mercoledì 10 novembre 2010

Corruzione in atti giudiziari in forma susseguente: Le Sezioni Unite Sciolgono il nodo interpretativo

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE - SENTENZA 21 aprile 2010, n.15208


MASSIMA
Il delitto di corruzione in atti giudiziari, di cui all’art. 319 ter cod. pen., può essere realizzato anche nella forma della corruzione susseguente.

Il Tribunale di Milano, con sentenza del 17 febbraio 2009, dichiarava D.D. M.M. colpevole del reato di corruzione in atti giudiziari perché, al fine di favorire S.B., e per effetto della retribuzione promessa, affermava il falso e taceva ciò che era a sua conoscenza. La Corte di appello di Milano confermava la sentenza di primo grado. Avverso tale decisione, proponevano ricorso per cassazione i difensori dell’imputato, chiedendo la rimessione alle Sezioni Unite a seguito del contrasto insorto nelle decisioni della sesta Sezione penale circa la configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari nella forma della “corruzione susseguente”.


Sottoposta allo scrutinio della Suprema Corte, nella sua più alta composizione, la configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari, di cui all’art. 319 ter cod. pen., nella forma della corruzione susseguente.
E’ proprio partendo da tale quaestio iuris che le Sezioni Unite improntano l’intero apparato motivazionale, sciogliendo in via preliminare e per evidenti ragioni sistematiche questo nodo interpretativo.
La disamina involge inevitabilmente una puntuale ricognizione dello scenario giurisprudenziale prospettatosi nel corso degli ultimi anni, sul cui sfondo sono emersi due orientamenti contrastanti, maturati entrambi all’interno della sesta Sezione penale.
Un primo filone giurisprudenziale, per vero minoritario, nega valore alla configurabilità della corruzione susseguente in atti giudiziari. In primis, si valorizza il dato normativo -in particolare l’inciso “per favorire o danneggiare una parte”- al fine di giustificare l’estraneità degli atti pregressi dall’alveo di siffatta ipotesi delittuosa. Se, cioè, la condotta incriminata, costituita dal ricevere denaro o accettarne la promessa, ha ragion d’essere solo in attesa di un atto funzionale ancora da compiersi, è ragionevole inferire che la mera remunerazione di atti pregressi esce dalle maglie del delitto de quo.
Tanto –chiosa il Collegio- vale a radicare la tensione finalistica verso un risultato, incompatibile con la proiezione verso il passato, con una situazione di interesse già soddisfatto, su cui è invece modulato lo schema della corruzione susseguente. Quest’ultima è efficacemente indirizzata e slanciata verso un risultato, cui si accompagnano atti futuri e non pregressi.
Altrimenti opinando, si sfocerebbe in una forzata interpretazione in malam partem, che all’espressione “per favorire o danneggiare” equiparerebbe quella “per aver favorito o danneggiato”, associando alla valenza finale quella causale, giungendo per tal via ad un’inevitabile violazione del principio di tassatività.
Tale orientamento è poi avallato da considerazioni di carattere sistematico. Nella fattispecie di corruzione in atti giudiziari sono equiparate le condotte di corruzione propria e impropria antecedente, perché entrambe condizionano il processo e sono espressione di un medesimo disvalore. Se si ritenesse compresa anche la corruzione susseguente, che a differenza di quella antecedente non influenza l’andamento dell’attività giudiziaria perché già compiuta, si avrebbe l’irragionevole risultato di assoggettare ad uno stesso trattamento sanzionatorio tipologie di corruzione oggettivamente diverse. Si giungerebbe così alla conseguenza di escludere, stante il generico rinvio che l’art. 321 cod. pen. fa all’art. 319 ter, la non punibilità del corruttore in caso di corruzione impropria susseguente in atti giudiziari, a dispetto di quanto per lui è previsto in ogni altro caso di corruzione impropria susseguente. L’appiattimento di diversi contenuti offensivi e lo stravolgimento della gerarchia di valori a essi sottesi integrerebbero i presupposti per più che fondati dubbi di costituzionalità.
Infine, ricostruendo la disciplina codicistica prima della novella del 1990, che ha introdotto la corruzione in atti giudiziari come fattispecie autonoma di reato, ben può riconoscersi come in passato la stessa costituiva forma aggravata della corruzione propria antecedente, tanto da richiedere un diretto rapporto causale tra il fatto di corruzione e il favore o il danno per una parte del processo, come risultava dall’inciso: “la pena è aumentata se dal fatto deriva... il favore o il danno...” del vecchio testo dell’art. 319, comma 2, n. 2, cod. pen. Sembra allora coerente ritenere che il legislatore della novella abbia mantenuto l’estraneità della corruzione susseguente all’area della corruzione in atti giudiziari.
Secondo l’opposto orientamento, ad onor del vero maggioritario, viene invece ascritto rilievo giuridico alla configurabilità della fattispecie di corruzione in atti giudiziari nella forma susseguente.
Questi i principali snodi argomentativi.
In primo luogo, si parte da una ricostruzione contenutistica degli artt. 318 e 319, da cui non può che scorgersi e la figura della corruzione antecedente e quella susseguente, il cui tratto comune è dato dal venir meno dei doveri di imparzialità e terzietà in capo all’autore del fatto. La finalità, in buona sostanza, si riferisce al fatto ed il dato di rilievo nell’integrazione del fatto-reato è che la promessa o la ricezione siano avvenute per un atto di giurisdizione o per un comportamento strumentale all’atto di giurisdizione da compiere o già compiuto per favorire o danneggiare una parte. È l’atto giudiziario che deve essere contrassegnato da una finalità non imparziale, sicché l’elemento del dolo specifico, presente nell’ipotesi di corruzione antecedente, viene meno nel caso di corruzione susseguente per essere l’atto già stato compiuto.
Chiarito ciò, l’ulteriore profilo verte sull’elemento soggettivo. A tal proposito, nella fattispecie di corruzione antecedente in atti giudiziari il dolo specifico si articola nella doppia finalità, l’una - propria della corruzione generica - consistente nell’adozione di un atto, conforme o contrario ai doveri d’ufficio, l’altra - specifica della corruzione in atti giudiziari - consistente nella violazione, per mezzo del compimento dell’atto, del dovere rafforzato di imparzialità che connota la funzione giudiziaria; nella corruzione in atti giudiziari susseguente, invece, l’elemento soggettivo si compone del dolo generico della corruzione generica e del dolo specifico proprio della corruzione in atti giudiziari che, tuttavia, si atteggia ad elemento antecedente alla condotta tipica. Il dolo specifico, nella corruzione in atti giudiziari susseguente, si incentra nel compimento dell’atto, che di per sé non è condotta punibile, rispetto al quale la successiva condotta di ricezione del denaro o di accettazione della promessa assume valenza esclusivamente causale, in presenza di un precedente comportamento orientato specificamente a favorire o danneggiare una parte processuale. “Nella fattispecie di corruzione in atti giudiziari susseguente, si ha, dunque, una causalità invertita rispetto alla fattispecie di corruzione in atti giudiziari antecedente, nel senso che l’atto (conforme o contrario ai doveri d’ufficio) costituisce il presupposto strutturale indispensabile della condotta, che assume rilievo penale solo in forza del contributo causale dell’atto stesso”.
Sullo sfondo delle opzioni ermeneutiche passate al setaccio, si staglia dunque il quesito sopra enunciato.
Orbene, la Corte Suprema, riunita a Sezioni Unite, con la sentenza quivi in epigrafe, sposa l’orientamento prevalente, plaudendo alle argomentazioni addotte a sostegno.
E’ il tenore letterale a dirimere la controversia ermeneutica.
Ancora una volta, il giudice nomofilattico prende le mosse dalla disamina della norma di cui all’art. 319 ter cod. pen., sul cui sfondo fa barlume la configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari nella forma della corruzione susseguente. Occorre procedere –recitano i giudici- dal primo canone interpretativo che promana dall’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, quello letterale, in virtù del quale il senso da attribuire alla legge è quello “fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”, di guisa che, solo ove tale strada risulti irta o impercorribile, si potrà poi procedere per altro senso.
Altrimenti opinando, si giungerebbe all’irragionevole conseguenza di forzare il significato della legge, modificando talora la voluntas legis, proprio ove, a seguito di un’attenta analisi della norma e della sua portata precettiva, risulti inequivocabilmente espressa tale volontà.
Nel solco di tale principio, la Corte Suprema supera l’impasse interpretativo, ritenendo che l’applicazione del canone ermeneutico letterale alla formulazione dell’art. 319 ter c.p. elimina la possibilità di un’interpretazione riduttiva, non residuando dubbio alcuno sul mero rinvio della norma alle disposizioni di cui agli artt. 318 e 319 (“i fatti indicati negli articoli 318 e 319”) risultando di non poco momento la riconducibilità a tali disposizioni di tutti i tipi di corruzione: propria, impropria, antecedente e susseguente.
Richiamati i precedenti giurisprudenziali, linee guida per la sentenza in esame, il Collegio precisa che il “fine di arrecare vantaggio o danno nei confronti di una parte processuale va riferito al pubblico ufficiale, poiché è questi che, compiendo un atto del proprio ufficio, può incidere sull’esito del processo: è l’atto o il comportamento processuale che deve, dunque, essere contrassegnato da una finalità non imparziale (non la condotta di accettazione della promessa o di ricezione del denaro o di altra utilità) e l’anzidetta peculiare direzione della volontà è un connotato soggettivo della condotta materiale del pubblico ufficiale.
Ciò che conta è la finalità perseguita al momento del compimento dell’atto del pubblico ufficiale: se essa [per qualsiasi motivo: ad esempio, rapporti di amicizia o di vicinanza culturale o politica; prospettive di vantaggi economici o di benefici pubblici o privati; sollecitazioni della parte interessata o di altri] è diretta a favorire o danneggiare una parte in un processo, è indifferente che l’utilità data o promessa sia antecedente o susseguente al compimento dell’atto, come pure è irrilevante stabilire se l’atto in concreto sia o non sia contrario ai doveri di ufficio.
La finalità si riferisce al fatto ed il valore del profilo soggettivo diviene così preponderante ai fini della ipotizzabilità del fatto di corruzione giudiziaria da cancellare la distinzione tra atto contrario ai doveri di ufficio e atto di ufficio, rimanendo esponenziale il presupposto che l’autore del fatto sia venuto meno al dovere di imparzialità e terzietà (non solo soggettiva ma anche oggettiva) costituzionalmente presidiato, così da alterare la dialettica processuale.
L’elemento soggettivo peculiare finalizza la stessa tipicità dei fatti previsti dagli artt. 318 e 319 cod. pen. entro un ambito puntualmente delimitato dalla finalità del contegno”.
Giova peraltro sottolineare il rapporto di specialità sussistente tra la corruzione “comune” di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen. e la corruzione in atti giudiziari, con la conseguenza che la species di cui all’art. 319 ter contiene tutti gli elementi del genus più quello specializzante, consistente “nel favorire o danneggiare una parte”. Alla luce di simili rilievi, gioca un ruolo decisivo l’ulteriore valutazione dello scopo perseguito con la legge 86/1990 che ha previsto l’introduzione dell’autonoma figura delittuosa per la corruzione in atti giudiziari, apprestando una più incisiva tutela della funzione giurisdizionale, non comprendendo per quale ragione ciò dovrebbe valere solo per la corruzione antecedente e non anche per quella susseguente. In altre parole, il legislatore ha inteso sanzionare più efficacemente la condotta della corruzione in atti giudiziari, prevedendo un’autonoma figura di reato in sostituzione della previgente circostanza aggravante, sì da apparire incongruo che lo stesso da un lato abbia attribuito maggior gravità a tale condotta, creando un’ipotesi di reato autonomo, e dall’altro abbia escluso la corruzione susseguente, quasi che tale fattispecie presenti minor disvalore sociale.
Alla stregua delle argomentazioni dianzi svolte, il giudice nomofilattico suggella il seguente principio di diritto, quale risposta alla quaestio iuris controversa: “il delitto di corruzione in atti giudiziari, di cui all’art. 319 ter cod. pen. è configurabile anche nella forma della corruzione susseguente”.
Ultimo profilo che merita di essere menzionato è la questione relativa al momento di consumazione del reato.
Ricordano le Sezioni Unite della Suprema Corte che il tema della consumazione del reato di corruzione, ivi compresa la fattispecie di corruzione in atti giudiziari, è stato affrontato e risolto ricorrendo alla categoria del duplice schema. Tali delitti prevedono infatti la punibilità del pagamento della somma di denaro e, altresì, il perseguimento della promessa di denaro “anticipando la soglia della punibilità, per una tutela del bene protetto”. Se ne inferisce che, se la promessa non viene seguita dalla dazione, il momento consumativo coincide con la promessa, ove questa sia seguita dal pagamento del prezzo, il reato si considera consumato in tale momento.
Sulla scorta di siffatto impianto motivazionale, la Corte di Cassazione, riunita a Sezioni Unite -preso atto nella vicenda de qua dell’avvenuta promessa seguita dalla dazione- afferma, dunque, che la consumazione del reato sia avvenuta nel momento in cui l’imputato si comportò “uti dominus nei confronti della somma che prima era gestita indistintamente”, esteriorizzando l’intenzione di farla propria nel novembre del 1999, in cui compì il primo atto di utilizzazione di tale somma.
Precipitato logico-giuridico, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il reato è estinto per intervenuta prescrizione.


TESTO DELLA SENTENZA

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE - SENTENZA 21 aprile 2010, n.15208 - Pres. Gemelli - est. Fiale

Svolgimento del processo



Il Tribunale di Milano, con sentenza del 17 febbraio 2009, dichiarava D. D. M. M. colpevole del reato di corruzione in atti giudiziari e lo condannava alla pena principale di anni quattro e mesi sei di reclusione, a quella accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni, nonché al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, Presidenza del Consiglio dei Ministri, liquidato in complessivi euro 250.000,00, oltre che alla rifusione delle spese di costituzione e patrocinio.

All’imputato - a seguito della modifica dell’imputazione effettuata, ad istruzione dibattimentale già iniziata, all’udienza del 14 dicembre 2007, ed essenzialmente incentrata su una diversa descrizione, rispetto alla originaria contestazione, delle modalità esecutive del fatto storico, rimasto identico nei suoi elementi essenziali, e su una diversa data di commissione del fatto (29 febbraio 2000 in luogo di 2 febbraio 1998) - era stato contestato:

- il delitto di cui agli artt. 110, 319, 319 ter cod. pen. “perché, in concorso con S. B., deponendo M., in qualità di testimone, nei processi penali a carico di B. denominati:

Arces ed altri, relativo a reati di corruzione nei confronti di militari della Guardia di Finanza;

All Iberian, relativo a reati di falso in bilancio della “F. spa” e finanziamento illegale dei partiti politici,

accettava da C. B., su disposizione di S. B., la promessa di una somma di danaro per compiere atti contrari ai doveri d’ufficio del testimone, denaro confluito, e di seguito occultato, nella massa di fondi di proprietà di D. A. movimentati - su istruzioni di M. - presso conti bancari a Londra, in Svizzera a Gibilterra e altrove attraverso plurime operazioni di trasferimento e investimenti azionari ed infine entrato nella disponibilità di D. M. con l’intestazione a suo nome, in data 29 febbraio 2000, di 2.802 unità del fondo T. G. O. F. del valore nominale di 600.000 dollari.

In particolare, al fine di favorire S. B., e per effetto della retribuzione promessa, affermava il falso e taceva ciò che era a sua conoscenza in ordine al ruolo dello stesso B. nella struttura di trust, società offshore e fondi extra bilancio creata dallo stesso M. alla fine degli anni ‘80 e convenzionalmente denominata “F. B Group”, utilizzata nel corso del tempo per attività illegali e operazioni riservate del Gruppo F.:

- nel corso dell’escussione in data 20 novembre 1997 nel procedimento Arces:

1. omettendo di dichiarare, pur specificamente interrogato, che la proprietà delle società offshore del F. B Group faceva capo a S. B.;

2. omettendo di riferire la circostanza del colloquio telefonico avuto con S. B. nella notte di giovedì 23 novembre 1995, avente quale argomento la società All Iberian e il finanziamento illegale di 10 miliardi di lire erogato da B., tramite All Iberian, a B. C.;

3. dichiarando circostanze false in ordine al compenso di circa 1,5 milioni di sterline (c.d. dividendo Horizon) ricevuto una tantum nel 1996 a seguito di accordi con S. B., affermando che si trattava di una plusvalenza di spettanza di quella società che “i clienti” avevano ritenuto al momento di non ritirare;

- nel corso dell’escussione in data 12 gennaio 1998 nel procedimento All Iberian:

4. evitando nuovamente di rispondere alle domande sulla proprietà delle società offshore (cfr. pag. 121 ss. verbale d’udienza 12.1.1998: “non spetta a me dire chi è il proprietario, chi no” e pag. 129: “per rispondere alla sua prima domanda sulla proprietà, cioè vorrei chiarire un po’ la questione. La proprietà è rimasta un po’ vaga, come dicevo prima, perché nessuno ha detto: io sono il proprietario di queste società... il cliente era il gruppo F.);

5. per quanto riguarda “C. O. L.” e “U. O. L.” società offshore costituite da M. per conto di S. B., che avevano ricevuto dal gruppo F. - a fronte di fittizie vendite di diritti televisivi - ingenti rimesse di denaro su conti bancari presso BSI Lugano, somme successivamente prelevate in contanti (per circa 50 min di euro) da P. D. B. e altre persone della fiduciaria A.:

a) omettendo di riferire che beneficial owners di dette società, in forza di accordi di trust stipulati dallo stesso M., erano M. e P. B.;

b) omettendo di riferire quanto a sua conoscenza in ordine al legame diretto esistente tra P. D. B. della fiduciaria A. e la famiglia B.

In Milano, Londra, Ginevra, Gibilterra e altrove fino al 29 febbraio 2000”.

