclusione di colpi tra i due massimi plessi giurisdizionali, che non sembra certo essere placato, neppure oggi, a Codice varato, come si avrà modo di vedere.
Quid iuris, allora, sulla pregiudiziale amministrativa? E’ da escludere la proponibilità o fondatezza della pretesa risarcitoria tutte le volte in cui il provvedimento causativo del danno non sia stato rimosso nelle forme previste dall’ordinamento, ovvero è da ammettere?
Il percorso della risarcibilità degli interessi legittimi e delle relative condizioni dal 1999 è stato oggetto di una elaborazione molto ampia ed articolata da parte della giurisprudenza, i cui passi più salienti sono sintetizzati in alcune sentenze particolarmente sintomatiche, che troverete allegate nella selezione che abbiamo fatta.
Naturalmente a favore della tesi “autonomistica” (autonomia delle due azioni), nel solco della sentenza n. 500, si è attestata la Cassazione che, con le famose ordinanze gemelle nn. 13659 e 13660 del 13 giugno 2006 e 13911 del 15 giugno 2006, rese in sede di regolamento di giurisdizione, ha mantenuto fermo l’orientamento espresso secondo cui la domanda di risarcimento può essere proposta al giudice amministrativo anche in difetto del previo annullamento dell’atto lesivo, aggiungendo ad abundantiam che, ove il giudice respingesse o dichiarasse inammissibile la domanda a causa del mancato previo annullamento dell’atto incorrerebbe in un diniego della propria giurisdizione, sindacabile da parte della Corte di cassazione.
Siffatta conclusione è stata ribadita anche recentemente dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 30254 del 23 dicembre 2008, resa proprio su ricorso proposto avverso la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 12 del 2007. In tale pronuncia le Sezioni Unite hanno espresso il seguente principio di diritto: "Proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall’esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l’illegittimità dell’atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento".
Lotta senza quartiere. Infatti, nella sentenza n. 12 del 22 ottobre 2007, l’Adunanza Plenaria aveva confermato seccamente i principi già espressi costantemente nei propri precedenti (Adunanza plenaria n. 4/2003, e ribaditi da Ad. Plen. nn. 9 e 10 del 2007), nel senso del permanere della pregiudizialità, sulla base di 7 punti fondamentali ed irrinunciabili, relativi:
1) “- alla struttura stessa del processo amministrativo e alla tutela in esso erogabile, dove, in armonia con gli artt. 103 e 113, co. 3, Cost., sia nella giurisdizione di legittimità, che in quella esclusiva, viene in considerazione in via primaria la tutela demolitoria e solo in via consequenziale ed eventuale quella risarcitoria, come inequivocabilmente stabilito dall’art. 35, co.1, 4 e 5, d.lgs. n. 80 del 1998;
2) - alla cosiddetta presunzione di legittimità dell’atto amministrativo e della connessa efficacia ed esecutorietà, che si consolida in caso di omessa impugnazione o di annullamento d’ufficio (v.L. n. 15/2005);
3) - all’articolazione della tutela sopra ricordata che, in entrambi i casi, concerne la stessa illegittimità del provvedimento, con la conseguenza che il danno ingiusto non può essere configurato a fronte di una illegittimità del provvedimento che, per l’assolutezza della cennata presunzione è, de jure, irreclamabile;
4) - all’assenza della condizione essenziale dell’ingiustizia del danno, impedita dalla persistenza di un provvedimento inoppugnabile (o inutilmente impugnato);
5) - alla concreta equivalenza del giudicato che rilevando l’inesistenza dell’appena ricordata condizione, dichiari l’improponibilità della domanda con il giudicato che, pronunciandosi nel merito, dichiari infondata -e questa volta con pronuncia inequivocabilmente sottratta a verifica ex art. 362 c.p.c.- la domanda per difetto della denunziata illegittimità (motivi attinenti la giurisdizione);
6) - ai limiti del potere regolatore della Corte di cassazione (Sez. un., 19 gennaio 2007, n. 1139; 4 gennaio 2007, n. 13) che, secondo il correlato avvertimento della Corte Costituzionale (sent. 12 marzo 2007, n. 77), "con la sua pronuncia può soltanto, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost., vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma certamente non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione". Ad analogo principio, prosegue la Corte, "si ispira l’art. 386 c.p.c. applicabile anche ai ricorsi proposti a norma dell’art. 362, co.1, c.p.c., disponendo che la decisione sulla giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda e, quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda";
7) - alla correlata verifica degli eventuali limiti dell’indirizzo della Corte di cassazione secondo cui l’inoppugnabilità dell’atto amministrativo, siccome relativa agli interessi legittimi, non impedirebbe in nessun caso al giudice ordinario di disapplicarlo”.
La querelle, comunque, era ben lontana dall’essere sopita come, forse, era nelle intenzioni del legislatore del 2000. Infatti, proprio dopo l’entrata in vigore della legge 205 cit., il ruolo principale relativamente alla “pregiudiziale” è stato svolto dai due massimi consessi giurisprudenziali, a suon di pesanti colpi, e non certo dal legislatore: alle pronunce della Cassazione rispondevano puntuali i giudici di Palazzo Spada, in una diatriba aspra e continua.