Il Tribunale riteneva che i fatti accertati nel corso dell’istruzione dibattimentale integrassero gli estremi oggettivi e soggettivi del delitto di cui all’art. 319 ter cod. pen., essendo in particolare emersa la natura antecedente delle condotte corruttive giudicate, giacché “l’imputato aveva assunto la qualità di pubblico ufficiale in quanto testimone in due processi penali, gli erano state promesse ed aveva infine ricevuto in più occasioni somme per rendere una testimonianza non genuina, ossia tacere quanto sapeva al fine di favorire uno degli imputati di quei procedimenti”.

La Corte di appello di Milano - con sentenza del 27 ottobre 2009 - confermava la sentenza di primo grado, impugnata dai difensori di M. La stessa Corte rigettava in particolare:

a) la richiesta di rinnovazione parziale del dibattimento (consistente nell’effettuazione di perizia, nell’audizione di vari testi, nella produzione di sentenze, nonché nell’audizione ex art. 210 c.p.p. di S. B.), ritenendo carenti i presupposti di cui all’art. 603 c.p.p.

b) le eccezioni di nullità della richiesta di rinvio a giudizio, per violazione dei termini di cui all’art. 415 bis c.p.p., e di nullità del decreto che dispose il giudizio, per genericità del capo di imputazione e violazione dell’art. 37, 2° comma, c.p.p.;

c) le doglianze articolate in gravame avverso le seguenti ordinanze del Tribunale:

ordinanza in data 13 aprile 2007, con cui era stata rigettata l’eccezione difensiva rivolta ad ottenere l’esclusione dal fascicolo per il dibattimento dei files estratti dai computers di M. per violazione degli artt. 360 e 191 c.p.p.;

ordinanza, sempre in data 13 aprile 2007, con cui era stata rigettata l’eccezione di inutilizzabilità dei documenti estratti dalla memoria remota dei computers, asseritamente non sequestrabili, ex art. 103, 6° comma, c.p.p., poiché costituenti parte della corrispondenza tra l’imputato ed il difensore;

ordinanza in data 27 aprile 2007, di rigetto della richiesta di ammissione di testimoni indicati nelle liste testi ritualmente depositate della difesa;

ordinanza in data 13 luglio 2007, di rigetto dell’eccezione riferita alla illegittimità della escussione del teste A. senza le garanzie previste dall’art. 210 c.p.p.;

ordinanza in data 19 ottobre 2007, con cui, in difformità rispetto a quanto prospettato dalla difesa, era stato ritenuto insussistente il segreto professionale invocato dai testi escussi per rogatoria a Londra nei giorni dal 24 al 27 settembre 2007;

ordinanza in data 5 dicembre 2008, di rigetto della eccezione di nullità, e/o di inutilizzabilità, degli atti rogatoriali svolti a Londra fra il 24 e il 27 settembre 2007, poiché il Tribunale non aveva presenziato all’incombente in questione;

d) l’eccezione di nullità della decisione di primo grado, ex art. 521 c.p.p., per mancata correlazione tra accusa e sentenza, articolata sull’assunto che - mentre il capo di imputazione considerava il c.d. “dividendo Horizon” semplicemente come oggetto di una delle reticenti deposizioni testimoniali rese dal M. - il Tribunale, invece, avrebbe considerato il dividendo medesimo quale “frutto della primigenia promessa intercorsa tra gli originari coimputati, alla quale ancorare ogni successiva, ulteriore dazione illecita”, essendo stato così introdotto in sentenza un non consentito elemento di novità.

Sul merito della vicenda la Corte territoriale ribadiva anzitutto che il dividendo Horizon non rappresentava in tesi accusatoria, né aveva rappresentato per i giudici di primo grado, il prezzo della corruzione.

Disattendendo, poi, le prospettazioni difensive (secondo cui, in relazione ai processi Arces e All Iberian, M. avrebbe dovuto essere sentito non già come testimone bensì nella veste di imputato di reato connesso ex art. 210 c.p.p. giacché detti processi erano la gemmazione di altro processo, denominato “Agrama”, in cui M. era imputato per concorso in frode fiscale e riciclaggio unitamente a managers del gruppo F. e a S. B.), osservava, da un lato che, come già sostenuto dal Tribunale, la garanzia prevista dall’art. 210 c.p.p. era prevista dall’ordinamento a favore del medesimo soggetto chiamato a deporre e non poteva valere allorché lo stesso rendesse una falsa deposizione, e, dall’altro, che, dovendo il collegamento probatorio tra procedimenti essere accertato in concreto, le vicende per le quali M. era indagato al momento della sua assunzione come teste non si palesavano “in rapporto diretto” con quelle oggetto dei procedimenti in cui lo stesso aveva avuto a deporre. Né il “dividendo Horizon” era mai stato ritenuto oggetto di favoreggiamento reale (ciò che avrebbe imposto l’audizione di M. ex art. 210 c.p.p. quale indiziato di tale reato), ma solo oggetto di falsa dichiarazione da parte del teste.

Rilevava quindi la Corte - in ordine alla qualificazione giuridica dei fatti - che, nella specie, doveva ritenersi consumata una corruzione non già antecedente, bensì susseguente in atti giudiziari.

Contrariamente a quanto prospettato dalla difesa [che, facendo leva sull’indirizzo giurisprudenziale di legittimità espresso dalla Cassazione nella sentenza della Sez. VI, 4.5.2006, n. 33435, Battistella, aveva sostenuto l’inconfigurabilità di una simile ipotesi], osservava la Corte che doveva aderirsi, in senso opposto, all’altro e più recente orientamento giurisprudenziale [espresso da Cass., Sez. VI, 20.6.2007, n. 25418, Giombini] pienamente valorizzante il richiamo, da parte dell’art. 319 ter cod. pen., all’integrale contenuto degli artt. 318 e 319 cod. pen.: in detta prospettiva l’elemento finalistico secondo il modello del dolo specifico era tale da designare solo la c.d. corruzione antecedente, propria o impropria, mentre la comune genericità del dolo nella corruzione susseguente doveva trovare giustificazione nella forza causale (non finalistica) della ricezione del compenso o dell’accettazione della promessa.

Del resto, con la legge n. 86 del 26.4.1990 (che ha introdotto nel nostro ordinamento l’art. 319 ter cod. pen.) il legislatore aveva inteso sanzionare più efficacemente la condotta della corruzione in atti giudiziari, prevedendo un’autonoma figura di reato in sostituzione della previgente circostanza aggravante, sì da apparire incongruo che il legislatore medesimo da un lato avesse attribuito maggior gravità a tale condotta, creando un’ipotesi di reato autonomo, e dall’altro avesse escluso la corruzione susseguente, quasi che tale condotta fosse di minor danno e di minor disvalore sociale.

Che, nella specie, si fosse trattato di corruzione susseguente, era desumibile dagli elementi “certi” presenti in atti, evidenzianti la promessa di un compenso posta in essere nell’autunno 1999, e cioè in epoca successiva rispetto alle deposizioni testimoniali di M. Anche il capo di imputazione, dovendo “storicizzare” le circostanze e collocarle temporalmente in relazione ai fatti emersi, era stato costruito come corruzione susseguente, ivi parlandosi di una promessa di B. avvenuta nell’autunno 1999 e di un compenso disponibile successivamente a tale data, tanto che il momento consumativo del reato era stato indicato in rubrica (a seguito della modifica operata dal pubblico ministero in udienza) nel 29 febbraio 2000, data in cui M. si era infatti fatto intestare n. 2.802.822 quote del T. G. F. per un equivalente di 600.032,00 dollari. Di contro non vi era alcun dato che indicasse raccordo come intervenuto in epoca precedente alle dichiarazioni rese da M. come teste. Né era necessario che la falsa testimonianza di M. dovesse avere prodotto un tornaconto alla parte (inesistente, secondo la difesa), essendo sufficiente che la condotta fosse semplicemente finalizzata a produrre un vantaggio, indipendentemente dall’effettività dello stesso (e ciò, peraltro, a prescindere dall’intervenuta adozione di una sentenza fondata sulla testimonianza falsa o reticente).

In relazione al momento consumativo del reato, osservava la Corte che - in conformità a quanto già ritenuto dal Tribunale, che aveva individuato tale momento, in adesione alla tesi accusatoria, con la data nella quale le quote del T. G. O. F. erano state intestate a M. (il 29 febbraio del 2000), perfezionandosi il reato di corruzione con il pagamento del prezzo, o, meglio, con la disponibilità della somma promessa - doveva ritenersi che effettivamente solo in quella data il compenso era entrato nella disponibilità di M., (senza che, peraltro, come già chiaro anche al giudice di primo grado, potessero rilevare, ai fini del momento consumativo, le varie operazioni poste in essere dall’imputato al fine di rendere impossibile l’individuazione della somma corruttiva di 600.000 dollari).

In particolare lo stesso M. aveva affermato di essere stato messo al corrente di una somma in suo favore nell’ottobre del 1999 e, tuttavia, la stessa era passata, attraverso una serie vorticosa di movimenti, dal patrimonio indistinto gestito da M. in Struie per tutta una serie di clienti, al suo patrimonio personale solo in data 29 febbraio 2000: questo era dunque il momento da cui far decorrere, contrariamente a quanto opinato dalla difesa, il termine per la prescrizione. Tale momento era del resto provato documentalmente da plurimi atti e segnatamente: a) la lettera 4.2.2000 con cui M. aveva ordinato ad H. Q. e A. M., amministratori di Struie, di dare istruzioni ad H. (gestore di T.) di trasferire quote del T. G. F. da Struie a lui personalmente; b) la lettera indirizzata a H. con cui M. aveva dato mandato di trasferire le quote del T. G. F. per il valore di 600.000 dollari a M.; c) la lettera con cui H. aveva comunicato a M. l’esecuzione del trasferimento avvenuto il 29 febbraio 2000.

Il trasferimento delle quote, avvenuto senza accredito a Struie del relativo importo, aveva dunque segnato il momento dell’effettiva titolarità delle stesse in capo a M., realizzandosi pienamente, il 29 febbraio 2000, la promessa dell’ottobre 1999; a tali fini precisava poi la Corte che doveva considerarsi irrilevante la monetizzazione di tali quote, sostanzialmente avvenuta solo nell’ottobre 2000 (come riscontrato dalla lettera indirizzata il 4 maggio 2004 allo S.C.O. da S. M., consulente fiscale di M.), già rappresentando, comunque, il trasferimento delle quote del T. G. F., per un valore corrispondente alla somma di 600.000 dollari, l’esclusiva locupletazione del prezzo corruttivo, indipendentemente dalla successiva monetizzazione delle stesse.

Individuato dunque il momento di consumazione del reato nella data del 29 febbraio 2000, non era allora maturato il termine di prescrizione di dieci anni, cui comunque andava aggiunto un termine di 42 giorni di sospensione per effetto dell’ordinanza del Tribunale del 7 marzo 2008.

Quanto alle statuizioni civilistiche, la Corte di merito osservava che il danno in oggetto era pacificamente di natura non patrimoniale, riconoscibile anche per le persone giuridiche, e derivava dalla lesione degli interessi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione della giustizia, rappresentata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Le conseguenze non patrimoniali derivanti dalla lesione di un diritto della persona (fisica o giuridica) non erano per loro natura suscettibili di una matematica conversione monetaria ed erano dimostrabili per presunzioni o fatti notori e quindi sottomesse alla valutazione equitativa del giudice.

Avverso la predetta sentenza della Corte di appello di Milano hanno proposto ricorso per cassazione i difensori del M., articolando plurimi motivi di gravame.

1. Con il primo motivo sono state impugnate alcune ordinanze dibattimentali, pronunciate dal Tribunale e confermate dalla Corte di appello.

Sono state formulate, nello specifico, le seguenti confutazioni:

1.1 Ordinanza del 13 aprile 2007, di rigetto dell’eccezione di inutilizzabilità dei files estratti dal computer dell’imputato nel corso della perquisizione avvenuta all’estero.

Detta ordinanza avrebbe violato norme processuali stabilite a pena di nullità ed inutilizzabilità, poiché l’estrazione dei dati sarebbe avvenuta senza il rispetto delle garanzie previste dall’art. 360 c.p.p., seppure in conformità alla lex fori dello Stato richiesto, e quindi al giudice italiano ne sarebbe preclusa l’utilizzazione. L’operazione di estrazione di dati, infatti, dovrebbe essere qualificata come “accertamento irripetibile”, in quanto idonea ad esporre i dati stessi a facili alterazioni, danneggiamenti o distruzioni.

1.2 Ordinanza del 13 aprile 2007, di rigetto dell’eccezione di inutilizzabilità dei files estratti dal computer dell’imputato nel corso della perquisizione avvenuta all’estero, files che costituirebbero parte della corrispondenza tra imputato e difensore.

Detta ordinanza avrebbe violato norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità. Dalla memoria del computer dell’imputato sono stati estratti carte e documenti relativi all’oggetto della difesa, indicati in SPC8, SPC9, SPC11, SPC12, SPC13, SPC14, SPC15, SPC16, SPC21, SPC25, SPC26. Tali documenti costituirebbero le bozze, progressivamente affinate, di una memoria difensiva - in vista della convocazione innanzi ai pubblici ministeri milanesi nell’ambito di un procedimento penale allora pendente - che l’imputato aveva concordato con il suo difensore, come si evincerebbe dalle e-mail di accompagnamento prodotte nel dibattimento.

I giudici di merito avrebbero del tutto ignorato i dati incontrovertibili dell’inerenza di siffatti documenti alla corrispondenza con il difensore, in vista dell’esercizio della difesa, ed avrebbero quindi incongruamente negato l’esistenza su di essi del “privilegio legale”, di cui all’art. 103, comma 6, c.p.p.

1.3 Ordinanza del 27 aprile 2007, di rigetto delle richieste difensive di ammissione di testimoni indicati nelle liste ritualmente depositate.

L’ordinanza incorrerebbe in un’errata interpretazione degli artt. 191, comma 1, e 495 c.p.p., avendo utilizzato le nozioni di “inconferenza” e “sovrabbondanza” per eludere la portata e lo spirito di dette disposizioni.

La legge, di contro, prevede che il giudice escluda l’ammissione delle prove vietate e di quelle manifestamente superflue o irrilevanti, facendo sì che la regola sia l’ammissione delle prove dedotte dalle parti e non certo il contrario. Il potere di riduzione della lista testimoniale, se esercitato prima dell’inizio dell’istruttoria dibattimentale, non può che risultare drasticamente compresso ed il mancato rispetto degli angusti confini entro cui detto potere va esercitato si risolve nella violazione del diritto di difesa.

1.4 Ordinanza del 13 luglio 2007, di rigetto dell’eccezione sulla mancata escussione del dott. Attanasio con le garanzie dell’art. 210 c.p.p.

Il giudice del merito non ha provveduto all’audizione nelle forme dell’art. 210 c.p.p. del dott. Attanasio, imputato in altro connesso procedimento penale, ancora non definito con sentenza passata in giudicato, benché avesse affermato la necessità di accertamento del collegamento probatorio. Ha omesso, infatti, di valutare il concreto collegamento tra i procedimenti sulla base degli atti e dei documenti acquisiti in dibattimento.

La sentenza non definitiva pronunciata dal Tribunale di Salerno nei confronti del dott. A. avrebbe evidenziato inequivoci elementi di contiguità tra A. stesso e l’operato dell’odierno imputato, tenuto conto che l’A. è stato condannato in primo grado per diversi fatti di corruzione, falso in bilancio e frode fiscale, alcuni dei quali, almeno, rivelavano una sicura contiguità con l’attività professionale di M., anche in relazione ad alcune società. Risulterebbe quindi, già dalla lettura di detta sentenza di condanna, l’infondatezza dell’affermazione contenuta nell’impugnata ordinanza, secondo cui l’unico collegamento con il processo avanti al Tribunale di Salerno sarebbe consistito nel fatto che M. amministrava i fondi dell’A.

Doveva essere apprezzato, pertanto, un indubbio collegamento probatorio, che avrebbe imposto l’osservanza, nell’esame del dott. Attanasio, delle modalità di cui all’art. 210 c.p.p., anche in ragione delle risultanze delle indagini svolte dopo l’interrogatorio dello stesso nel dicembre 2005. Il riferimento è all’acquisizione della documentazione presso lo studio di revisione contabile E. & Co., che è lo studio che aveva proceduto, su incarico del dott. A. e previo accordo con M., all’assoggettamento a tassazione fiscale presso l’I. R. di diverse società dell’A. Da questa documentazione e da quella relativa ad altri trasferimenti di denaro - da M. P. B. a H. T. dell’A. e poi al c/c 700807 presso la C.I.M. Banque e nella disponibilità dell’odierno imputato - si poteva ben desumere che la somma di 600.000 dollari, confluita sui conti di M. attraverso i prodotti finanziari denominati “Giano Capital” e “Torrey Global Offshore Fund”, traeva origine da operazioni imprenditoriali strettamente correlate ai fatti posti alla cognizione del Tribunale di Salerno.

1.5 Ordinanza del 19 ottobre 2007, di rigetto dell’eccezione sulla sussistenza del segreto professionale invocato dai testimoni escussi per rogatoria a Londra.

L’ordinanza avrebbe violato le disposizioni di cui agli artt. 191 e 200 c.p.p., affermando l’inapplicabilità del segreto professionale ai testimoni escussi a Londra, in quanto considerati soggetti non riconducibili alle categorie di professionisti indicati dall’art. 200 c.p.p.

La questione riguarda la necessità di applicare la tutela del segreto professionale a cittadini stranieri, non iscritti in albi professionali italiani ma in albi istituiti nel Paese di appartenenza, o di cittadini stranieri non iscritti in questi ultimi ma svolgenti mansioni lavorative identiche a quelle per le quali il professionista italiano, in territorio italiano, può invocare il segreto. Secondo la prospettazione difensiva, alla corretta soluzione si perverrebbe avendo attenzione alla ratio della norma, che porrebbe garanzie a tutela di determinate categorie professionali a prescindere dall’allocazione geografica dei soggetti interessati ed in ragione dell’attività da costoro concretamente svolta. La tutela del segreto si estenderebbe poi agli esercenti qualsivoglia attività professionale che implichi la conoscenza di informazioni altrimenti riservate. Il potere di opporre il segreto professionale si sarebbe dovuto riconoscere, quindi, ai signori D. e B., svolgenti attività del tutto assimilabili a quella di dottore commercialista, per di più previa iscrizione al loro equivalente Ordine professionale. Allo stesso modo si sarebbe dovuto operare riguardo agli altri soggetti svolgenti attività in tutto e per tutto analoga a quella espletata dai commercialisti italiani.

1.6 Ordinanza del 5 dicembre 2008, di rigetto dell’eccezione di nullità o inutilizzabilità degli atti rogatoriali svolti a Londra nel settembre 2007, poiché l’Autorità giudiziaria italiana non aveva presenziato allo svolgimento dell’incombente istruttorio.

L’ordinanza è stata impugnata per violazione delle disposizioni di cui gli artt. 178, lett. a), 179 e 191 c.p.p.

Gli atti assunti per rogatoria avanti ai magistrati inglesi, pur in conformità alla lex loci ma in assenza del giudice italiano, sarebbero affetti da nullità assoluta ex art. 179 c.p.p., sicché sarebbe errato il riferimento del Tribunale all’art. 182 c.p.p., che preclude l’eccezione di nullità per chi ha concorso al suo compimento, nel caso di specie alla difesa dell’odierno imputato che aveva chiesto all’Autorità giudiziaria straniera di non far presenziare l’Autorità giudiziaria italiana all’assunzione dei testimoni nella parte assoggettabile potenzialmente alle previsioni sul segreto professionale.

Sono state poi articolate nel ricorso le seguenti ulteriori eccezioni:

2. Violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.

L’elemento di diversità tra l’imputazione e la sentenza di primo grado viene individuato nella circostanza che il “dividendo Horizon” sarebbe stato considerato, in sentenza, quale somma di denaro che l’imputato poteva trattenere per sé, a titolo di compenso delle sue reticenti ed elusive deposizioni testimoniali, mentre, nella descrizione imputativa, il dividendo medesimo era menzionato soltanto come oggetto di una delle asseritamente reticenti deposizioni testimoniali nell’ambito dei procedimenti “Arces” e “All Iberian”. La Corte di appello sarebbe incorsa in errore affermando, sul punto, che la sentenza di primo grado ha inteso il “dividendo Horizon” come antefatto storico, inserito nel rapporto tra odierno imputato e Gruppo F., e mai come prezzo della corruzione.

3. Travisamento della prova, per estensione del concetto di “confessione” a dichiarazioni non aventi tale valore, e difetto di motivazione per omissione delle verifiche di attendibilità e genuinità delle dichiarazioni dell’imputato.

La Corte di appello ha attribuito, al pari del Tribunale, valore confessorio alle dichiarazioni dell’imputato (confessione stragiudiziale, per quel che attiene alle dichiarazioni contenute nella lettera destinata a R. D.; confessione giudiziale per quel che attiene alle dichiarazioni rilasciate nel corso dell’interrogatorio del 18-19 luglio 2004 reso al pubblico ministero di Milano), ritenendo che esse non siano state smentite dagli scritti e dai documenti provenienti dallo stesso imputato e acquisiti agli atti.

In particolare, i giudici di merito non hanno riconosciuto attendibilità alla c.d. “ritrattazione” e cioè alle dichiarazioni con cui M. ha successivamente riferito ai rapporti professionali con A. la ricezione della somma di 600.000 dollari. Hanno sul punto rilevato che A. non ha dichiarato che detta somma fosse riconducibile al proprio patrimonio personale e che le consulenze tecniche non hanno escluso che nel contenitore, costituito dal patrimonio di detto imprenditore, fossero state immesse e confuse altre e diverse somme riconducibili a C. B. del Gruppo F. Gli stessi giudici non avrebbero così adempiuto il dovere di puntuale verifica intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni, laddove si evidenzierebbe, invece, che in nessuna dichiarazione l’imputato ha inteso confessare la perpetrazione di un reato, tantomeno il reato di corruzione in atti giudiziari.

Il valore delle dichiarazioni di ritrattazione sarebbe confermato: dalle dichiarazioni dei testimoni D. e B.; dai documenti bancari e dalle movimentazioni finanziarie dei conti correnti di Struie e dell’odierno imputato; dall’operatività delle strutture estere riconducibili ad Attanasio; dagli accertamenti riguardanti gli investimenti negli strumenti finanziari hedge fund e Torrey Global, asseritamente attuati dal Gruppo F. Le primigenie dichiarazioni dell’imputato, circa somme di denaro immesse da C. B. in Struie negli anni 1997 e 1999, infine, non sono state confermate dal rinvenimento di traccia alcuna di detti conferimenti.

4. Difetto di motivazione in merito alla scindibilità della confessione sul punto concernente l’individuazione del momento consumativo del reato.

I giudici di merito avrebbero irragionevolmente frazionato il giudizio di veridicità e attendibilità dell’apporto dichiarativo confessorio, giungendo ad una valutazione positiva dello stesso nel suo complesso, ma nel contempo scindendo la sola parte rilevante per la determinazione del momento consumativo del preteso reato. In entrambe le dichiarazioni c.d. confessorie l’imputato ha affermato di aver ricevuto la disponibilità di 600.000 dollari nell’autunno del 1999; i giudici, invece, hanno spostato il momento consumativo alla primavera del 2000, senza dare adeguata motivazione delle ragioni per le quali, per questa parte, non hanno riconosciuto credibilità alle dichiarazioni di M.

5. Violazione di legge, omessa assunzione di prove decisive e difetto di motivazione per la parte in cui la sentenza si occupa delle “consulenze tecniche”.

La difesa si riferisce, in proposito, al tema relativo alle diverse, presunte, anomalie che i giudici avrebbero riscontrato nelle movimentazioni di denaro aventi ad oggetto quel patrimonio di D. A. che, secondo l’accusa, “sarebbe stato in qualche modo contaminato dalla provvista B., ossia dal prezzo della corruzione contestata a D. M.”.

Viene prospettato in ricorso che la Corte territoriale, nella ricostruzione dei fatti, erroneamente avrebbe attribuito rilevanza decisiva ad un’operazione in forza della quale dall’intera provvista di 10.000.000 dollari, pervenuti su M. P. da disponibilità economiche dell’A., dovrebbe essere dedotta la somma di 2.500.000 dollari (rimborsata alla Compagnie M. de Banque di Montecarlo, perché da quella elargita a titolo di prestito alla società O. S. S.). Tutte le consulenze in atti, invece, avrebbero smentito un tale assunto e quindi la Corte avrebbe utilizzato un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale.

La Corte, inoltre, ha ritenuto irrilevante l’esame di altre sei operazioni sospette (nella gestione dei fondi attuata da M.), dimenticando che l’imputazione, come modificata il 14 dicembre 2007, presupponeva una confusione delle somme provenienti da B., asseritamente prezzo della corruzione, nell’ampio contenitore delle disponibilità finanziarie dell’A., gestite dal M. Sarebbe allora stato importante accertare come e quando questa confusione fosse avvenuta e il fatto che la Corte territoriale a tanto non abbia provveduto sostanzierebbe il vizio di omessa valutazione di una prova decisiva. Lo stesso consulente del pubblico ministero avrebbe smentito la circostanza che dai fondi trasferiti presso M. P. in data 17 luglio 1997 fosse stata decurtata la somma di 2.500.000 dollari e agli atti del processo non c’è traccia di un trasferimento bancario che sia andato a restituire al conto dell’A., acceso presso la Compagnie M., la somma di 2.500.000 dollari, sì da creare quello “spazio” nello “scatolone M.” che, secondo la Corte, avrebbe potuto “ospitare” “la dazione B.”. Dai documenti prodotti dalla difesa nel processo di merito si ricaverebbe, invece, che la somma di 2.500.000 dollari era stata trasferita a Struie e da essa era sorto quel “rivolo” di denaro che - da Giano Capital al Torrey Global Fund, fino a Centurion - ha dato vita alla somma di 600.000 dollari citata dal M. nella lettera a B. D.

Circa poi le dichiarazioni dibattimentali di A. (udienza 13 luglio 2007), che ha riferito di aver affidato a M. la somma di 12.500.000 - 13.000.000 dollari, sì da rendere plausibile l’esistenza di uno spazio di 2.500.000 dollari, occorre tener presente che nello stesso contesto temporale furono vendute la motonave Ravello e la motonave Ocean Installer e i ricavi furono affidati tutti alla gestione di M., sicché è assolutamente verosimile ritenere che A. si riferisca anche ai ricavi della vendita della motonave Ravello, smentendo ciò che la Corte ha affermato e cioè che il M. avrebbe occultato la provvista B. nelle maggiori somme di A., rinvenienti dalla cessione della motonave Ocean Installer, Se la Corte non avesse fatto affidamento su questo dato errato, avrebbe approfondito altri aspetti della vicenda e avrebbe evitato di incorrere nel vizio di motivazione. In particolare avrebbe provveduto all’audizione testimoniale di Isaac M. per fare luce sul fatto dell’ingresso nel conto clienti dello stesso M., il 25 giugno 1998, della somma di 1.125.000,00 sterline, e avrebbe appurato che essa restava estranea a qualsiasi fenomeno corruttivo e che si apparteneva a tale mr. P., che è rimasto ignoto sol perché irragionevolmente si è deciso di non escutere il M. Del pari i giudici del merito avrebbero errato nel non procedere all’audizione testimoniale di R. D., uno dei gestori del Torrey Global Fund, che avrebbe potuto confermare quanto detto al pubblico ministero e cioè che nessun C. B. acquistò mai quote del Torrey Global Fund, smentendo così la ricostruzione d’accusa secondo cui invece il B. avrebbe poi donato tali quote al M.

6. Erronea applicazione della norma sulla falsa testimonianza, con specifico riferimento alla condotta omissiva di reticenza.

Secondo l’impostazione difensiva la condotta di “reticenza” non può essere apprezzata in assenza di una domanda specifica sulla circostanza taciuta. Nell’attuale sistema processuale non vi è più l’obbligo per il testimone di “dire tutto quello che sa”: il testimone ora è vincolato al dovere di rispondere soltanto alle domande a lui rivolte, dovere che è più stringente per colui che esercita una professione, il quale deve attenersi nel modo più circostanziato possibile alle domande poste. Per le conoscenze del testimone non costituenti oggetto di una sollecitazione a parlare non è ipotizzabile un’omissione qualificabile in termini di reticenza. In relazione a tali principi si deve allora prendere atto che la Corte di appello ha ignorato le modalità con cui è stato condotto l’esame testimoniale dell’imputato nei dibattimenti “Arces “ e “All Iberian”. Il pubblico ministero ha omesso di contestare le dichiarazioni rese da M. allo stesso pubblico ministero nell’ambito del proc. n. 735/96 R.G.N.R., dichiarazioni che riguardavano fatti probatoriamente connessi a quelli per cui si procedeva nei due indicati dibattimenti. Per questi fatti il pubblico ministero procedeva mediante contestazione suppletiva a carico di S. B. nel dibattimento “All Iberian”. La Corte di appello ha ritenuto, in tale contesto, di ritenere che la prova della reticenza sia desumibile dalle dichiarazioni rese nel proc. pen. n. 735/96 R.G.N.R., dichiarazioni, si ribadisce, non contestate dal pubblico ministero nei dibattimenti “Arces” e “All Iberian”, né depositate alle difese nella loro integralità.

7. Difetto di motivazione con riguardo alle singole condotte di reticenza.

M., nello stesso contesto temporale delle presunte false testimonianze, rese ampia collaborazione al pubblico ministero (la stessa persona fisica dei dibattimenti “Arces” e “All Iberian”) nel proc. n. 735/96 R.G.N.R.

È quindi illogico ipotizzare, come hanno invece fatto i giudici del merito, che fosse animato in quei due dibattimenti dal proposito di nascondere qualcosa al pubblico ministero, essendo assai più logico dedurre che intendesse nascondere parte delle sue conoscenze alle difese, compresa quella del preteso corruttore. La conclusione sul punto non può che essere nel senso che la sentenza impugnata si basa su motivazioni apodittiche, svincolate dal contesto nel quale sono state rese le deposizioni testimoniali.

8. Violazione della legge penale e difetto di motivazione in ordine all’individuazione del momento consumativo del reato.

La sentenza impugnata individua il momento di consumazione nel 29 febbraio 2000, allorché la somma di denaro, asseritamente prezzo della corruzione, passò dal patrimonio indistinto gestito da M. in Struie al patrimonio personale dello stesso, facendo così decorrere il termine di prescrizione da questa data.

L’epoca di consumazione del reato, però, sarebbe stata così posposta artificiosamente, utilizzando condotte esterne al fatto di corruzione.

Il momento del pagamento del prezzo, che per la Corte di appello segna la consumazione, non necessariamente coincide - infatti - con quello della disponibilità della somma ad opera del corrotto. La disponibilità della somma, anche aderendo alla tesi del reato di corruzione come reato “a duplice schema”, è elemento estraneo alla fattispecie criminosa che si consuma al momento del pagamento, di cui costituisce al più un mero post factum. Deve trarsi allora la conseguenza che il reato addebitato è già estinto per prescrizione. A tanto si aggiunga che, come risulta da un documento allegato alla stessa memoria del pubblico ministero, sin dal 6 maggio 1998 (data del documento medesimo) M. era il solo abilitato a dare istruzioni in relazione agli investimenti che preesistevano in Struie. Si deve allora concludere, a voler ritenere che la dazione corruttiva fosse stata immessa sui conti di Struie, che almeno dal 6 maggio 1998 quella somma di denaro fosse nella disponibilità di M. Il momento consumativo andrebbe perciò collocato in data non successiva al 6 maggio 1998.

9. Violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla veste processuale attribuita a M. nei processi “Arces” e “All Iberian”.

Si afferma al riguardo in ricorso che, se M. fosse stato sentito in quei due processi, come avrebbe dovuto, nella qualità di imputato di reato connesso, e quindi con le forme dell’art. 210 c.p.p. e le garanzie dell’art. 63 c.p.p., avrebbe perso, insieme alla veste di testimone, la qualità di pubblico ufficiale, con la conseguenza che sarebbe stato impossibile ipotizzare a suo carico, come invece è stato fatto, un addebito di corruzione in atti giudiziari avente ad oggetto proprio la sua pretesa falsa testimonianza.

La corruzione in atti giudiziari è indiscutibilmente un reato proprio, che implica la sussistenza in capo al soggetto corrotto della qualità di pubblico ufficiale, e tale non è certamente l’imputato di procedimento connesso.

Il collegamento probatorio tra procedimenti deve essere apprezzato in concreto, come peraltro affermato dalla stessa Corte di appello, e allora deve giungersi a conclusioni opposte a quelle fatte proprie dai giudici di merito. Tra l’oggetto delle deposizioni rese da M. nei processi “Arces” e “All Iberian” e il c.d. processo “Agrama”, che vedeva imputato per reati fiscali, ricettazione e riciclaggio proprio M., vi è stretta connessione: il reato di frode fiscale era stato contestato a M. in concorso con altre persone del Gruppo F. e con lo stesso S. B. in relazione alla costituzione e gestione di un complesso sistema di trust e società offshore denominato F. B Group; l’illecita movimentazione di denaro, che ha dato corpo alle imputazioni di ricettazione e riciclaggio, ha avuto attenzione ai conti correnti delle società Century One e Universal One, ossia di quelle società riguardo alle quali M. aveva deposto nell’ambito dei processi “Arces” e “All Iberian”, rendendo dichiarazioni che in questo processo si assumono reticenti.

10. Violazione di legge in relazione alla configurazione della corruzione in atti giudiziari nella forma susseguente.

La Corte di appello ha ritenuto la forma susseguente, pur sussistendo contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulla possibilità di riconoscere tale forma anche nel delitto di corruzione in atti giudiziari.

La dottrina, peraltro, è quasi unanimemente contraria a detta possibilità. Le ragioni che militano in tale ultimo senso sono ben esplicitate dal dato letterale della disposizione, secondo cui il fatto deve essere commesso per favorire o danneggiare una parte processuale, e questo connotato finalistico individua e tipizza la condotta in modo incompatibile con la prospettiva di un atto già compiuto. Il fine di favorire o danneggiare non può inerire ad una parte della condotta, in specie al compimento dell’atto, che è di per sé irrilevante ai fini della configurazione della fattispecie, se non considerato in stretta connessione con l’accordo corruttivo.

11. Violazione di legge e difetto di motivazione per inosservanza delle disposizioni relative al risarcimento del danno non patrimoniale da reato.

La difesa argomenta, in proposito, che il danno non patrimoniale non può essere considerato in re ipsa quale costante conseguenza dell’azione penalmente illecita, altrimenti si atteggerebbe a pena aggiuntiva. Occorre allora, perché si possa disporre il risarcimento, che si abbia un effettivo accertamento del danno, accertamento che nel processo de quo sarebbe mancato. La sentenza impugnata non spiegherebbe in alcun modo come la condotta addebitata all’imputato abbia potuto recare un danno non patrimoniale alla pubblica amministrazione, né preciserebbe quali sarebbero stati i tempi, i modi, le forme e le circostanze dell’emergere di tale danno, del discredito per la giustizia e, in generale, per la pubblica amministrazione.

I difensori del M. hanno chiesto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite ed il Presidente aggiunto - ravvisata la sussistenza delle condizioni di cui all’art. 610, 2° comma, c.p.p., quanto al contrasto insorto nelle decisioni della sesta Sezione penale circa la configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari nella forma della “corruzione susseguente” - ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.