In sostanza, alle affermazioni della Suprema Corte per cui, al fine di ottenere il risarcimento dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi, non è necessario il previo annullamento dell'atto illegittimo e dannoso (c.d. pregiudiziale amministrativa), essendo sufficiente l’accertamento della illegittimità dell’atto stesso, poiché opinare diversamente significherebbe restringere la tutela che spetta al privato di fronte alla pubblica amministrazione (principio dell’indipendenza delle due azioni), ribatteva decisamente l’organo verticistico del Consiglio di Stato riaffermando la sussistenza della pregiudiziale amministrativa, quale presupposto essenziale per la tutela risarcitoria, che rispetto all’azione annullatoria ne riveste carattere consequenziale, ulteriore ed eventuale, non smentito neppure dalla Corte costituzionale (sentenza n. 204/2004) che privilegia la certezza delle situazioni di diritto pubblico, da contestare in brevi termini di decadenza.

Nella logica del diritto pubblico, quindi, il Consiglio di Stato ha tenuto ferma la tesi della pregiudiziale, in applicazione della quale ha affermato che, relativamente alle contrarie pronunce della Cassazione, l’applicazione di detto principio non comporta una preclusione di ordine processuale all’esame nel merito della domanda risarcitoria, ma determina un esito negativo nel merito dell’azione di risarcimento. Replicando altresì all’obiter dictum della Cassazione, ha precisato che la domanda di risarcimento del danno derivante da provvedimento non impugnato (o tardivamente impugnato) è ammissibile, ma è infondata nel merito in quanto la mancata impugnazione dell’atto fonte del danno consente a tale atto di operare in modo precettivo dettando la regola del caso concreto, autorizzando la produzione dei relativi effetti ed imponendone l’osservanza ai consociati ed impedisce così che il danno possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta dall’Amministrazione in esecuzione dell’atto inoppugnato.

Per il giudice amministrativo il principio della pregiudiziale non si fonda, quindi, sull’impossibilità di esercitare il potere di disapplicazione, ma sull’impossibilità per qualunque giudice di accertare in via incidentale e senza efficacia di giudicato l’illegittimità dell’atto, quale elemento costitutivo della fattispecie della responsabilità aquiliana ex art. 2043, c.c.; in sostanza, ove l’accertamento in via principale sia precluso nel giudizio risarcitorio in quanto l’interessato non sperimenta, o non può sperimentare (a seguito di giudicato, decadenza, ecc.), i rimedi specifici previsti dalla legge per contestare la conformità a legge della situazione medesima, la domanda risarcitoria deve essere respinta nel merito, perché il fatto produttivo del danno non è suscettibile di essere qualificato illecito.

La pregiudiziale amministrativa viene, quindi, strettamente connessa al principio della “certezza della situazioni giuridiche di diritto pubblico”, al cui presidio è posto il breve termine decadenziale di impugnazione dei provvedimenti amministrativi; di conseguenza non viene ritenuta meritevole la tesi contraria, secondo cui il termine decadenziale non rileva ai fini del risarcimento del danno, trattandosi di un termine previsto per garantire in breve tempo la certezza dell’intangibilità alla fattispecie provvedi mentale. Infatti, la regolazione degli interessi in gioco non verrebbe posta in discussione da un’azione solo risarcitoria, nella quale la verifica della legittimità dell’atto è operata incidentalmente.

La tesi riconducibile alle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, a cui il termine breve di impugnazione è funzionale, risulta di difficile compatibilità con le fattispecie in cui il privato dopo essere rimasto inerte (nel senso di non avere impugnato l’atto) a seguito dell’emanazione di un provvedimento amministrativo a lui sfavorevole, agisca in via giurisdizionale nel più ampio termine prescrizionale di cinque anni, chiedendo il risarcimento del danno. Sicché, all’obiezione che si tratta della stessa situazione prevista dall’art. 2043 c.c. nei rapporti interprivatistici, il Consiglio di Stato ha replicato evidenziando che anche in relazione all’esercizio del potere nei rapporti di diritto privato e all’impugnazione davanti al G.O. di atti amministrativi, in molti casi viene privilegiata tale esigenza di certezza con la previsione di termini decadenziali entro cui contestare la conformità a diritto di determinate situazioni giuridiche, la cui scadenza preclude anche l’azione risarcitoria (si rammenta ad es. come non sia consentito domandare il risarcimento del danno per essere stati assoggettati illegittimamente a sanzione amministrativa mediante ordinanza-ingiunzione non impugnata ai sensi della l. 689/81, sulla depenalizzazione dell’illecito amministrativo; oppure, come il lavoratore licenziato non possa scegliere la via risarcitoria senza aver previamente impugnato il recesso, ecc.). I casi elencati sono espressivi di un principio generale: quello che, quando è stabilito un termine di decadenza per instaurare in quelle situazioni una contestazione in sede giurisdizionale, lo spirare del termine non consente di far valere né quel diritto, né le “conseguenze” che seguirebbero se fosse fondata la pretesa.