Motivi della decisione



1. Per un’evidente esigenza sistematica deve essere affrontata, in via prioritaria, la questione controversa sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite, consistente nello stabilire: “se il delitto di corruzione in atti giudiziari sia configurabile nella forma della corruzione susseguente”.

Tale questione, infatti, si connette alla possibilità di configurare la stessa sussistenza del reato e si pone, pertanto, come preliminare e dirimente rispetto a tutte le altre confutazioni svolte nel ricorso.

2. Quanto alla compatibilità delle forme susseguenti con la struttura della fattispecie di corruzione in atti giudiziari, descritta nell’art. 319 ter cod. pen., si rinvengono effettivamente due contrastanti impostazioni nelle decisioni della sesta Sezione penale di questa Corte Suprema.

2.1 Premesso che è “susseguente” la corruzione allorquando la retribuzione concerna un atto già compiuto in precedenza, va rilevato che - secondo un primo orientamento [che si rinviene in Cass., Sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435, Battistella e altri] - non è ipotizzabile la corruzione in atti giudiziari nella forma susseguente, benché il generico rinvio operato dalla disposizione incriminatrice ai fatti di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen. possa far pensare che il legislatore non abbia inteso porre alcuna distinzione o limitazione.

Il dato normativo che gioca un ruolo decisivo nella ricostruzione interpretativa di detta sentenza è racchiuso nell’inciso “per favorire o danneggiare una parte...”: siccome la condotta incriminata, costituita dal ricevere denaro o accettarne la promessa, assume rilievo nell’attesa di un atto funzionale ancora da compiersi, e per il cui compimento il pubblico ufficiale assume un impegno, la mera remunerazione di atti pregressi resta fuori dell’area di tipicità.

La corruzione in atti giudiziari si qualifica per la tensione finalistica verso un risultato e non è quindi compatibile con la proiezione verso il passato, con una situazione di interesse già soddisfatto, su cui è invece modulato lo schema della corruzione susseguente.

Un diverso ragionamento, che punti alla valorizzazione dell’indistinto richiamo contenuto nell’art. 319 ter ai fatti di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen., per poi inferire la piena compatibilità della forma susseguente, si risolverebbe in una forzatura interpretativa in malam partem con l’attribuzione di una valenza anche causale, oltre che finale, all’espressione “per favorire o danneggiare”, come se ad essa fosse affiancata anche quella “per aver favorito o danneggiato”. Se si procedesse su questa strada, peraltro, sarebbe evidente il contrasto con il principio di tassatività.

Questa conclusione è poi confermata da considerazioni di tipo sistematico. Nella fattispecie di corruzione in atti giudiziari sono equiparate le condotte di corruzione propria e impropria antecedente, perché entrambe condizionano il processo e sono espressione di un medesimo disvalore. Se si ritenesse compresa anche la corruzione susseguente, che a differenza di quella antecedente non influenza l’andamento dell’attività giudiziaria perché già compiuta, si avrebbe l’irragionevole risultato di assoggettare ad uno stesso trattamento sanzionatorio tipologie di corruzione oggettivamente diverse. Si avrebbe così la conseguenza di escludere, stante il generico rinvio che l’art. 321 cod. pen. fa all’art. 319 ter, la non punibilità del corruttore in caso di corruzione impropria susseguente in atti giudiziari, a dispetto di quanto per lui è previsto in ogni altro caso di corruzione impropria susseguente. L’appiattimento di diversi contenuti offensivi e lo stravolgimento della gerarchia di valori a essi sottesi integrerebbero i presupposti per più che fondati dubbi di costituzionalità.

Nello stesso senso si pongono considerazioni di natura storica. Prima della novella codicistica del 1990, che ha introdotto la corruzione in atti giudiziari come fattispecie autonoma di reato, la corruzione in atti giudiziari era fattispecie aggravata della corruzione propria antecedente, tanto da richiedere un diretto rapporto causale tra il fatto di corruzione e il favore o il danno per una parte del processo, come risultava dall’inciso: “la pena è aumentata se dal fatto deriva... il favore o il danno...” del vecchio testo dell’art. 319, comma 2, n. 2, cod. pen. Sembra allora coerente ritenere che il legislatore della novella abbia mantenuto l’estraneità della corruzione susseguente all’area della corruzione in atti giudiziari, fermo restando che essa è comunque soggetta alle previsioni sanzionatrici della corruzione ordinaria per atto d’ufficio o per atto contrario ai doveri d’ufficio.

Nessuna sentenza successiva ha aderito espressamente alla soluzione qui delineata.

2.2 Un orientamento nettamente difforme si rinviene, invece, in altre decisioni della sesta Sezione penale, tra le quali vanno già ricordate le sentenze 4 febbraio 2004, n. 23024, Drassich e 28 febbraio 2005, n. 13919, Baccarini.

In particolare poi - con la sentenza 3 luglio 2007, n. 25418, Giombini e altro - è stato evidenziato che l’affermazione dell’incompatibilità della forma susseguente si risolve in un’interpretazione abrogatrice del precetto dell’art. 319 ter ove viene richiamato, senza distinzione alcuna, l’integrale contenuto degli artt. 318 e 319 cod. pen.

Il richiamo all’intero contenuto di questi due ultimi articoli impone l’adattamento della struttura della corruzione in atti giudiziari ad ambedue i modelli, della corruzione antecedente e di quella susseguente. Tali due modelli di corruzione in atti giudiziari hanno in comune il presupposto che l’autore del fatto [necessariamente un pubblico ufficiale, perché l’art. 319 ter non è richiamato dall’art. 320 cod. pen.] viene meno ai doveri di imparzialità e terzietà, e questo presupposto si realizza anche nella forma susseguente, in quanto il peculiare elemento soggettivo del “favorire o danneggiare una parte”, che qualifica testualmente la disposizione incriminatrice, finalizza la tipicità dei fatti.

La finalità, in buona sostanza, si riferisce al fatto ed il dato di rilievo nell’integrazione del fatto-reato è che la promessa o la ricezione siano avvenute per un atto di giurisdizione o per un comportamento strumentale all’atto di giurisdizione da compiere o già compiuto per favorire o danneggiare una parte. È l’atto giudiziario che deve essere contrassegnato da una finalità non imparziale, sicché l’elemento del dolo specifico, presente nell’ipotesi di corruzione antecedente, viene meno nel caso di corruzione susseguente per essere l’atto già stato compiuto.

Nella fattispecie di corruzione antecedente in atti giudiziari il dolo specifico si articola nella doppia finalità, l’una - propria della corruzione generica - consistente nell’adozione di un atto, conforme o contrario ai doveri d’ufficio, l’altra - specifica della corruzione in atti giudiziari - consistente nella violazione, per mezzo del compimento dell’atto, del dovere rafforzato di imparzialità che connota la funzione giudiziaria; nella corruzione in atti giudiziari susseguente, invece, l’elemento soggettivo si compone del dolo generico della corruzione generica e del dolo specifico proprio della corruzione in atti giudiziari che però si atteggia ad elemento antecedente alla condotta tipica. Il dolo specifico, nella corruzione in atti giudiziari susseguente, si incentra nel compimento dell’atto, che di per sé non è condotta punibile, rispetto al quale la successiva condotta di ricezione del denaro o di accettazione della promessa assume valenza esclusivamente causale, in presenza di un precedente comportamento orientato specificamente a favorire o danneggiare una parte processuale.

Da detto elemento soggettivo scompare l’ulteriore finalizzazione specifica costituita dallo scopo tipico della corruzione antecedente. Si ha così che - mentre nella fattispecie di corruzione antecedente l’atto, contrario o conforme ai doveri d’ufficio, costituisce l’oggetto finalistico della condotta, il cui compimento non è necessario per la consumazione del reato - nella fattispecie di corruzione susseguente il dolo, generico, deve investire, oltre che la condotta, anche l’atto, contrario o conforme ai doveri d’ufficio, e l’elemento soggettivo che dell’atto è profilo indispensabile, il favorire o danneggiare una parte processuale.

Nella fattispecie di corruzione in atti giudiziari susseguente si ha, dunque, una causalità invertita rispetto alla fattispecie di corruzione in atti giudiziari antecedente, nel senso che l’atto (conforme o contrario ai doveri d’ufficio) costituisce il presupposto strutturale indispensabile della condotta, che assume rilievo penale solo in forza del contributo causale dell’atto stesso.

Alla tesi della configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari nella forma susseguente ha prestato adesione sempre la Sezione sesta, con la sentenza 18 settembre 2009, n. 36323, Drassich, secondo cui l’ampiezza della disposizione incriminatrice, che racchiude tutte le ipotesi di corruzione (propria e impropria, antecedente e susseguente), assoggettandole alla medesima pena, trova ragione nella tutela della funzione giudiziaria, costituzionalmente prevista per il riconoscimento dei diritti fondamentali e il rispetto del principio di legalità. La sentenza in oggetto ha tratto quindi la conclusione che il delitto di corruzione in atti giudiziari ben può essere posto in essere con la ricezione di un’utilità dopo il compimento di un atto, pur conforme ai doveri d’ufficio, che, funzionale a un procedimento giudiziario, sia strumento di un favore o di un danno nei confronti di una delle parti di un processo civile, penale o amministrativo.

In termini particolarmente sintetici si è mossa nella stessa direzione la successiva sentenza della Sez. VI, 9 luglio 2007, n. 35118, Fezia, che ha risposto al rilievo difensivo circa l’impossibilità di riconoscere la responsabilità del corruttore per il delitto di corruzione in atti giudiziari susseguente per compimento di atto conforme ai doveri d’ufficio, richiamando la giurisprudenza secondo cui anche la corruzione in atti giudiziari impropria può integrare il delitto di cui all’art. 319 ter cod. pen., là dove le utilità economiche costituiscano il prezzo della compravendita della funzione giudiziaria, considerata nel suo complessivo svolgimento, sia trascorso che futuro.

2.3 In dottrina l’indirizzo nettamente prevalente è nel senso della inconfigurabilità della forma della corruzione susseguente laddove si versi nella peculiare fattispecie della corruzione in atti giudiziari.

Le argomentazioni alla base di tale indirizzo muovono essenzialmente dalla presenza, nel testo dell’art. 319 ter cod. pen., della espressa previsione, afferente al dolo specifico che caratterizzerebbe il reato, che i fatti siano commessi “per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo”, senza che nulla possa autorizzare, pena la violazione del principio di tassati vita, ad includervi anche le condotte collegate all’“avere favorito o danneggiato” la stessa parte. Ciò, evidentemente, considerando che nelle ipotesi di corruzione susseguente il dolo non potrebbe che essere generico attesa l’incompatibilità di un comportamento proteso ad ottenere un evento successivo con la già avvenuta realizzazione dell’atto contrario ai doveri di ufficio.

Sotto un diverso profilo (che, accettato però nella sua integralità, non potrebbe non coinvolgere la stessa fattispecie di corruzione susseguente “ordinaria”), si è sottolineato come sembrerebbe abbastanza difficile configurare la fattispecie di corruzione in atti giudiziari con riferimento alla cosiddetta corruzione successiva, “essendo difficile provare che l’illecito influsso ormai determinatosi sul processuale sarebbe stato architettato dal giudicabile in vista di una retribuzione indebita” postuma.

Si è altresì affermato, sul piano logico, che “se il provvedimento giudiziale è già stato emesso, non si vede come si possa supporre che il soggetto privato “successivamente” dia o prometta denaro o altra utilità proprio allo scopo di conseguire un obiettivo (emissione del provvedimento in questione) che, al momento della dazione o della promessa, è già stato conseguito: in questo momento la condotta corruttiva del privato, lungi dall’essere finalizzata a uno scopo futuro, si atteggia a corrispettivo di un interesse già soddisfatto e consistente, nella specie, nel favore o nel danno concreto arrecato all’altra parte”.

A fronte della specifica previsione riguardante la connotazione del dolo, dunque, assumerebbe carattere recessivo il richiamo (apparentemente solo integrale, ma in realtà da interpretare, in senso logico, selettivamente) ai fatti indicati negli artt. 318 e 319 cod. pen. (ivi compresa, dunque, la fattispecie della corruzione susseguente contemplata appunto dall’art. 319 cod. pen.); ciò tanto più in quanto, a dispetto della configurazione della norma nel senso di una meccanica trasposizione, sul piano del processo, dei fatti corruttivi ordinariamente ricollegabili alla generica attività della pubblica amministrazione, apparentemente suggerita, appunto, dal richiamo indifferenziato agli artt. 318 e 319 cod. pen., il peculiare e significativo disvalore proprio della fattispecie in oggetto (nata, anche storicamente, per tutelare nel massimo grado la imparzialità e correttezza della funzione giudiziaria) dovrebbe condurre ad attribuire alla norma una originale e autonoma fisionomia.

Non vi sarebbe, del resto, ragione alcuna di estendere l’applicazione di una disciplina, la cui maggiore gravità sarebbe realmente giustificata soltanto nelle ipotesi di corruzione propria antecedente proprio per la assoluta mercificazione della funzione giurisdizionale e la grave violazione al principio di imparzialità, “anche a quelle ipotesi di reato la cui carica offensiva trova sufficiente risposta punitiva nelle sanzioni previste per le ipotesi comuni di corruzione”. Esclusa in tale caso la configurabilità della corruzione in atti giudiziari, il fatto corruttivo commesso a mo’ di ricompensa per un atto giudiziario contrario ai doveri di ufficio in precedenza posto in essere non potrebbe comunque non rientrare nella corruzione “ordinaria” susseguente, di cui all’art. 319 cod. pen., attesa la generale ed onnicomprensiva struttura di tale reato.

Su una linea divergente si colloca, invece, una minoranza dottrinale, che ritiene astrattamente configurabile il reato di corruzione susseguente in atti giudiziari sul presupposto che l’atto contrario ai doveri di ufficio, in quanto idoneo a determinare un mutamento in meglio o in peggio della posizione di una delle parti nel processo, attraverso il successivo accordo, può venir fatto proprio da entrambi i soggetti in quell’effetto di danno o vantaggio che esso può produrre; l’intervenuto accordo dimostrerebbe così, sia pure a posteriori, che il corruttore ha inteso l’atto come compiuto ovvero omesso a suo favore, tanto da retribuirlo, e che nel medesimo senso lo ha inteso il corrotto, ricevendo l’utilità con quella direzione psicologica.

Nel senso della inclusione, nella figura di reato dell’art. 319 ter cod. pen., anche della corruzione susseguente, potrebbero infine annoverarsi anche quelle impostazioni che, pur con riferimento alla diversa questione della ammissibilità della corruzione impropria in atti giudiziari, individuano sostanzialmente, a fondamento della figura autonoma introdotta dal legislatore nel 1990, la volontà di “voler evitare qualsiasi forma di mercimonio allorché l’atto della pubblica amministrazione dovesse riguardare la speciale funzione giudiziaria”, di talché l’oggetto della tutela si risolverebbe, in definitiva, nella “incontaminatezza da qualsiasi forma di incidenza dettata da finalità di lucro”.

Se, infatti, l’essenza della norma stesse nel divieto, per chi eserciti funzioni giudiziarie, di ricevere comunque denaro od altra utilità ad esse collegata, a poco rileverebbe, in definitiva, anche la collocazione cronologica della utilitas rispetto all’atto compiuto o da compiere, indubbiamente recessiva a fronte di una superiore esigenza di preservazione assoluta del bene della correttezza dell’operato giudiziario.

3. Queste Sezioni Unite aderiscono all’orientamento prevalente, espresso nelle sentenze nn. 25418/2007 e 36323/2009, e ciò sulla base delle seguenti considerazioni:

3.1 Nel senso della configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari anche nella forma della corruzione susseguente è inequivoca - anzitutto - la formulazione letterale dell’art. 319 ter cod. pen., che riconnette la sanzione in esso prevista ai “fatti indicati negli artt. 318 e 319”.

L’art. 12, 1° comma, delle disposizioni sulla legge in generale (R.D. 16.3.1942, n. 262) dispone che il primo canone interpretativo della norma giuridica è quello letterale, dovendosi prevalentemente attribuire alla legge il senso ‘fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”.

Il successivo accenno alla “intenzione del legislatore” consente il ricorso alla c.d. “interpretazione logica” nel caso in cui il senso letterale della norma non dovesse risultare di univoca e chiara interpretazione. In tal caso, per la individuazione della mens legis, può farsi ricorso ai lavori preparatori, fermo comunque il fondamentale principio ermeneutico secondo il quale, una volta entrata in vigore, la norma giuridica ha una propria vita, autonoma rispetto alle intenzioni di chi la pose in essere.

Le Sezioni Unite civili di questa Corte Suprema (già con la sentenza 5.7.1982, n. 4000) hanno affermato il primato dell’interpretazione letterale sugli altri criteri ermeneutici, il cui impiego ha carattere sussidiario a causa della loro funzione ausiliaria e secondaria, riflettendo l’ordine con cui i diversi criteri interpretativi sono enunciati dall’art. 12 delle preleggi, secondo una gerarchia di valori non alterabile.

L’indagine per la corretta interpretazione di una disposizione legislativa deve essere condotta, pertanto, in via primaria, sul significato lessicale della stessa, che, se chiaro ed univoco, non consente l’utilizzazione di altre vie di ricerca.

Ciò comporta che, quando l’interpretazione letterale di una norma sia sufficiente ad individuarne il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere ai criteri ermeneutici sussidiari, poiché il ricorso a tali canoni secondari non può portare al risultato di modificare la volontà della norma come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti dubbia o ambigua l’intento del legislatore assume un ruolo paritetico in seno al procedimento interpretativo, sì che funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare. La stessa mens legis, inoltre, può assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo [vedi, tra le decisioni più recenti, Cass. civ. 6 aprile 2001, n. 5128].

L’applicazione del canone ermeneutico letterale alla formulazione dell’art. 319 ter cod. pen. elimina la possibilità di una interpretazione riduttiva, poiché la norma in oggetto risulta formulata con un rinvio puro e semplice alle disposizioni di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen. e tali disposizioni contemplano tutti i tipi di corruzione: propria, impropria, antecedente e susseguente.