Rincara la dose il giudice amministrativo, ammonendo i colleghi di Piazza Cavour colpevoli di utilizzare “due pesi e due misure”, poiché nei casi richiamati in precedenza in cui la contestazione dell’esercizio di poteri privatistici è assoggettata a termini decadenziali, il giudice ordinario mai si è posto il problema della costituzionalità della preclusione anche dell’azione risarcitoria in ipotesi di assenza di contestazioni nei termini di decadenza; né un tale problema è venuto in evidenza con riguardo a posizioni di interesse legittimo (a volte di maggior consistenza di quelle di pieno diritto: si pensi alla partecipazione a gare di notevole importo, o a interessi collegati al commercio) che in base a norme tipiche del processo amministrativo non possano trovare ingresso nel processo a causa di preclusioni di rito.

Del resto, sia l’art. 7, 3° comma, L. Tar, che l’art. 35, 5° comma, d.lgs. n. 80/98, già citati, pur non affrontando direttamente la questione, qualificano le questioni risarcitorie collegate ad un provvedimento illegittimo, come questioni “consequenziali” rispetto all’annullamento di quest’ultimo, riconoscendo implicitamente che il risarcimento presuppone non un semplice accertamento incidentale dell’atto, ma il suo annullamento, con la conseguenza che l’elemento oggettivo della fattispecie dell’illecito non risulta essere l’atto amministrativo illegittimo, ma l’atto amministrativo annullato.

Cassazione e Consiglio di Stato hanno pure avuto modo di divergere su un altro problema, emerso recentemente, con l’approdo cui la Cassazione è giunta, ancora una volta allo scopo di scavalcare l’ostacolo della pregiudiziale posto dal Consiglio di Stato. Se per quest’ultimo l’applicazione del principio della “pregiudiziale amministrativa” non comporta alcuna restrizione della tutela giurisdizionale, la Cassazione ha ritenuto il contrario, e cioè che l’accoglimento del principio del previo annullamento per la tutela risarcitoria finirebbe per comprimere le istanze di giustizia “creando isole di immunità e privilegio” (limitazione di responsabilità della PA).

Eppure non si deve trascurare che dalle pronunce della Corte Costituzionale emergeva chiaro il dogma che vuole il risarcimento del danno come strumento di tutela ulteriore rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione: il provvedimento amministrativo lesivo di un interesse sostanziale può essere aggredito in via impugnatoria per la sua demolizione, e “conseguenzialmente” in via risarcitoria per i suoi effetti lesivi, ponendosi, nell’ uno e nell’altro caso, la questione della sua legittimità. Ciò che traspare, allora, dalla giurisprudenza della Consulta è l’assenza di sospetti di illegittimità costituzionale nel disegno delineato dal Consiglio di Stato ed, anzi, sembra agevole inferirne il contrario (Cons. Stato, A.P., n. 12/2007).

I colpi di scena in questo contrasto infinito fra Sezioni Unite e Adunanza Plenaria è continuato sino ad ora con forza e vigore anche per la puntigliosa precisazione e ostinazione della Suprema Corte, secondo cui il giudice amministrativo, ove respingesse o dichiarasse inammissibile la domanda di risarcimento proposta in difetto di previo annullamento dell’atto lesivo, incorrerebbe in un diniego della propria giurisdizione come tale sindacabile da parte della Cassazione.

Suona come un avvertimento subliminale: attenzione, la Cassazione può sempre e comunque intervenire!