Escludendo la corruzione susseguente dal paradigma dell’art. 319 ter cod. pen. si violerebbe il principio di legalità, dato che si verrebbe arbitrariamente a ritagliare solo sul tipo della corruzione antecedente il rinvio operato nel primo comma di detta norma a tutti i fatti di corruzione ex artt. 318 e 319 cod. pen.

3.2 I “fatti indicati negli artt. 318 e 319” - testualmente richiamati dall’art. 319 ter cod. pen. - si identificano con le condotte poste in essere dai pubblici ufficiali alle quali fanno esclusivamente riferimento le due disposizioni anzidette [mentre la punibilità di colui che dà o promette il denaro o altra utilità è sancita dal successivo art. 321, al pari di quanto avviene per la corruzione in atti giudiziari] e tali condotte vanno individuate nel compimento dell’atto (conforme o contrario ai doveri) dell’ufficio, più che nella ricezione o nell’accettazione della promessa di denaro o di altra utilità.

L’art. 319 ter cod. pen. collega, però, a tutti i fatti indicati nei precedenti artt. 318 e 319 la finalità di ‘favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo”.

Secondo la sentenza n. 33435/2006 (Battistella), da tale previsione discenderebbe logicamente che l’atto del pubblico ufficiale debba essere realizzato solo sulla base di un previo accordo con il corruttore o di una previa ricezione di denaro o altra utilità (corruzione antecedente). Infatti, se la corruzione fosse susseguente, non potrebbe dirsi che la retribuzione o la promessa fatta al pubblico ufficiale avvenga “per favorire o danneggiare una parte”, dato che l’atto è stato già compiuto. Per ammettere la forma della corruzione susseguente nell’art. 319 ter cod. pen., tale espressione normativa dovrebbe ritenersi implicitamente affiancata da quella “per avere favorito o danneggiato una parte”, ma ciò contrasterebbe con il principio di tassati vita delle fattispecie penali.

Osserva al riguardo il Collegio - tenuto anche conto della formulazione del secondo comma dell’art. 319 ter cod. pen., ove viene prevista un’aggravante ad effetto speciale nel caso in cui “dal fatto deriva l’ingiusta condanna di taluno ...” - che il fine di arrecare vantaggio o danno nei confronti di una parte processuale va riferito al pubblico ufficiale, poiché è questi che, compiendo un atto del pròprio ufficio, può incidere sull’esito del processo: è l’atto o il comportamento processuale che deve, dunque, essere contrassegnato da una finalità non imparziale (non la condotta di accettazione della promessa o di ricezione del denaro o di altra utilità) e l’anzidetta peculiare direzione della volontà è un connotato soggettivo della condotta materiale del pubblico ufficiale.

Ciò che conta è la finalità perseguita al momento del compimento dell’atto del pubblico ufficiale: se essa [per qualsiasi motivo: ad esempio, rapporti di amicizia o di vicinanza culturale o politica; prospettive di vantaggi economici o di benefici pubblici o privati; sollecitazioni della parte interessata o di altri] è diretta a favorire o danneggiare una parte in un processo, è indifferente che l’utilità data o promessa sia antecedente o susseguente al compimento dell’atto, come pure è irrilevante stabilire se l’atto in concreto sia o non sia contrario ai doveri di ufficio.

La finalità si riferisce al fatto ed il valore del profilo soggettivo diviene così preponderante ai fini della ipotizzabilità del fatto di corruzione giudiziaria da cancellare la distinzione tra atto contrario ai doveri di ufficio e atto di ufficio, rimanendo esponenziale il presupposto che l’autore del fatto sia venuto meno al dovere di imparzialità e terzietà (non solo soggettiva ma anche oggettiva) costituzionalmente presidiato, così da alterare la dialettica processuale.

L’elemento soggettivo peculiare [come rilevato nella sentenza Giombini] “finalizza la stessa tipicità dei fatti previsti dagli artt. 318 e 319 cod. pen. entro un ambito puntualmente delimitato dalla finalità del contegno”.

Trattasi di un comportamento psicologicamente orientato, riconducibile a quelli che, come viene rilevato in dottrina, “per la loro stessa natura o per i modi di estrinsecazione nella realtà, parlano, per così dire, il linguaggio del dolo”.

È opportuno altresì evidenziare il rapporto di specialità che sussiste tra la corruzione “comune” di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen. e la corruzione in atti giudiziari, con la conseguenza che la species di cui all’art. 319 ter non può non contenere tutti gli elementi del genus (quindi quelli integranti la corruzione propria ed impropria, antecedente e susseguente), ai quali si aggiunge l’elemento specializzante di essere commessa per favorire o danneggiare una parte.

3.3 Quanto all’atteggiarsi del dolo, poi, sono senz’altro da condividersi le argomentazioni svolte nella medesima sentenza Giombini (di cui si è detto diffusamente dianzi).

È vero che, nel caso della corruzione antecedente, la condotta del pubblico ufficiale, rivolta a favorire o danneggiare una parte, trova la sua ragione in un accordo corruttivo già intervenuto, laddove invece, nella corruzione susseguente, la condotta medesima non costituisce la controprestazione rispetto ad una promessa o ad una dazione di denaro o di altra utilità: l’attività giudiziaria, però - in entrambi i casi - resta comunque influenzata dall’atto o dal comportamento contrario ai doveri d’ufficio, mediante il quale si realizza il fine perseguito dal pubblico ufficiale.

In tutte le forme di corruzione antecedente (e quindi anche nella corruzione antecedente in atti giudiziari) l’atto o il comportamento del pubblico ufficiale si inserisce nel contesto di una condotta del corrotto penalmente rilevante già in itinere. Nelle ipotesi di corruzione susseguente, invece, l’atto del pubblico ufficiale si inserisce nel contesto di una condotta che non ha ancora assunto rilevanza penale con riferimento al delitto di corruzione e che tale rilevanza assume se, successivamente all’atto o al comportamento, il pubblico ufficiale accetta denaro o altra utilità (ovvero la loro promessa) per averlo realizzato. Pure in questo caso, comunque, si è in presenza di una strumentalizzazione della pubblica funzione, sotto l’aspetto particolare, quanto alla corruzione in atti giudiziari, di uno sviamento della giurisdizione (anche solo tentato), non essendo necessario, infatti, per il perfezionamento del reato, che la finalità avuta di mira sia conseguita.

Le considerazioni anzidette si attagliano agevolmente ai casi di corruzione susseguente propria; mentre perplessità vengono manifestate in dottrina per la corruzione susseguente impropria, evidenziandosi che un atto conforme ai doveri di ufficio, in mancanza di un accordo preventivo, difficilmente può essere considerato volto a favorire o danneggiare una parte nel momento in cui è stato posto in essere per il solo fatto che successivamente il pubblico ufficiale riceva per esso denaro o altra utilità.

La circostanza che oggettivamente sussistano difficoltà probatorie, però, non può essere confusa con la ontologica strutturale impossibilità di realizzare un tale tipo di corruzione.

3.4 Né argomentazioni decisive, a favore della tesi contraria alla configurabilità della corruzione in atti giudiziari susseguente, possono farsi derivare dalla prospettazione che la disposizione di cui all’art. 319 ter cod. pen. si pone in continuità normativa con l’art. 319, comma 2, dello stesso codice, che - nella formulazione anteriore alla sua sostituzione ad opera dell’art. 7 della legge 26.4.1990, n. 86 - prevedeva un aumento della pena per la corruzione propria antecedente “se dal fatto deriva ... il favore o il danno di una parte in un processo ...”.

La legge n. 86/1990, infatti, ha introdotto un’autonoma figura delittuosa per la corruzione in atti giudiziari, in un contesto ispirato alla ratio generale dell’inasprimento delle sanzioni per i fatti di corruzione, con lo scopo pratico di sottrarre la preesistente aggravante al giudizio di bilanciamento e di anticipare la soglia della tutela (e, quindi, della punibilità) nella più ampia finalizzazione di rafforzamento del dovere di imparzialità, il quale incombe su tutti i pubblici dipendenti, ex art. 97, 1° comma, Cost., ma assume peculiari connotazioni per coloro che partecipano, con un ruolo potenzialmente decisivo, all’attuazione della giurisdizione.

Se lo scopo della innovazione legislativa è stato, dunque, quello di apprestare una più incisiva tutela alla funzione giurisdizionale, per la preminente rilevanza che essa ha nell’organizzazione statuale, non è dato comprendere per quale ragione ciò dovrebbe valere solo per la corruzione antecedente, mentre quella susseguente resterebbe residualmente relegata nell’ambito della sfera di operatività degli artt. 318 e 319 cod. pen. e sarebbe conseguentemente parificata ad una corruzione “comune”, il che palesemente integrerebbe un contrasto sistematico con la stessa legge n. 86/1990, che ha inteso differenziare la corruzione in atti giudiziari dalla corruzione “comune”.

Nella medesima prospettiva va letta la rilevanza penale - desumibile dall’art. 321 cod. pen. con il suo integrale rinvio all’art 319 ter - della condotta dell’extraneus in tutti i casi di corruzione in atti giudiziari, rispetto all’irrilevanza della condotta dell’extraneus nel caso di corruzione “comune” impropria susseguente.

Appare del resto assolutamente irrazionale ed asistematico ritenere che la disciplina penalistica della “corruzione in atti giudiziari” non sarebbe rinvenibile integralmente nell’art. 319 ter cod. pen. (che reca tale testuale rubrica) ma sarebbe contenuta in ben tre norme: la corruzione antecedente, propria e impropria, nell’art. 319 ter cod. pen.; quella impropria susseguente nell’art. 318, comma 2, cod. pen.; quella propria susseguente nell’art. 319 cod. pen.

3.5 Le valutazioni fino a questo punto svolte non trovano smentita dalla prospettazione (rinvenibile anche nella sentenza n. 33435/2006, Battistella) secondo la quale, laddove si ritenga configurabile la corruzione susseguente in atti giudiziari, stante l’unicità della pena prevista dall’art. 319 ter cod. pen., si determinerebbe un “appiattimento” del trattamento sanzionatorio di condotte aventi un diverso valore offensivo.

Tale considerazione, infatti, potrebbe anzitutto valere anche per la corruzione “comune” propria, atteso che l’art. 319 cod. pen. sancisce la stessa pena sia per la corruzione antecedente che per quella susseguente.

Le maggiori perplessità si connettono, però, alla stessa premessa dell’obiezione, allorché si consideri che la corruzione susseguente in atti giudiziari non necessariamente si presenta meno lesiva del bene tutelato rispetto a quella antecedente, comportando pur sempre una strumentalizzazione della funzione che, nei singoli casi concreti, ben può assumere connotazioni di gravità non inferiori a quella che viene realizzata con la corruzione in atti giudiziari antecedente.

Sussiste, del resto, un ampio divario tra il minimo ed il massimo edittale (reclusione da tre a otto anni) e questo consente al giudice di graduare con razionalità adeguata la pena in relazione alla concreta gravità del fatto.

3.6 Significazioni di conferma dell’opzione interpretativa condivisa da queste Sezioni Unite si rinvengono, infine, nei lavori preparatori della legge n. 86/1990 (che ha introdotto l’art. 319 ter cod. pen.), la quale trae origine, oltre che da alcune proposte di iniziativa parlamentare, dal d.d.l. governativo presentato alla Camera dei Deputati dal ministro Vassalli il 7 marzo 1988.

Il delitto di corruzione in atti giudiziari era contemplato dall’art. 6 di detto d.d.l., il quale, nel sostituire l’art. 319 cod. pen., stabiliva che “se i fatti indicati nel primo comma dell’articolo precedente sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica ...”.

A sua volta il comma 1 dell’art. 318 risultava così formulato dall’art. 5 del d.d.l. in esame: “il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve...”. Dette formulazioni palesano ad evidenza l’intenzione del ministro proponente di attribuire rilevanza penale alla corruzione propria in atti giudiziari sia antecedente sia susseguente e le modifiche intervenute poi nel corso dell’iter parlamentare (che hanno portato alla formulazione attuale dell’art. 319 ter cod. pen.) sono state tutte nel segno di un ampliamento della sfera di operatività del delitto, estesa, nella sua formulazione definitiva, alla corruzione impropria.

4. Alla stregua delle argomentazioni dianzi svolte, va quindi affermato il principio di diritto secondo il quale “il delitto di corruzione in atti giudiziari, di cui all’art. 319 ter cod. pen., è configurabile anche nella forma della corruzione susseguente”.

5. La corruzione in atti giudiziari oggetto del presente procedimento si incentra nella condotta processuale del testimone.

Sul punto appare opportuno ricordare - anche in assenza di motivi specifici di ricorso, stante la rilevabilità d’ufficio ex art. 609, 2° comma, c.p.p., delle questioni in ordine alla corretta qualificazione giuridica del fatto - che la giurisprudenza di questa Corte Suprema ha pacificamente ricondotto all’interno dell’art. 319 ter cod. pen. la condotta della falsa deposizione testimoniale, ritenendo che:

- per “atto giudiziario” deve intendersi l’atto che sia funzionale ad un procedimento giudiziario e si ponga quale strumento per arrecare un favore o un danno nei confronti di una delle parti di un processo civile, penale o amministrativo [vedi Cass., Sez. VI: 25 maggio 2009, n. 36323, Drassich; 28 febbraio 2005, n. 13919, Baccarini];

- al testimone deve riconoscersi la qualifica di “pubblico ufficiale’” ai sensi dell’art. 357, 1° comma, cod. pen. [vedi Cass.: Sez. I, 23 gennaio 2003, n. 6274, P.M. in proc. Chianese; Sez. I, 13 marzo 2003, n. 17011, P.M. in proc. Cotrufo e altri; Sez. I, 26 novembre 2002, Catalano; Sez. I, 16 febbraio 2001, n. 15542, Pelini ed altri; Sez. VI, 10 maggio 1996, n. 6406, Arcuri; Sez. VI, 12 maggio 1993, n. 8245, Tedesco];

- nessun profilo di ostatività è rinvenibile con riferimento ai rapporti tra il reato di corruzione in atti giudiziari e quello di falsa testimonianza, stante la “differenza strutturale” tra tali due fattispecie [vedi le argomentazioni svolte, in tema di individuazione del rapporto di genere a specie tra norme incriminatrici, da Cass., Sez. Unite, 7 giugno 2001, n. 23427, P.G. in proc. Ndiaye].

5.1 Viene però censurata, nel ricorso, la configurabilità stessa del reato di corruzione in atti giudiziari adducendosi che l’imputato, esaminato dinanzi al Tribunale di Milano nella veste di “testimone” nei processi “Arces” e “All Iberian”, avrebbe dovuto essere invece sentito in quei processi, ai sensi dell’art. 210 c.p.p., come “imputato di reato connesso” nel ed. processo “Agrama”, che lo vedeva imputato per reati fiscali, ricettazione e riciclaggio. Ciò sul presupposto che, ove in tali sensi si fosse proceduto, il ricorrente, non assumendo la qualifica di pubblico ufficiale, non avrebbe potuto rientrare all’interno delle qualifiche soggettive richieste per l’integrazione del reato proprio di cui all’art. 319 ter cod. pen. (e neppure dell’art. 319 cod. pen.), non potendo, d’altra parte, farsi riferimento al delitto di cui all’art. 377 bis cod. pen., integrabile unicamente da chi induca e non anche da chi sia indotto a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci.

5.2 Al riguardo va rilevato che - con riferimento al reato di corruzione in atti giudiziari ove corrotto sia il testimone di un processo - manca una previsione di “non punibilità” analoga a quella contemplata, invece, per il reato di falsa testimonianza, dall’art. 384, 2° comma, cod. pen., riferita appunto al caso di colui che “non avrebbe dovuto... essere assunto come testimonio... ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere...”.

In detta ipotesi, secondo autorevole dottrina, piuttosto che una causa di non punibilità, sarebbe riscontrabile un difetto di tipicità del fatto, giacché “quando il dichiarante non ha legittimamente acquisito la qualifica di teste, il delitto di falsa testimonianza, che è un reato proprio, non sussiste”.

La giurisprudenza, a sua volta, pur non avendo espressamente configurato la disposizione dell’art. 384, 2° comma, cod. pen. come una espressione di mancanza di tipicità del fatto-reato, ha tuttavia chiaramente distinto l’ambito di operatività di tale previsione rispetto a quello regolato dal 1° comma dello stesso art. 384, sottolineando che “non integra il reato di falsa testimonianza la dichiarazione non veritiera resa da persona che non possa essere sentita come testimone...a nulla rilevando le finalità e i motivi che l’abbiano indotta a dichiarare il falso” [così Cass., Sez. Unite, 29 novembre 2007, n. 7208/08, Genovese].

Alla stregua delle considerazioni appena svolte - a fronte della mancanza di una previsione che, in analogia a quella di cui all’art. 384, 2° comma, cod. pen., “scrimini” il reato di corruzione in atti giudiziari sulla base della errata attribuzione al teste di tale qualità - ritiene questo Collegio che il giudice possa comunque “autonomamente” apprezzare, ora per allora (e sempre che, naturalmente, egli possa disporre di elementi di fatto idonei a consentirgli un tale giudizio) la corretta qualifica da attribuirsi al “dichiarante”, eventualmente discostandosi anche dalle valutazioni e dalle conclusioni a suo tempo effettuate dal giudice del procedimento in cui tali dichiarazioni furono rese.

5.3 La ricerca dell’esatta individuazione dei confini assegnati al potere del giudice in ordine alla qualifica soggettiva da attribuire al dichiarante chiama in causa i presupposti applicativi non solo dell’art. 210 c.p.p., ma anche dell’art. 63, 2° comma, c.p.p., ad essa collegata sul piano sistematico; come chiarito infatti, da ultimo, nella ordinanza n. 280 del 2009 della Corte Costituzionale “l’art. 63, comma secondo, c.p.p. attua una tutela anticipata delle incompatibilità con l’ufficio di testimone previste dall’art. 197, comma primo, lettere a) e b), c.p.p. nei confronti dell’imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato: incompatibilità che, a loro volta, impongono che l’esame del soggetto avvenga nelle forme dell’art. 210”.