Senza timidezza alcuna, il Consiglio di Stato ha prontamente risposto ai supremi colleghi sostenendo, con semplicità disarmante, che la domanda di risarcimento del danno derivante da provvedimento non impugnato (o tardivamente impugnato) è ammissibile -salvo riverberarsi su essa una sostanziale acquiescenza da parte del danneggiato, rilevante ai sensi dell’art. 1227, c.c.- ma infondata nel merito, in quanto la mancata impugnazione dell’atto fonte del danno consente a questo di operare in modo precettivo per l’amministrazione che lo ha emanato, dettando la regola del caso concreto. Viene così per la prima volta enucleato il concetto della diligenza nell’adoperarsi per evitare il danno, come imposto dall’art. 1227, 2° comma, c.c., applicabile anche ai giudizi risarcitori conseguenti all’esercizio di poteri autoritativi, ritenendo che, in forza di dette norme, il contributo causale del destinatario del potenziale danno produce l’esenzione dell’obbligazione risarcitoria in capo all’Ente che ha confidato sul consolidamento della propria determinazione, divenuta frattanto inoppugnabile.

Ciò conduce inequivocabilmente, per il Consiglio di Stato, a riconoscere l’esistenza della pregiudiziale amministrativa.

Novità questa di rilievo per l’impostazione adottata dall’odierno legislatore.

La questione della pregiudiziale amministrativa recentemente (nel corso del 2009) si è arricchita di un ulteriore capitolo a seguito della nuova rimessione all’Adunanza Plenaria della questione da parte della VI Sezione del Consiglio di Stato (Cons. St., VI, 21 aprile 2009, n. 2436).

Insomma, è proprio il caso di dire si vis pacem, para bellum. E, tanto per iniziare il percorso di pace, il Consiglio di Stato ha preparato la guerra isolando e, uno dopo l’altro, addebitando alla Cassazione varie contraddizioni in cui essa è incorsa, da aggiungersi a quelle già rilevate e di cui si è dato atto in precedenza.

In particolare, il giudice rimettente ribadisce ancora una volta la pregiudizialità dell’azione demolitoria, rispetto alla domanda risarcitoria, tutte le volte in cui il provvedimento fonte del danno non sia stato altrimenti rimosso in sede non giurisdizionale (ovvero allorchè l’annullamento, tempestivamente richiesto, non possa essere conseguito per ragioni sopravvenute, non imputabili al ricorrente). Aggiunge che, alle ragioni già compiutamente esposte dalle numerose pronunce anche dell’Adunanza plenaria, sopra ricordate, lasciandosi al privato la scelta tra azione di annullamento e azione per il risarcimento del danno, l’illegittimità del provvedimento amministrativo, che ha valenza conformativa dell’ordinamento, verrebbe accettata e per così dire consolidata (oltre che monetizzata), con irreparabile vulnus del principio di legalità espresso dall’art. 97 Cost. e della ragione stessa di tutela dell’interesse legittimo, che riposa sul coincidente perseguimento di quello pubblico mediante l’eliminazione delle patologie nei singoli casi concreti.

Inoltre, una azione risarcitoria incerta nel termine impugnatorio impedirebbe la corretta programmazione della spesa pubblica -fatto questo di enorme portata per le PA- paventandosi la possibilità di riapertura di contenziosi definiti da tempo.

Per il Consiglio di Stato tale conseguenza appare tanto più perniciosa in un momento di evoluzione legislativa quale quello in atto (cfr. art. 20.8 e 8 bis d.l. 29 novembre 2008, n. 185, nel testo modificato con la legge di conversione, n. 2 del 28 gennaio 2009), in cui l’esigenza di accelerazione delle procedure amministrative appare premiare -non senza suscitare ampie e gravi riserve- il risarcimento a scapito della rimozione dell’illegittimità, in un sistema in cui l’osservanza del generale termine di decadenza per proporre l’azione demolitoria non può certamente tradursi in compressione del diritto di difesa (altrimenti dovendosi così intendere per tutto il sistema delle preclusioni processuali, non solo nel processo amministrativo, ma anche nel processo civile e penale). Peraltro, proprio il citato art. 20, commi 8 e 8-bis, d.l. n. 185/2008, per il G.A. fornisce un ulteriore spunto esegetico a sostegno della tesi della pregiudizialità dell’annullamento rispetto al risarcimento del danno. Infatti, in tale giudizio immediato, in cui non può in nessun caso disporsi la caducazione del contratto e si può accordare solo il risarcimento del danno per equivalente (nonostante l’esito del giudizio non sia l’annullamento del provvedimento, ma la condanna al risarcimento del danno), il legislatore impone comunque la previa tempestiva impugnazione del provvedimento. Si legge infatti nell’articolo in esame che “in caso di annullamento degli atti della procedura, il giudice può esclusivamente disporre il risarcimento degli eventuali danni, ove comprovati, solo per equivalente”. E’ significativo non solo che il risarcimento del danno venga ancorato al previo annullamento dell’atto e dunque alla sua previa tempestiva impugnazione, ma anche che l’inciso “in caso di annullamento degli atti della procedura” sia stato inserito dalla legge di conversione del d.l., dopo che era nota la pronuncia delle Sezioni unite n. 30254/2008, segno inequivoco che il legislatore ha inteso ribadire la necessaria pregiudizialità di cui gli era nota la negazione delle Sezioni Unite. Anzi, dal punto di vista sistematico, il legislatore non ha mai espressamente affermato l’autonomia dell’azione risarcitoria.

Ad ulteriore sostegno delle ragioni di rimessione, il Consiglio di Stato cita la direttiva 66/2007/CE. Essa, nell’uniformare la tutela processuale in materia di pubblici appalti nei singoli Stati membri, tiene conto dei differenti sistemi processuali, e segnatamente di quello italiano, riconoscendo necessari, per esigenze di certezza dell’agire amministrativo, brevi termini di impugnazione, e ammettendo sistemi in cui il risarcimento possa essere accordato solo previo annullamento del provvedimento illegittimo (in particolare il 25° Considerando; l’art. 2, par. 6, direttiva 89/665 come novellato dalla direttiva 66/2007; l’art. 2-quater, direttiva 89/665, come novellato dalla direttiva 66/2007). Tali dati esegetici confermano che un sistema processuale ancorato alla previa impugnazione del provvedimento amministrativo, al fine di conseguire il risarcimento del danno, risponde al principio di effettività della tutela giurisdizionale, e rientra nella scelta discrezionale del legislatore. Non è dunque condivisibile l’assunto secondo cui il principio costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale postulerebbe ancora che sia rimessa ai singoli la scelta tra azione impugnatoria e azione risarcitoria autonoma, prescindendo dagli oneri conseguenti, ex art. 113, 3° comma, Cost., alla mediazione della legge ordinaria.

Del resto il Consiglio di Stato rileva una incongruenza nelle opinioni della Cassazione, la quale, in tema di procedimento tributario, e successivamente alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 30254/2008, ha sposato la tesi della pregiudizialità, affermando che, ove non sia stato tempestivamente impugnato l’atto impositivo, “non è sicuramente esperibile una autonoma tutela giurisdizionale....perchè, diversamente opinando, si darebbe inammissibilmente ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo” (S.U., 6 febbraio 2009, n. 2870). L’analogia è evidente: il processo tributario e quello amministrativo sono tuttora conformati come processi prevalentemente impugnatori di atti amministrativi e il risarcimento postula coerentemente la previa tempestiva impugnazione degli atti. Appare, quindi, incongruo addivenire in via esegetica ad una difforme soluzione a fronte di una univoca scelta del legislatore che in entrambi i casi ha mostrato di privilegiare interessi pubblici rispetto ai quali la mera subordinazione dell’azione risarcitoria a quella di annullamento né ha l’effetto di negare sostanzialmente la prima tutela, né viola interessi che per il loro atteggiarsi come meramente procedurali possano considerarsi, in ogni caso, prevalenti.
Sulla scia delle conclusioni del Consiglio di Stato è giunta anche la giurisprudenza comunitaria, che, in relazione al contenzioso risarcitorio per danni (asseritamente) derivanti da provvedimenti amministrativi comunitari, ha più volte ribadito la tesi che non si può, con una istanza di risarcimento dei danni, eludere l’irricevibilità di una domanda diretta contro l’illegittimità dell’atto causativo, sicché l’irricevibilità di una domanda di annullamento comporta quella della domanda di risarcimento ad essa collegata (Trib. di primo grado CE, sez. II, 12 settembre 2007 C-250/04; C. giust. CE, 4 febbraio 1989 C-346/87).
Elemento centrale della impostazione normativa sulla cognizione del giudice amministrativo in tema di risarcimento del danno è che questo si configura, nel testo della legge che lo prevede, come un diritto patrimoniale consequenziale, vale a dire dipendente da un assunto principale che deve essere dimostrato. La tesi della diretta azionabilità del risarcimento dei danni in tema di interessi legittimi non trova supporto perciò neanche nella formula logica della legge. Ma vi è di più nel ragionamento del Consiglio di Stato sinora sempre sfuggito al giudice ordinario, qual è in concreto il giudice di Cassazione: la diretta risarcibilità di una posizione individuale escluderebbe la presenza in giudizio di soggetti portatori di posizioni contrapposte, la cui presenza è invece indispensabile alla procedibilità dell’azione impugnatoria. Vale a questo proposito la notazione che, nel processo amministrativo, come in quelli delineati dalle norme sopra riassunte nei quali la tutela deve tener conto di una più ampia area di risonanza, l’interesse al risarcimento del danno, comunque in nessun modo negato dalla pregiudizialità, non può essere ritenuto prevalente rispetto all’assetto degli altri interessi opposti, ormai consolidati, ai quali non sia stata data la possibilità di difesa in giudizio. Considera al riguardo il remittente come il principio di pregiudizialità, che è sembrato e sembra sia stato espressamente confermato nell’esercizio di un potere legislativo solennemente riconosciuto dall’art. 113 comma 3 Cost., ben si coordina con i principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e del correlato dovere di “responsabile collaborazione” delle parti, sui quali la stessa Corte di Cassazione si è di recente soffermata con singolare fermezza rilevandone la evidente derivazione costituzionale (S.U., ordinanza 9 ottobre 2008, n. 24883).