In ordine a tale generale questione, ritengono queste Sezioni Unite che spetti al giudice il potere di verificare nella sostanza - al di là del riscontro di indici formali, quali la già intervenuta o meno iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato - l’attribuibilità, al dichiarante, della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese. Ove si subordinasse, infatti, l’applicazione della disposizione di cui all’art. 63, comma 2, c.p.p. alla iniziativa del pubblico ministero di iscrizione del dichiarante nel registro ex art. 335 c.p.p., si finirebbe col fare assurgere la condotta del pubblico ministero a requisito positivo di operatività della disposizione, quando sarebbe invece proprio la omissione antidoverosa di quest’ultimo ad essere oggetto del sindacato in vista della dichiarazione di inutilizzabilità [Vedi, sul punto, Cass.: Sez. VI, 22 aprile 2009, n. 23776, Pagano ed altri ; Sez. II, 24 aprile 2007, n. 26258, Pavan, e, in precedenza, Sez. VI, 20 maggio 1998, n. 7181, Villani; Sez. VI, 11 maggio 2000, n. 6605, Valianos; Sez. I, 6 febbraio 2001, n. 16146, Sestino; Sez. IV, 10 dicembre 2003, n. 4867/04, Falzetti].

Quanto al tipo e alla consistenza degli elementi apprezzabili dal giudice al fine di verificare l’effettivo status del dichiarante, devono ritenersi rilevanti i soli indizi non equivoci di reità, sussistenti già prima dell’escussione del soggetto e conosciuti dall’autorità procedente [In tal senso, oltre a Sez. Unite, 23 aprile 2009, n. 23868, Fruci, vedi anche Sez. V, 15 maggio 2009, n. 24953, Costa ed altri; Sez. Unite, 22 febbraio 2007, n. 21832, Morea; Sez. II, 2 ottobre 2008, n. 39380, Galletta; Sez. V, 5 dicembre 2001, n. 305/02, La Placa]. Il giudice, infatti, per potere applicare la norma di cui all’art. 210 c.p.p., deve essere messo in condizione di conoscere la situazione di incapacità a testimoniare o di incompatibilità, le quali, quindi, se non risultano dagli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento, devono essere dedotte dalla parte esaminata o comunque da colui che chiede l’audizione della persona imputata o indagata in un procedimento connesso o collegato [vedi Cass., Sez. III, 11 ottobre 2007, n. 40196, Torcasio].

L’originaria esistenza di gravi indizi di reità, inoltre, non può automaticamente farsi derivare dal solo fatto che i dichiaranti risultino essere stati in qualche modo coinvolti in vicende potenzialmente suscettibili di dar luogo alla formulazione di addebiti penali a loro carico, occorrendo invece che tali vicende, per come percepite dall’autorità inquirente, presentino connotazioni tali da non poter formare oggetto di ulteriori indagini se non postulando necessariamente l’esistenza di responsabilità penali a carico di tutti i soggetti coinvolti o di taluni di essi [così Cass., Sez. I: 27 febbraio 2002, n. 8099, Pascali; 25 gennaio 2008, n. 4060, Sommer ed altri].

Resta fermo, comunque, che la questione relativa alla sussistenza ab initio di indizi di reità a carico dell’interessato costituisce accertamento in punto di fatto che, in caso di congrua motivazione da parte del giudice di merito, è sottratto al sindacato di legittimità [vedi Cass.: Sez. III, 30 settembre 2003, n. 43135, Marciante e altri; Sez. VI, 30 aprile 1999, n. 10230, Cianetti].

5.4 Nella vicenda in esame i giudici di appello hanno sostenuto, in ciò contrastati dal ricorrente, che, all’epoca delle dichiarazioni rese da M., le vicende di evasione fiscale e riciclaggio [reati di cui all’art. 4, lett. f), legge n. 516/1982 in relazione all’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 ed agli artt. 648 e 648 bis cod. pen.] a questo ascritte nel procedimento c.d. “Agrama”, già frutto delle medesime indagini che avevano dato luogo al presente procedimento (come ricordato dal Tribunale a pag. 2 della sentenza di primo grado), non fossero in rapporto diretto con quelle oggetto dei procedimenti in cui egli era stato sentito quale teste.

Deve rilevarsi inoltre al riguardo, che, mentre secondo la Corte d’appello (pag. 75 dell’impugnata sentenza), M. sarebbe stato, all’epoca delle dichiarazioni da lui rese, indagato nel procedimento “Agrama” che, tuttavia, avrebbe riguardato fatti non connessi con quelli contestati nei processi Arces e All Iberian; per la difesa (pag. 111 e ss. del ricorso) tale procedimento sarebbe formalmente sorto solo successivamente alle deposizioni di M., pur essendo materialmente “coevo tanto per natura ed oggetto dell’accertamento, tanto per coerenza temporale”.

Le argomentazioni svolte dalla Corte territoriale appaiono logiche e razionali ed integrano accertamento in punto di fatto che, a fronte della congrua motivazione da parte del giudice di merito, è sottratto al sindacato di legittimità.

6. Alla stregua dei principi di diritto dianzi enunciati deve essere valutata la medesima questione sollevata in ricorso (pag. 22 e ss.) con riferimento alla veste testimoniale attribuita ad A., sul presupposto che il presente processo avrebbe riguardato fatti connessi a quelli per i quali lo stesso A. era giudicato dal Tribunale di Salerno.

La Corte di merito ha rilevato, sul punto, l’insussistenza “di alcuna connessione in senso tecnico”, essendo stato l’A. giudicato per fatti di corruzione commessi nel territorio del circondario di Salerno negli anni dal 1990 al 1996, sicuramente precedenti a quelli oggetto del presente giudizio e che “l’unico collegamento con quel processo è che in quella sede A. ha detto che M. amministrava i suoi fondi all’estero”.

Le pur ampie argomentazioni contrarie svolte in ricorso, ed in particolare i riferimenti alla documentazione acquisita presso lo studio di revisione contabile E. & Co. ed a quella relativa ad altri trasferimenti di denaro (da Mees Pierson Bahamas a Hadrian Trust dell’A. e poi al c/c 700807 presso la C.I.M. Banque e nella disponibilità dell’odierno imputato), non valgono a dimostrare l’illogicità della valutazione operata dai giudici del merito, presentandosi come meramente assertivo l’assunto della difesa secondo il quale la somma di 600.000 dollari, confluita sui conti di M., abbia tratto origine da operazioni imprenditoriali strettamente correlate ai fatti posti alla cognizione del Tribunale di Salerno.

7. Deduce ancora il ricorrente la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza posto dall’art. 521 c.p.p., prospettando una sostanziale divergenza tra l’imputazione e la sentenza di primo grado: mentre, infatti, nella descrizione imputativa, il c.d. “dividendo Horizon” era menzionato soltanto come oggetto di una delle asseritamente reticenti deposizioni testimoniali nell’ambito dei procedimenti “Arces” e “All Iberian”; lo stesso dividendo sarebbe stato considerato, in sentenza, quale somma di denaro che l’imputato poteva contare di trattenere per sé, a titolo di compenso delle sue reticenti ed elusive deposizioni testimoniali.

La Corte di appello sarebbe incorsa in errore affermando, sul punto, che la sentenza di primo grado ha inteso il “dividendo Horizon” come antefatto storico, inserito nel rapporto tra l’odierno imputato e il Gruppo F., e mai come prezzo della corruzione.

La doglianza è infondata.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema - infatti - il principio della correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza non va inteso in senso rigorosamente formale o meccanicistico ma, conformemente al suo scopo ed alla sua funzione, in senso realistico e sostanziale.

La verifica dell’osservanza di detto principio non può esaurirsi, quindi, in un pedissequo e mero confronto puramente letterale tra contestazione e sentenza, ma va condotta sulla base della possibilità assicurata all’imputato di difendersi in relazione a tutte le circostanze del fatto, sicché deve escludersene la violazione ogni volta che non sia ravvisabile pregiudizio delle possibilità di compiuta difesa.

Le Sezioni Unite Penali - con la sentenza n. 16 del 22.10.1996, ric. Di Francesco - hanno affermato, in particolare, che “con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione” e “... vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione”.

Nella specie, già nel decreto che (in data 30.10.2006) dispose il giudizio, venne contestato al M. che quegli, “per compiere atti contrari ai doveri di ufficio del testimone”, “accettava la promessa e successivamente riceveva da C. B., a seguito di disposizione di S. B., la somma di 600 mila dollari, investita dallo stesso - per il tramite della società offshore Struie Ltd. - in unità dell’hedge fund Giano Capital (febbraio 1998) e l’anno successivo reinvestita nel Torrey Global Offshore Fund”.

I contenuti essenziali dell’addebito non hanno costituito oggetto della modifica dell’imputazione effettuata nel corso dell’istruzione dibattimentale (all’udienza del 14 dicembre 2007) e tale modifica è scaturita da acquisizioni probatorie assunte in dibattimento, in ordine alle quali l’imputato ha avuto piena possibilità di svolgere le proprie difese.

La sentenza di primo grado - diversamente da quella che ha concluso il giudizio di appello - ha ravvisato una ipotesi di corruzione antecedente, ma non ha affermato che il compenso dell’accordo corruttivo fosse integrato dal c.d. “dividendo Horizon”. È il ricevimento della somma di 600.000 dollari che ha costituito sempre il principale parametro di riferimento dell’attività difensiva, mentre le modalità ed ai successivi “passaggi” attraverso i quali quella somma ebbe a pervenire all’imputato (comprese le correlazioni con la formazione del dividendo in oggetto e l’investimento in “Giano Capital”) sono state diffusamente indagate nel corso dell’istruzione dibattimentale, svoltasi in ampio e costante contraddittorio.

8. Per quanto attiene i profili di responsabilità del M., va rilevato che - secondo la ricostruzione dei fatti operata in sede di merito - l’imputato aveva svolto la professione di avvocato a Londra come responsabile dello studio “CMM Limited”, il cui scopo era quello di costituire società sia in Inghilterra sia, tramite agenti e fiduciari, in altri Paesi (in particolare nei c.d. “paradisi fiscali”).

Per la F. erano state create tra trenta e cinquanta società (costituite prevalentemente nelle Isole del Canale e nelle Isole Vergini), che, nella contabilità della CMM, erano state suddivise in una lista A ed in una lista B.

Tra queste società vi era “All Iberian”, con sede in Guernsey, divenuta nel corso della propria attività “la tesoreria di un gruppo di società offshore” e finanziata da altra società denominata “Principal Finance Ltd.”.

Per evitare gli effetti della legge Mammì (che aveva fissato un tetto al possesso di reti televisive, in Italia, da parte di uno stesso soggetto), era stata utilizzata la società “Horizon”, posseduta da M., che aveva costituito la società lussemburghese “C.I.T.” insieme ad altre società controllate dalla stessa “Horizon”. Gran parte della “C.I.T.” era azionista della Banca Internazionale del Lussemburgo, in cui Horizon ed All Iberian facevano confluire denaro.

Nel 1995 l’intera “C.I.T.”, compresa la partecipazione di “Horizon”, era stata ceduta al sudafricano Rupert e la plusvalenza di “Horizon”, pari a circa dieci miliardi di lire, era stata trattenuta da M. in attesa di definire la situazione di tutte le società offshore (si era deciso, infatti, di regolarizzare tali società, assoggettandole al fisco inglese con un bilancio consolidato dal 1991 al 1995). La somma rimasta dopo il versamento al fisco e la restituzione delle somme dovute alla società All Iberian era stata depositata in una banca in attesa del chiarimento della situazione in relazione ai processi pendenti in Italia.

8.1 Con riferimento all’addebito relativo al fatto di avere M. celato l’identità della proprietà delle società offshore del cosiddetto “Gruppo F. B”, la sentenza emessa nel processo Arces ed altri aveva accertato in maniera definitiva che la Guardia di Finanza era stata corrotta affinché non venissero svolte approfondite indagini in ordine alle società del Gruppo Fininvest e non ne emergesse la reale proprietà, pur non essendo stato ritenuto certo il collegamento diretto fra i funzionari corrotti e S. B., collegamento invece definitivamente provato rispetto ad altro dirigente di F., S. S., responsabile del servizio centrale fiscale della società, condannato con sentenza irrevocabile.

Parimenti, i fatti relativi all’illecito finanziamento in favore di B. C. da parte di F., tramite All Iberian, erano stati, sulla base di plurime prove testimoniali e documentali, definitivamente dimostrati [visto che la sentenza di primo grado, di condanna dei vertici della società e fra di essi di S. B., non è stata riformata nel merito ma per intervenuta prescrizione], così come si era accertato che All Iberian e le società offshore collegate erano state costituite su iniziativa del Gruppo F. e che All Iberian era stata utilizzata quale tesoreria delle altre offshore inglesi costituite per conto del Gruppo F. e dallo stesso finanziate tramite Principal Finance, adoperata come ponte anche dalla S. B. Finanziaria, tesoreria estera del Gruppo.

M. - il quale aveva costituito le società del gruppo Fininvest all’estero, ivi comprese quelle del c.d. “gruppo B” - era a conoscenza dell’identità degli effettivi soci di tali società e quindi del reale beneficiario economico delle stesse.

Ciò emergeva in particolare, anche senza tener conto della “confessione” che M. avrebbe poi reso nella lettera inviata a Bob Drennan [appartenente allo studio professionale Rawlinson & Hunter, che M. aveva contattato in relazione all’indagine fiscale effettuata a suo carico nel Regno Unito] il 2 febbraio 2004 e nell’interrogatorio innanzi al pubblico ministero il 18 luglio 2004:

- dalla “due diligence” effettuata da tale Pierre Amman (Questi - essendo stato incaricato dalla società “Edsaco”, in vista dell’acquisto di CMM, di conoscere quali erano i clienti di CMM e quali le relazioni e le modalità gestionali dei rapporti con i clienti medesimi - aveva accertato che le società del gruppo F., clienti della CMM, erano divise in due gruppi: “le società A erano società conosciute al pubblico e le B erano società che erano sconosciute al pubblico o non ancora conosciute oppure inattive”, anche se “questa suddivisione non era proprio una scienza esatta”);

- dalla nota inviata a M. da G. V. (amministratore finanziario della F. e della “S. B. Entertainment Ltd.”) durante la sua latitanza nel dicembre del 1995 (contenente plurimi riferimenti ad informazioni riservate afferenti le società F. B);

- dalla deposizione di Tanya Maynard (che aveva lavorato con M. tra il gennaio 1989 ed il luglio 1994, specificamente dal 1991 quale direttrice della CMM, il cui scopo era quello di costituire società sia in Inghilterra sia tramite agenti e fiduciari in altri Paesi e della quale M. era responsabile).

A fronte di ciò, tuttavia, lo stesso M. - sentito come testimone il 20 novembre 1997 e il 12 e 19 gennaio 1998 - non aveva comunicato i nomi dei soci da lui conosciuti, e così era stato reticente rispondendo alle domande concernenti la proprietà delle società offshore di F., costringendo il Tribunale a procedere in via induttiva, con la conseguenza che proprio la carenza di prova certa sul punto aveva determinato, nel processo Arces ed altri, l’assoluzione di S. B. in secondo grado e, definitivamente, in sede di giudizio di cassazione.

In relazione all’addebito di reticenza relativo ai beneficiari economici delle società “Century One Entertainment Ltd.” e “Universal One Ltd.” [delle quali, nel giugno del 1991, era stato conferito a P. D. B. la general power of attorney] ed al legame diretto esistente tra P. D. B. e la famiglia B., risulta accertato che - in un foglio manoscritto contenente una proposta di struttura di ciascuna holding, redatto da Tanya Maynard su istruzioni di M. (come da lei stessa riferito) ed acquisito il 14 novembre 1996 presso gli uffici della finanziaria Bonzanigo a Ginevra –M. e P. B. erano stati indicati come beneficiari rispettivamente di Volcameh Trust e di Muesta Trust ed era altresì stato indicato il percorso attraverso il quale da ognuno di essi si giungeva a Century One e Universal One; in tale manoscritto si era altresì previsto il divieto per detti beneficiari di disporre del capitale per tutta la durata in vita del padre, salvo che a ciò non avessero consentito, attraverso M., indicato come esecutore, Gironi, Foscale o Confalonieri.

Tutto ciò M. (che tra l’altro falsamente aveva dichiarato essere stata la Maynard a creare le strutture in questione) non aveva riferito ai giudici, benché egli, in quanto esecutore, ben sapesse essere state le società create per volontà di S. B.

8.2 Quanto alla contestata falsità in ordine al c.d. “dividendo Horizon” - rilevato che la condotta da ascrivere all’imputato deve più precisamente essere configurata come reticenza - è stato ritenuto che l’attribuzione a M. di tale dividendo era derivata dalla necessità di celare il reale proprietario delle società offshore del gruppo F. e di consentire allo stesso di aggirare la normativa italiana in materia di concentrazione di emittenti televisive: istituita infatti, per tale scopo, la società Horizon (finanziata da All Iberian), la cui proprietà era stata appunto fittiziamente attribuita a M. per tenere celata l’identità degli effettivi beneficiari, un dividendo collegato alla gestione di essa era poi stato dal medesimo introitato e, successivamente, da lui ripartito con i soci dello studio legale.

A fronte di ciò, l’imputato, nel corso degli interrogatori subiti negli anni 1997 - 98, aveva invece eluso le domande postegli in merito, affermando di avere ricevuto il dividendo a titolo di compenso professionale, ovvero in relazione alla sua qualità di unico referente e beneficiario di All Iberian o ancora in vista della cessazione di ogni attività. M. non aveva riferito, però, degli accordi intervenuti con V. secondo i quali gli utili di Horizon erano stati trasformati in utili di sua spettanza per distanziare il Gruppo F. dai patrimoni delle società offshore.