NUOVO CODICE

In queste acque agitate di un contrasto senza fine, si è inserito il legislatore delegato del nuovo Codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), con un compito certamente non semplice: tentare di comporre un annoso contrasto giurisprudenziale, aspro e denso di attriti, evitando nel contempo scivolate d’incostituzionalità.

Nell’ambito della disciplina sull’azione di condanna, l’art. 30, ed in particolare i commi 1° e 3°, si occupano di fissare il quadro delle regole applicabili all’azione risarcitoria esperibile contro la pubblica amministrazione per i danni da illegittimo esercizio dell’azione amministrativa e, nei casi di giurisdizione esclusiva, anche per i danni da lesione di diritti soggettivi. Così si esprime la norma: “1. L’azione di condanna può essere proposta contestualmente ad ogni altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma. (…) 3. La domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di 120 giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.

Come si evince ictu oculi è questo dell’art. 30 un chiaro segnale di transactio.

Nel merito della norma dividerei una prima analisi da quella più attenta.
1) La prima analisi (di natura tecnica legislativa), potrebbe apparire la prevalenza della tesi della Corte di Cassazione in materia di pregiudizialità tra azione di annullamento e azione di risarcimento;
2) tuttavia, ad una attenta lettura (lessicale) la situazione è ben altra. Infatti, se il primo comma pare abbandonare formalmente la tesi della “pregiudiziale”, poiché prevede che l’azione risarcitoria possa essere esercitata anche autonomamente, utilizzando per la prima volta l’aggettivo “autonoma”, con il terzo comma dell’art. 30 viene introdotto un potente strumento di dissuasione rispetto all’opzione meramente risarcitoria.

Con riguardo al termine di decadenza previsto al 3° comma dell’art. 30, primo periodo, per l’esercizio dell’azione di risarcimento per lesione di interessi legittimi, tra la tesi civilistica della prescrizione (5 anni) e quella amministrativistica della decadenza breve (60 giorni), il legislatore ha optato per la decadenza…ma un po’ più lunga (120 giorni) di quella breve, sebbene non allungata quanto la Commissione giustizia aveva richiesto nel porre la condizione di elevare a 180 giorni detto termine, ritenendo l’eccessiva brevità un fattore di criticità da superare. Non ultimo, un termine decadenziale pari a 120 giorni coincide con il termine per la proposizione del ricorso straordinario proponibile contro gli atti definitivi, prestandosi a scelte alternative probabilmente non casuali.

Sarà interessante vedere nel concreto cosa accadrà nel caso in cui venga proposta azione risarcitoria nei 120 giorni e ricorso straordinario nel medesimo termine: sospensione del giudizio risarcitorio in attesa di quello caducatorio amministrativo? Esiste l’obbligo di dichiararlo? Quale sarà, insomma, il rapporto fra ricorso straordinario ed esercizio autonomo dell’azione risarcitoria?

Quanto poi al secondo periodo del comma 3 dell’art. 30, il legislatore del Codice sembra smentire l’impostazione di Piazza Cavour secondo cui l’azione risarcitoria è autonoma sic et simpliciter rispetto all’azione di annullamento facendola passare in secondo piano, ripristinando invece la tesi di Palazzo Spada sulla centralità dell’azione di annullamento, in una accezione molto sottile ed intelligente: non enuncia in modo esplicito la regola della pregiudizialità tra le due azioni (nel caso di lesione di interessi legittimi ad opera di un provvedimento amministrativo), ma pone l’accento sull’ordinaria diligenza che il ricorrente deve usare per evitare i danni, per giungere ad escludere il risarcimento ove ciò non sia avvenuto (“il giudice … esclude”, evidenziando l’obbligatorietà dell’attività curiale). In sostanza, viene subliminalmente posto un discrimen fortissimo, fondato implicitamente sull’art. 1227 c.c., a mente del quale il risarcimento non è dovuto per i danni che (il creditore) avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti.

Tradotto dall’italiano al diritto amministrativo si comprende come il rimando agli “strumenti di tutela previsti dall’ordinamento” faccia riferimento all’azione di annullamento visto che l’ambito è quello del diritto amministrativo, da esercitarsi quindi entro il rituale termine di decadenza di 60 giorni (mentre quella risarcitoria “pura” entro il termine, sempre di decadenza, di 120 giorni).

Al comma cinque, la soluzione compromissoria è ancora più evidente. Viene infatti sancito che “nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza”, posticipando di fatto il termine decadenziale per proporre l’azione risarcitoria, ma soltanto nel caso in cui sia stata previamente esperita l’azione d’annullamento.

Ecco allora sintetizzata in chiaro la posizione in cui si colloca il Codice in ordine alla sussistenza della “pregiudiziale amministrativa”, intermedia nel contrasto tra giurisprudenza amministrativa e ordinaria, con la quale il previo annullamento dell’atto amministrativo è necessario per poter invocare il risarcimento del danno, avendo previsto il legislatore la proponibilità di tale ultima azione anche in via autonoma ma solo entro limiti determinati (anche temporali) ed esclusivamente nei casi di giurisdizione esclusiva.

L’impressione è che il legislatore, intervenuto dopo dieci anni e tanta tortuosità di pensiero, avrebbe dovuto essere un po’ più coraggioso, sposando una scelta di campo più netta, mettendo così definitivamente la parola fine rispetto a questioni che non pare siano destinate a sopirsi.

La dottrina è già, infatti, all’opera per confezionare critiche, più o meno fondate. In particolare vi è chi dubita sul fatto che “la disciplina dell’azione risarcitoria posta dall’art. 30 del Codice risulti in linea con la legge delega che poneva come criterio il rispetto degli orientamenti delle giurisdizioni superiori visto che la Corte di Cassazione, proprio con sentenza delle S.U. del 2008, si era attestata su una posizione certamente avanzata rispetto a quella accolta dal Codice e che, più in generale, si dubita che essa sia conforme al principio costituzionale dell’effettività della tutela enfatizzato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004 e posto come principio generale del processo amministrativo dall’art. 1 del Codice. Ma oggi l’art. 30 rappresenta la soluzione di diritto positivo con la quale si deve fare i conti. In conclusione, sembra confermata nell’impostazione del Codice la preminenza dell’azione di annullamento che non è scalfita, nell’operatività concreta, né dall’azione di nullità, né dall’azione risarcitoria pura” (cfr. M. Clarich, “Azione di annullamento”, www.giustizia-amministrativa.it, 15.7.2010).

E su questo tema della conformità ai principi costituzionali, vi è chi rincara la dose ritenendo che “altra questione di cui probabilmente il Giudice delle leggi dovrà occuparsi è costituita dalla norma (contenuta nell’art. 30 del Codice), che, in violazione dei criteri previsti dalla delega, ha previsto un ridotto termine di 120 giorni per chiedere al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, il risarcimento del danno nei confronti di pubbliche amministrazioni, trasformando surrettiziamente il termine di prescrizione quinquennale applicabile tuttora innanzi all’AGO, in un termine di decadenza. Si tratta di una norma in palese contrasto con l’art. 3 Cost. (inteso non solo nella sua accezione tradizionale di principio di eguaglianza, ma anche come precetto che richiede la “ragionevolezza” nel caso di previsione di una tutela differenziata), nonché con il principio del giusto processo ormai costituzionalizzato e con gli artt. 24 e 113 Cost., che, oramai da ooltre 60 anni , assicurano pari tutela innanzi al GA ed all’AGO. La previsione di un diverso termine per la proposizione dell’azione risarcitoria nei confronti della P.A. innanzi al giudice amministrativo finisce per violare chiaramente tutti questi precetti costituzionali” (cfr. G. Virga, “Il nuovo codice del processo amministrativo ed il mito di Crono”, http://blog.lexitalia.it, 8.7.2010).

Ciò che nessuno pare aver preso in considerazione -come invece dimostra di aver fatto il legislatore e costituisce un fondamento per la giurisdizione amministrativa- è il dato oggettivo della parità delle parti, fra le quali anche la pubblica amministrazione è compresa, proprio per evitare quanto si diceva in apertura: cioè che nell’esercizio di parificazione delle parti, si debordasse nell’opposto versante. La certezza del diritto (anche per la pubblica amministrazione) comporta che essa non può essere mantenuta per un periodo di tempo troppo lungo (si pensi al termine di prescrizione quinquennale invocato dalla tesi civilistica) in posizione di vulnerabilità o sottoposta a rischi speculativi rispetto alla proposizione di un’azione risarcitoria svincolata dalla legittimità o meno di un atto frattanto consolidatosi quanto al principio contenuto ed agli effetti.