8.3 Circa la contestata omissione in ordine al colloquio intervenuto con S. B. il 23 novembre 1995, i giudici del merito hanno evidenziato la nota scritta dallo stesso M. ai suoi soci il 27 novembre 1995, ove quegli aveva appunto riferito del colloquio telefonico intercorso il giovedì precedente e nel corso del quale B. si era soffermato sulle ragioni politiche alla base dell’accusa a lui mossa di finanziamento illecito in favore di B. C.; di contro, M., interrogato il 12 e 19 gennaio 1998, aveva omesso di riferire di avere parlato al telefono con B.

Del resto, nella “confessione” resa da M. ai pubblici ministeri di Milano il 18 luglio 2004 era emerso, con riferimento ai fatti oggetto delle sin qui ricordate false o reticenti dichiarazioni, quale fosse invece la reale conoscenza degli stessi da parte di Mnxs.

Egli aveva, infatti, offerto un ampio resoconto dei presupposti professionali, finanziari e giudiziari intercorsi con il gruppo F., ed in particolare con S. B. ed i suoi dirigenti, a far tempo dalla fine degli anni ‘70 - inizio anni ‘80, ovvero dall’incarico affidatogli di costituire un gruppo di società offshore al fine di realizzare da un lato la creazione di poste contabili che non avrebbero dovuto figurare nel bilancio consolidato del gruppo, dall’altro l’allocazione “estero su estero” di ingenti somme di denaro i cui beneficiari erano individuati, quanto alle società Century One e Universal One, nei figli di S. B., M. e P. S.

M. aveva descritto, poi, come e perché avesse conseguito lui stesso un profitto delle società offshore, il cosiddetto dividendo Horizon pari a circa 10 miliardi di lire, che i dirigenti del Gruppo F. gli avevano chiesto di trattenere in conto e in nome proprio, sottoponendolo a tassazione fiscale secondo la legge britannica, al fine di cancellare qualsiasi traccia finanziaria idonea a ricondurre a S. B. la proprietà delle società offshore, e, fra esse, del canale televisivo Telepiù, in aperta violazione della legge italiana che impediva la concentrazione di proprietà di sistemi di comunicazione di massa.

Il fulcro della reticenza di D. M., in ciascuna delle sue deposizioni, si incentra, in definitiva, nel fatto che egli aveva ricondotto solo genericamente a Fininvest, e non alla persona di S. B., la proprietà delle società offshore, in tal modo favorendolo in quanto imputato in quei procedimenti, posto che si era reso necessario distanziare la persona di S. B. da tali società, al fine di eludere il fisco e la normativa anticoncentrazione, consentendo anche, in tal modo, il mantenimento della proprietà di ingenti profitti illecitamente conseguiti all’estero e la destinazione di una parte degli stessi a M. e P. S. B.

8.4 Operata la anzidetta ricostruzione del quadro delle condotte false e reticenti tenute dall’imputato nel corso delle proprie deposizioni testimoniali, sono state diffusamente esaminate le circostanze relative alla dazione in favore di M. del “regalo” di 600.000 dollari.

A cagione e nel contesto di un’indagine fiscale effettuata dalle autorità britanniche (Inland Revenue) nei confronti di M., il 2 febbraio del 2004 lo stesso M., in una lettera recapitata a Robert Drennan dello studio Rawlinson & Hunter, oltre a riepilogare le vicende relative all’inaspettato guadagno rappresentato dal dividendo di circa 1,5 milioni di sterline (c.d. dividendo Horizon) “proveniente dalle società di Mr. B”, aveva anche raccontato come egli, con la sua testimonianza, avesse “tenuto Mr. B. fuori da un sacco di problemi” evitando di dire tutto ciò che sapeva, nonché come, all’incirca alla fine del 1999, gli fosse stato detto che avrebbe ricevuto dei soldi, segnatamente 600.000 dollari, da considerare quale un prestito a lungo termine od un regalo (“600.000 dollari furono messi in un hedge fund e mi fu detto che sarebbero stati a mia disposizione, se ne avessi avuto bisogno”).

Questi stessi concetti erano stati sostanzialmente ribaditi a Brennan da M. nel corso di un colloquio tra i due, venendo in quella occasione precisato che C. B. aveva appunto detto a M. che detta somma, da considerarsi come un prestito a lungo termine che non avrebbe dovuto essere rimborsato o come un regalo, era stata precisamente immessa in un fondo denominato “Torrey fund”.

Analoghe circostanze erano state riferite da M. al fiscalista David Jeffrey Barker e, successivamente, nel corso dell’interrogatorio del 18 luglio 2000 avanti ai pubblici ministeri di Milano (ivi, anzi, parlando M. direttamente di B. e mettendo egli in relazione il compenso di 600.000 dollari con le testimonianze rese), nonché in una riunione con lo S.C.O. (Special Confliance Service di Inland Revenue) il 22 luglio 2004.

Nell’interrogatorio del 18.7.2002 [riportato a pag. 156 della sentenza del Tribunale] M. ebbe in particolare ad affermare: “... io sono stato sentito più volte in indagini e processi che riguardavano S. B. e il Gruppo F. e, pur non avendo mai detto il falso, ho tentato di proteggerlo nella massima misura possibile e di mantenere laddove possibile una certa riservatezza sulle operazioni che ho compiuto per lui. È in questo quadro che nell’autunno del 1999, C. B., che mi dispiace coinvolgere in questa storia, perché era veramente un mio amico, mi disse che S. B. a titolo di riconoscenza per il modo in cui io ero riuscito a proteggerlo nel corso delle indagini giudiziarie e dei processi, aveva deciso di destinare a mio favore una somma di denaro. Cerco di ricordare le parole esatte che C. usò per indicare chi aveva preso questa decisione all’interno della famiglia: ritengo che abbia usato l’espressione ‘il dottore’ che era il modo con cui abitualmente chiamava S. B. Quanto al percorso del denaro, esso affluì su Torrey Global tramite una società BVI che si chiamava Struie, società gestita per me da fiduciari e sul cui conto erano affluiti denari di alcuni clienti, nel corso del tempo. In effetti una consistente somma di denaro era stata immessa in Struie da B. già dal 1997, ma fu solo nel 1999 che B., con il discorso che ho sopra riferito, mi ha autorizzato a disporre nella misura di 600.000 dollari. La cosa più probabile è che il denaro sia affluito sul conto di Struie presso la Banca CIM di Ginevra ma in questo momento a memoria non sono in grado di dare ulteriori precisazioni”.

Successivamente, con memoria del 7 novembre 2004, consegnata al pubblico ministero di Milano nel corso di una presentazione spontanea, M., rettificando quanto già dichiarato, aveva raccontato invece di avere ricevuto la somma di denaro, parte di una maggior somma di 2.050.000 dollari proveniente dalla Banca Mees Pierson, non già da C. B. ma da D. A., suo cliente ed amico; il denaro, depositato fino al 21 ottobre 1997 presso un conto personale, era stato inviato in quella data a legali o società di trust a Gibilterra ed era poi arrivato sui conti della società Struie.

Tale ritrattazione, tuttavia, è stata considerata generica, parziale e inattendibile dai giudici del merito, i quali hanno ritenuto del tutto illogica la ragione pretesamente addotta da M. - ovvero la volontà di tutelare l’A., già sottoposto a delicati procedimenti penali, dalle conseguenze negative che gli sarebbero derivate - a fondamento della omessa menzione del suo nome e della attribuzione della provenienza dei soldi, invece, a B. e, per lui, a B.

Del resto, da un lato lo stesso A. aveva negato di avere fatto regali o prestiti quali quelli in esame a M. e, dall’altro, lo sviluppo dei flussi finanziari, dalla loro origine al deposito delle somme sul conto intestato a Mees Pierson Bahamas presso Amro Bank e ai successivi passaggi, era tale da smentire l’assunto della provenienza del denaro da A. Né le consulenze delle difese M. e B. erano giunte ad approdi in senso opposto.

Non poteva inoltre essere sottaciuta la straordinaria reiterazione della originaria versione dei fatti prima della ritrattazione, avendo M. fatto riferimento alla percezione del denaro ed alla sua riconducibilità, attraverso B., alle condotte processuali mantenute nel tempo in favore di Fininvest, almeno dodici volte prima di attribuirne la paternità a D. A.

8.5 La Corte di appello - per quanto concerne, in particolare, la valenza probatoria attribuita alla confessione di M. e la svalutazione della ritrattazione del medesimo - ha osservato che il giudice di primo grado non solo non aveva accolto in senso acritico la confessione, ma al contrario aveva indicato tutti gli atti (scritti, appunti, testimonianze) ed i momenti (ben dodici, analiticamente enunciati) in cui M. e altri si erano attestati sulle medesime posizioni, senza mai attribuire la provenienza della somma ad A., “secondo un incontrovertibile ordine temporale ed una perfetta sequenza logica” (venendo dalla Corte riepilogati i contenuti dei vari scritti e delle varie dichiarazioni rese da M.).

Il Tribunale non si era limitato a confutare la ritrattazione con riferimento al tatto che la nuova versione era stata smentita da A., ma si era diffuso in un accurato esame delle consulenze per giungere alla conclusione dell’inconsistenza della tesi difensiva; né la missiva del 4 febbraio 2004 poteva essere catalogata come “maldestro tentativo” di frodare il fisco inglese, considerata l’esperienza e la consuetudine di M. a gestire capitali di rilievo per un numero considerevole di clienti, attraverso la costituzione di trusts e strutture societarie particolari, districandosi abilmente nell’ambito della normativa inglese.

Al contrario, che la verità dovesse essere quella della lettera, era dimostrato anche dal fatto che allorché Drennan, nel corso del colloquio con M., aveva iniziato a prendere appunti su quanto riferitogli, era stato fermato da quest’ultimo sul presupposto della esistenza della esaustiva missiva; né M. sospettava minimamente che Drennan e Barker, timorosi di un loro coinvolgimento in una grave vicenda, avrebbero poi provveduto ad informare il fisco inglese così giungendo il documento, qualche tempo dopo, nelle mani degli inquirenti italiani.

Del resto, non solo M. aveva, nel corso dell’interrogatorio avanti al pubblico ministero di Milano in data 18 luglio 2004, confermato quanto già più volte dichiarato in precedenza, ma aveva, rievocando le parole di B., specificamente menzionato B. (“il dottore”) quale fonte di provenienza della somma di 600.000 dollari, aggiungendo che tale somma, materialmente versata sul conto di pertinenza di F. B., riferibile alla società Struie, era stata messa verbalmente a sua disposizione solo dalla fine di ottobre del 1999 ed entrata concretamente nel suo patrimonio nel marzo del 2000. Né la ritrattazione era idonea a confutare le precedenti dichiarazioni sul piano logico o su quello giuridico, posto che la stessa non aveva offerto una spiegazione credibile dei motivi che presiedevano al contenuto dell’iniziale confessione (lo stesso M. aveva, nella memoria del 7.11.2004 consegnata ai pubblici ministeri di Milano, testualmente affermato: “per ragioni che io ancora oggi faccio fatica a comprendere ho detto che i soldi erano di Fininvest, in sostanza, mentre erano di A.”).

Le giustificazioni di M. in ordine al fatto che la mancata menzione del nome di A. era dipesa dalle possibili conseguenze negative per lo stesso, sottoposto a procedimento penale per fatti di corruzione nel territorio italiano, erano giustamente state ritenute illogiche “al limite del risibile” dal primo giudice, sol che si mettessero in comparazione tra loro la posizione del soggetto inizialmente indicato come dante causa della somma e quella del soggetto che l’imputato avrebbe inteso coprire. A. stesso, senza potere avere alcun interesse a mentire sul punto, aveva detto di non avere mai avuto ammanchi di denaro dai fondi gestiti da M., aggiungendo di non avergli mai regalato o prestato 600.000 dollari.

8.6 In ordine ai rilievi difensivi mossi alla valutazione operata dal Tribunale del contenuto e degli esiti delle consulenze, in particolare ove i giudici avevano individuato in sette punti le anomalie riscontrate nella gestione, da parte di M., dei vari fondi interessati dalla movimentazione del denaro ricevuto, la Corte, escluso che sei di tali profili (dal secondo al settimo) fossero rilevanti circa la dimostrazione, pretesa dalla difesa, che il denaro provenisse da A., ha concentrato la propria attenzione sul primo di essi.

La difesa aveva infatti sostenuto che la somma di 600.000 dollari originasse dalla rimessa di 2.050.000 dollari proveniente da Mees Pierson Bahamas e, quindi, in definitiva, da D. A. In realtà, la somma, complessivamente ammontante a 10.000.000 dollari, proveniente da Mees Pierson Bahamas - in parte depositata sul conto CIM n. 700807 (e subito dopo sul conto Struie n. 600478), in parte investita nel Perth Trust e nel Cave Trust - derivava solo per 7.500.000 dollari da A., ma per 2.500.000 dollari aveva diversa e più articolata provenienza. Né a tale somma poteva, in definitiva, essere surrogato l’importo, sostanzialmente analogo, di 2.450.000 dollari, proveniente dalla vendita della nave Ravello, poiché detto importo aveva avuto un percorso del tutto differente, muovendosi da International Subsea Services a Meespierson (Bahamas) a Technical Marine Support Services presso Mid-Med Bank di Malta, e rimanendo quindi costantemente nelle mani di A.

8.7 La Corte territoriale ha affrontato anche la questione relativa alla pretesa insussistenza della falsa testimonianza, giacché la difesa aveva sostenuto che M. aveva comunque reso dichiarazioni conformi a verità “in relazione a quanto specificamente richiestogli”.

Sul punto, dopo avere premesso che tutte le contestazioni erano riconducibili allo schema della reticenza più che della falsità, ivi compresa quella riguardante il “dividendo Horizon”, la Corte di merito ha affermato che - a fronte dell’argomentazione difensiva secondo cui parametro di valutazione delle dichiarazioni testimoniali sarebbe stato quello dato dal disposto dell’art. 499 c.p.p. (ove viene prescritto che il teste risponde a “domande su fatti specifici”) - in realtà la norma al riguardo rilevante deve considerarsi l’art. 497 c.p.p., contemplante l’obbligo del teste, oltre che di dire la verità, di “non nascondere nulla”, in tal modo ponendosi un divieto esplicito a possibili tentativi di limitare il suo narrato a quanto non contestato o espressamente richiesto.

Irrilevanti devono considerarsi sia il fine propostosi dall’interrogante o l’oggetto del procedimento sia la concreta incidenza della reticenza sull’esito dello stesso, non richiedendosi, per costante giurisprudenza, che il giudice sia stato effettivamente tratto in inganno dal comportamento mendace o reticente, ed essendo invece sufficiente una potenziale idoneità ad indurre in errore (venendo in proposito richiamate Cass.: Sez. VI, 11.12.2006, n. 780, Innaco e 21.10.1988, n. 10921, Paludetti); sicché l’elemento materiale deve consistere nella difformità tra oggetto della deposizione e oggetto della conoscenza sui fatti in ordine ai quali il teste venga interrogato (come esplicitato da Cass., Sez. VI, 25.5.1989, n. 2124, Lombardo).

Del resto, era stato lo stesso M., nella più volte citata missiva del 4 febbraio 2004. ad ammettere la propria reticenza, testualmente scrivendo: “sapevano bene che la modalità con la quale io avevo reso la mia testimonianza [non ho mentito ma ho superato passaggi difficili (“I turned some very tricky corners”, letteralmente: “ho fatto delle curve pericolose”), per metterla giù delicatamente (“fo put it mildly”: “per usare un eufemismo”] aveva tenuto Mr. B. fuori da un sacco di problemi che gli sarebbero ricaduti addosso se solo avessi detto tutto quello che sapevo [“a great deal of trouble that I would have landed him in if I had said all I knew”].

Viene prospettato in gravame che la condotta di “reticenza” non potrebbe essere apprezzata in assenza di una domanda specifica sulla circostanza taciuta: nell’attuale sistema processuale il testimone non sarebbe più obbligato a “dire tutto quello che sa”, ma sarebbe vincolato al dovere di rispondere soltanto alle domande a lui rivolte, attenendosi nel modo più circostanziato possibile alle domande medesime.

M., inoltre, nello stesso contesto temporale delle presunte false testimonianze, avrebbe reso ampia collaborazione al pubblico ministero.

Tale doglianza è infondata.

La reticenza, infatti, si concreta in un comportamento omissivo, nel tacere in tutto o in parte ciò che il testimone sa circa i fatti sui quali è interrogato: il testimone non ha certamente l’obbligo di rivelare fatti sui quali non è interrogato, ma, quanto all’oggetto dell’interrogatorio, deve essere sincero, preciso ed esauriente su ogni particolare. Il tacere ha rilievo in relazione alla materia dell’esame cui il testimone è sottoposto e, nella vicenda che ci occupa, chiarissimo era l’oggetto dell’indagine dei giudici e M., nei processi Arces e All Iberian, si era perfettamente reso conto della pertinenza dei fatti e delle circostanze da lui conosciuti all’oggetto dell’indagine e della loro suscettività di portare un contributo alla prova.

È egli stesso, del resto, ad ammettere la propria reticenza con le espressioni testualmente scritte nella missiva del 4 febbraio 2004 (dianzi ricordate).

Va sottolineato altresì, in proposito, che, nel corso dell’escussione all’udienza del 12 gennaio 1998 nel procedimento All Iberian, M. aveva ad evidenza eluso di rispondere a specifiche domande sulla proprietà delle società offshore [cfr. pag. 121 e ss. del relativo verbale: “non spetta a me dire chi è il proprietario, chi no” e pag. 129: “per rispondere alla sua prima domanda sulla proprietà, cioè vorrei chiarire un po’ la questione. La proprietà è rimasta un po’ vaga, come dicevo prima, perché nessuno ha detto: io sono il proprietario di queste società... il cliente era il gruppo Fininvest).