Occorre rammentare al riguardo che il fine preminente della pubblica amministrazione è quello di assicurare tramite la propria azione (ed attività provvedimentale funzionalizzata) l’interesse pubblico; dunque, non è irrilevante sottolineare come l’oggetto del risarcimento de quo sia il danno derivante da lesione di interessi legittimi, ovvero da una situazione giuridica soggettiva ontologicamente differente dal diritto soggettivo. Non un altro. Ecco allora che se il fine preminente dell’agere pubblico è ben presente e se è pure ben presente l’oggetto del risarcimento nel diritto amministrativo, qualora il privato avesse facoltà di scelta alternativamente fra azione di annullamento (in 60 giorni) e azione risarcitoria (in 120 giorni), si porrebbero ostacoli enormi al perseguimento del pubblico interesse, privilegiando un interesse privato a scapito di quello pubblico.

E’ allora innegabile che una simile possibilità di libera scelta sbilancerebbe la “parità” delle parti annoverata fra i principi di cui all’art. 1 del Codice, rovesciandolo a favore solo di una, quella privata, mantenendo invece ferma la procedimentalizzazione per quella pubblica. Siffatta impostazione violerebbe, inoltre, pesantemente i principi “pilastro” dell’agire della pubblica amministrazione che si fondano sui “vizi di legittimità”, ovvero sull’accertamento dell’illegittimità dell’atto quale elemento costitutivo della responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione, come presidio della certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico in connessione col termine decadenziale. Poiché, laddove fosse consentito al privato, rimasto inerte di fronte ad un provvedimento a lui sfavorevole, di agire per il risarcimento del danno in un ampio termine prescrizionale, le esigenze di certezza delle situazioni di diritto pubblico risulterebbero irrimediabilmente compromesse, con buona pace del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, che rischierebbe di essere vulnerato esponendo la pubblica amministrazione a rischi speculativi svincolati dall’esistenza (e verifica del) nesso causale (tra condotta antigiuridica e produzione del danno).

Ulteriore questione, evidentemente poco sentita dal monocolo civilista, ma dirimente per chi operi dentro la PA, riguarda il dato oggettivo dell’eseguibilità degli atti da parte della pubblica amministrazione, sicché il mancato annullamento di un provvedimento amministrativo (ancorché illegittimo), comporta la sua piena esistenza ed il corrispondente dovere per la pubblica amministrazione emittente di eseguirlo, poiché in caso opposto si verrebbero a determinare responsabilità di varia natura (amministrativa, erariale ed addirittura penale per abuso d’ufficio o rifiuto d’atti d’ufficio), oggi ancor più attuali, vista la “legislazione Brunetta” (legge 150/2009 e d.lgs 198/2009), che sanziona (anche attraverso specifiche disposizioni in materia di class action) pesantemente i dipendenti pubblici per la mancata applicazione o emanazione di atti.

Ecco perché nell’attuale periodo, che dopo gli anni ’90 è quello che maggiormente si caratterizza per una intensa produzione legislativa concernente la PA, occorreva una posizione del legislatore più netta e coraggiosa. Sarebbe stato sufficiente dire la parolina chiara: vige la pregiudiziale; non vige la pregiudiziale.

Resta il fatto che la Costituzione prevede nei confronti della pubblica amministrazione quale giudice naturale per la tutela degli interessi legittimi il giudice amministrativo (artt. 103 e 113), il quale non potendo disapplicare un atto amministrativo com’è nella disponibilità del giudice ordinario (ad eccezione dei regolamenti) ma potendolo annullare, non può assicurare una tutela piena ed effettiva -secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo- accertando incidentalmente dell’illegittimità senza l’annullamento del provvedimento, il quale scaduto il termine decadenziale diventa legittimo. E se l’atto è legittimo diviene difficile considerare illecita la condotta della PA e ingiusto un eventuale danno lasciato maturare dal privato eludendo gli strumenti di tutela approntati dall’ordinamento, rischiando così il maturarsi dell’irreparabile vulnus del principio di legalità espresso dall’art. 97 Cost.

In conclusione, la posizione del Codice sul tema della pregiudiziale amministrativa, definita dallo stesso legislatore “intermedia”, può essere condivisa o criticata come ogni scelta . Essa ha certamente il pregio di non essere sbilanciata a favore della posizione “tutta civilistica” (“autonomista”) o “tutta amministrativa” (“pregiudizialista”), ma ha anche un difetto genetico, quello di aver perso l’occasione di razionalizzare il processo amministrativo per blocchi di materie all’interno dei quali concentrare tutte le tutele, sul modello della giurisdizione esclusiva, per sfruttare appieno e nelle sue potenzialità la maggior semplicità e celerità del processo amministrativo.

Una sorta di “bipolarismo” …. giuridico, per usare un termine molto di moda nel politichese.

Troverà pace la “pregiudiziale amministrativa”?

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