8.8 Nei motivi di ricorso viene eccepito che la Corte di merito avrebbe valutato in modo incompleto ed incongruo le risultanze delle consulenze tecniche in atti, ma le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione fattuale dell’episodio non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto, e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.

Le consulenze tecniche sono state esaurientemente esaminate dalla Corte di appello (pagg. da 56 a 64), che ha tracciato anche una rappresentazione grafica, tutt’altro che irrazionale, del percorso seguito dai fondi affluiti su Mees Pierson (pag. 59).

La difesa non ha specificato in quali delle altre sei anomalie non analizzate dai giudici si rinverrebbero elementi precipuamente idonei a smentire l’effettuata ricostruzione.

Non conforme a realtà appare - alla stregua degli elementi ricostruttivi dianzi enunciati - la doglianza secondo la quale i giudici del merito avrebbero accresciuto “oltre ogni limite e confine la valenza probatoria delle dichiarazioni assertivamente ammissive, in termini di responsabilità, rese dal prevenuto”, accogliendole in senso acritico. Né la Corte territoriale, contrariamente a quanto si assume in ricorso (pag. 54), ha mai affermato, neppure implicitamente, “la necessità di ripristinarsi, nella sua massima ampiezza possibile, la valenza probatoria della confessione”.

9. Devono essere esaminate, a questo punto, le doglianze riferite in ricorso alle ordinanze emesse dal Giudice di primo grado, dianzi specificamente indicate.

Eccepisce anzitutto il ricorrente che l’ordinanza del 27 aprile 2007 (di rigetto delle richieste difensive di ammissione di testimoni indicati nella lista ritualmente depositata) violerebbe gli artt. 191, comma 1, e 495 c.p.p., in quanto - a fronte di un potere di riduzione della lista testimoniale che, se esercitato prima dell’inizio dell’istruttoria dibattimentale, dovrebbe ritenersi “drasticamente compresso” - avrebbe utilizzato le nozioni di “inconferenza” e “sovrabbondanza” per eludere la portata e lo spirito delle disposizioni anzidette.

L’eccezione è priva di pregio, perché il diritto alla prova riconosciuto alle parti dall’art. 190, 1° comma, c.p.p., implica la corrispondente attribuzione del potere di escludere le prove manifestamente superflue ed irrilevanti, secondo una verifica di esclusiva competenza del giudice di merito, che sfugge al sindacato di legittimità quando abbia formato oggetto di apposita motivazione che abbia dato conto del provvedimento adottato attraverso una spiegazione immune da vizi logici o giuridici [vedi Cass.: Sez. VI, 1.6.1994, n. 6422; Sez. I, 16.7.1992, n. 8045].

Nella specie, il Tribunale aveva puntualmente riferito le valutazioni di superfluità e di sovrabbondanza: alla disposta ammissione di altri testi (specificamente indicati) che avrebbero dovuto deporre in relazione ai medesimi fatti; a documentazione già prodotta; nonché a circostanze dedotte genericamente e comunque oggetto di prova documentale. Tale valutazione non precludeva il successivo esperimento, nel corso del dibattimento, della prova già esclusa, allorquando essa fosse invece risultata necessaria o comunque conducente. In ricorso, però, non si prospettano al riguardo violazioni dell’art. 507 c.p.p. e le richieste di rinnovazione del dibattimento sono state sottoposte dalla Corte territoriale a specifico esame, sugli esiti del quale non risultano espressi motivi di gravame.

10. Vanno analizzati, quindi, i motivi di ricorso che - sempre in riferimento alle ordinanze dibattimentali emesse dal Tribunale - denunciano la inutilizzabilità di alcuni apporti probatori.

Il ricorrente, come sopra si è riassunto, deduce l’inutilizzabilità di alcune prove, ora per violazione di disposizioni afferenti alle garanzie difensive nello svolgimento di accertamenti tecnici asseritamente irripetibili (estrazione di files dal computer dell’imputato); ora per violazione del divieto di sequestro e di controllo della corrispondenza tra imputato e difensore; ora per l’audizione dell’A. senza l’osservanza delle modalità di cui all’art. 210 c.p.p.; ora per violazione delle disposizioni sul segreto professionale dedotto dai testimoni, le cui dichiarazioni sono state raccolte per rogatoria.

In merito a tali doglianze, deve prioritariamente ricordarsi che queste Sezioni Unite - con la sentenza 23 aprile 2009, n. 23868, Fruci - hanno statuito che costituisce onere del ricorrente, pena l’inammissibilità del ricorso per genericità del motivo, non solo di allegare e specificamente indicare gli atti asseritamente inutilizzabili, ma anche di descrivere l’incidenza da essi avuta sul complessivo compendio probatorio valutato ed apprezzato dal giudice del merito, sì da potersene inferire la decisività in riguardo al provvedimento impugnato (c.d. prova di resistenza). Spetta dunque al ricorrente la dimostrazione che il giudice del merito ha fatto uso degli atti acquisiti in violazione di un determinato divieto probatorio, ponendoli a fondamento della decisione impugnata [vedi anche Sez. Un., 16 luglio 2009, n. 39061, De Iorio].

Si è detto in precedenza delle modalità di escussione dell’A. e, con riferimento alle altre contestazioni, si rileva che:

10.1 In ordine alla lamentata illegittimità della inclusione nel fascicolo del dibattimento di files estratti dal computer di M. nel corso della perquisizione del 10 febbraio 2006, in quanto atti da reputarsi irripetibili, deve ribadirsi l’orientamento costante di questa Corte Suprema secondo il quale:

- va ritenuta l’ammissibilità nel giudizio delle prove raccolte all’estero, se assunte secondo la legge del luogo di raccolta e purché non in contrasto con le norme dell’ordinamento interno riguardanti l’ordine pubblico [vedi Cass., Sez. VI: 29. 4.1993, n. 7982, Terranova; 27.2.1992, n. 8146, Magnani e altri];

- va escluso che l’attività di estrazione di copia di un file da un computer (attività definibile, secondo Cass., Sez. I, 25 febbraio 2009, n. 11503, Dell’Aversano, come accertamento di polizia giudiziaria diretto all’assicurazione delle fonti di prova) costituisca atto irripetibile, dato che non comporta alcuna attività di carattere valutativo su base tecnico-scientifica, né determina alcuna alterazione dello stato delle cose, tale da recare un pregiudizio alla genuinità del contributo conoscitivo in prospettiva dibattimentale. È assicurata infatti, in ogni caso, la riproducibilità di informazioni identiche a quelle contenute nell’originale [vedi Cass., Sez. I: 26 febbraio 2009, n. 11863, Ammutinato; 5 marzo 2009, n. 14511, Stabile Aversano; 11 marzo 2009, n. 12472, Izzo; 30 aprile 2009, n. 23035, Corvino].

Nella specie la perquisizione risulta effettuata con il rispetto delle regole procedurali inglesi e pertanto deve ritenersi legittima anche per l’ordinamento italiano, in base alle convenzioni internazionali; né si è trattato di accertamenti irripetibili essendo il computer rimasto integro; inoltre la stessa tecnica di estrazione utilizzata, ovvero la “encase forensic”, così come tutti i programmi di estrazione, prevedevano come prima operazione quella di effettuare una copia dell’hard disk, sicché era garantita l’esclusione di alcuna modifica del supporto originale.

10.2 Quanto alla eccepita inutilizzabilità di files asseritamente integranti parte della corrispondenza tra l’imputato ed il difensore (con prospettata violazione degli artt. 191 e 103, comma secondo e sesto, c.p.p.), deve evidenziarsi, anzitutto, che tali documenti non sono stati acquisiti in seguito a perquisizioni e sequestri eseguiti “presso il difensore”, bensì rinvenuti in luoghi in uso all’imputato e non facenti parte della corrispondenza fra difensore ed imputato come definita dal combinato disposto degli artt. 103, 6° comma, c.p.p. e 35 disp. att. c.p.p. [vedi le specificazioni svolte, al riguardo, da Cass., Sez. Unite, 12.11.1993, n. 24, De Gasperini].

I documenti in oggetto, come illustrato dai giudici del merito, erano costituiti da bozze, o addirittura da frammenti, privi dei necessari requisiti che ne consentissero una sicura classificazione, riportando, alcuni, l’indicazione di un destinatario diverso dal difensore e, altri, neppure tale indicazione. Né erano classificabili, secondo quanto prospettato dalla difesa, come corrispondenza di posta elettronica.

La Corte territoriale, inoltre, correttamente ha escluso che possa nella specie rilevare la sentenza della Corte costituzionale n. 229 del 1998, osservando che nulla, ad eccezione di un documento denominato SPC 10, del resto non prodotto, atteneva a corrispondenza tra M. e il proprio difensore.

Ciò non ha trovato specifica confutazione in relazione ai singoli documenti concretamente utilizzati per la decisione e questa Corte ha affermato che i limiti imposti dall’art. 103 c.p.p. quali garanzie di libertà per il difensore, con riguardo specifico al sequestro, non possono riguardare documenti nella sfera di pertinenza esclusiva dell’imputato, privi di una finalizzazione attuale all’espletamento delle funzioni del difensore [Cass.: Sez. VI, 27.6.1995, n. 2588, Lorè; Sez. II, 22.5.1997, n. 3513, Acampora].

10.3 Per quanto attiene la addotta violazione del segreto professionale, invocato per i testimoni escussi in via rogatoriale a Londra nei giorni dal 24 al 27 settembre 2007, il Tribunale aveva essenzialmente affermato che, mentre i testi Tanya Maynard e Andrew Costard non appartenevano a categorie professionali menzionate dall’art. 200 c.p.p., il cui elenco non è suscettibile di interpretazione analogica estensiva, e i testi Robert Drennan e David Barker erano “chartered accountants”, ossia revisori iscritti all’Albo inglese, non iscritti all’Albo professionale nazionale, e pertanto esclusi dal privilegio di cui all’art. 5 del D.Lgs. 28.6.05, n. 139, riguardante solo gli iscritti all’Albo italiano, la teste Sue Millins era mero “consulente fiscale” non iscritta in alcun albo; aveva anche precisato che, in ogni caso, tutti tali soggetti erano tenuti all’obbligo di segnalare le operazioni sospette alle autorità degli Stati membri, in applicazione della direttiva 2001/97/CE (attuata nell’ordinamento italiano con il D.Lgs. 20 febbraio 2004, n. 56), non venendo in rilievo i casi di esclusione menzionati dall’art. 5 da cui fuoriuscivano, secondo l’interpretazione data dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 26 giugno 2007 nella causa C-305/05, i casi di assistenza legale al cliente nella preparazione o realizzazione delle transazioni essenzialmente di ordine finanziario e immobiliare, o di rappresentanza del cliente in una qualsiasi operazione finanziaria o immobiliare, situandosi tali attività, in ragione della loro stessa natura, in un contesto avulso da una procedura giudiziaria e, perciò, al di fuori del campo di applicazione del diritto ad un equo processo, come comprensivo del rispetto del segreto professionale.

A fronte delle doglianze della difesa - secondo cui il criterio scriminante non era da individuare nello status individuale del professionista, quanto piuttosto nella concreta attività svolta nell’interesse del cliente e nell’aderenza di essa alle ipotesi previste dalla norma, da interpretare in parallelismo con la fattispecie sostanziale di cui all’art. 622 cod. pen. (rivelazione di segreto professionale), sì da accordare la tutela anche agli esercenti attività implicanti la conoscenza di informazioni altrimenti riservate - ha osservato la Corte territoriale che, stabilito che la categoria dei soggetti fruitori del segreto professionale non può che essere quella fissata dall’art. 200 c.p.p., i soggetti sentiti in rogatoria non erano in effetti riconducibili alla stessa. D’altra parte era impropria l’invocata analogia con l’art. 622 cod. pen., essendo ben più ampia l’area di applicazione della norma penale sostanziale rispetto a quella della norma processuale.

Sul punto va confermato, a giudizio di questo Collegio, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui occorre avere riguardo, per l’apprezzamento della validità degli atti assunti all’estero, alla lex loci, sicché una questione di inutilizzabilità nel processo condotto dall’autorità giudiziaria italiana si pone nella misura in cui sia possibile ravvisare - e tale possibilità non è ravvisabile nella vicenda che ci occupa - l’eventuale contrasto di quelle modalità di assunzione della prova con norme inderogabili di ordine pubblico e buon costume che, si è precisato, non si identificano necessariamente con il complesso delle regole dettate dal codice di rito e, in particolare, con quelle relative all’esercizio dei diritti della difesa [Vedi Cass.: Sez. I, 22 gennaio 2009 n. 21673, Pizzata; Sez. V, 21 settembre 2007, n. 39020, Basco e altri; Sez. VI, 22 settembre 2004 n. 44830, Cuomo ed altro].

10.4 Il ricorrente ha riproposto, quindi, l’eccezione di nullità o inutilizzabilità degli atti svoltisi per rogatoria Londra nel settembre del 2007, sul presupposto della mancata partecipazione ai medesimi del Tribunale rogante (partecipazione che, in effetti, era stata richiesta dal Tribunale in data 13 giugno 2007).

Il giudice di primo grado aveva sostanzialmente osservato che, da un lato, le modalità di svolgimento della attività in rogatoria erano quelle determinate dallo Stato richiesto, senza che nessuna questione fosse stata proposta in relazione all’osservanza della legge britannica, e, dall’altro, che lo Stato estero non aveva dato esecuzione alla rogatoria con modalità diverse da quelle indicate dall’autorità rogante, posto che la presenza del collegio non era una modalità di esecuzione ma una semplice richiesta di autorizzazione, sì che non poteva porsi alcun profilo di inutilizzabilità degli atti, né ai sensi dell’art. 727, comma 5 bis, c.p.p. né, a maggior ragione, ai sensi dell’art. 191 c.p.p.

La Corte di merito ha precisato al riguardo che, oltre a doversi rilevare come l’assunzione delle prove fosse avvenuta secondo la lex loci, una tale eccezione non poteva in ogni caso essere sollevata, alla stregua dell’art. 182 c.p.p., da chi, come la difesa di M., invocando l’estromissione del collegio dalla partecipazione alla prova, aveva dato causa all’invocata eventuale nullità.

Trattasi di argomentazioni senz’altro da condividersi e sul punto va ricordato che l’art. 4, paragrafo 1, della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale chiarisce, con disposizione certamente applicabile anche alle testimonianze, che “on the express request of the requesting Party the requested Party shall state the date and place of execution of the letters rogatory. Officials and interested persons may be present if the requested Party consents” [su espressa richiesta dello Stato richiedente, lo Stato richiesto stabilirà la data ed il luogo di esecuzione delle rogatorie. Autorità e parti private interessate possono essere presenti se lo Stato richiesto vi consente (traduzione del redattore)].

È in base a tale previsione che si è sviluppato, accanto al modello, per così dire, “tradizionale”, dell’assistenza interamente ed esclusivamente eseguita dalle autorità dello Stato richiesto, il modello della ed. rogatoria “partecipata” (ovvero, appunto, eseguita con la partecipazione dell’autorità e anche delle parti private dello Stato richiedente).

La possibilità per l’autorità richiedente di presenziare non presuppone, tuttavia, che nell’esecuzione della rogatoria non debba seguirsi comunque, in base al principio generale operante in materia, la legge dell’autorità richiesta: sicché, specie ove tale partecipazione non sia prevista secondo la lex loci, lo Stato richiesto resta libero di prestare o negare l’autorizzazione alla partecipazione, fermo restando l’obbligo di avvertire i giudici richiedenti della data e del luogo di esecuzione.

Nella specie l’eccezione di nullità è stata ricondotta in ricorso alla previsione dell’art. 178, lett. a), c.p.p. sul presupposto, evidentemente, del difetto di costituzione del giudice durante l’espletamento del mezzo probatorio.

A tal riguardo - premesso che (secondo quanto emerge dalle sentenze di merito) il Tribunale di Milano ebbe a richiedere, in data 13 giugno 2007, di presenziare alla esecuzione dell’atto richiesto (ovvero l’assunzione delle prove testimoniali), senza che di fatto tale presenza fosse poi attuata per opposizione della stessa difesa del ricorrente accolta dall’autorità giudiziaria britannica - vanno riaffermate le argomentazioni già svolte da questa Corte Suprema (Cass., Sez. VI, 24 ottobre 2001, n. 3383, P.G. in proc. Modeo ed altri) in una analoga fattispecie di rogatoria “partecipata” [nella quale all’esame dei testimoni in territorio tedesco, condotto dal giudice di quel Paese, aveva partecipato la sola componente togata della Corte d’Assise italiana]. Deve escludersi, pertanto, che sia ravvisabile alcuna nullità discendente dal precetto dell’art. 178, lett. a), c.p.p., perché la rogatoria, anche se “concelebrata” presuppone pur sempre l’esercizio del potere giurisdizionale solo da parte del giudice straniero, il quale media l’eventuale intervento degli organi della parte richiedente, sicché deve escludersi, per questi ultimi organi, qualunque esercizio di potere giurisdizionale su territorio estero.

Un problema di utilizzabilità della prova assunta all’estero potrebbe porsi concretamente solo ove sussistesse incompatibilità con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano (e ciò non è riscontrabile nella vicenda in esame), da non identificare con tutto il complesso delle regole dettate dal codice di rito, costituendo l’adesione al Trattato un implicito riconoscimento della diversità dei singoli ordinamenti e dell’impegno a riconoscere gli atti compiuti secondo i diversi sistemi, in armonia con il principio di prevalenza delle norme pattizie su quelle interne riconosciuto dall’art. 696 c.p.p.

11. Con riferimento alla questione relativa alla data di consumazione del reato, nel ricorso viene ritenuta erronea l’avvenuta individuazione, da parte del giudice d’appello, del momento consumativo in coincidenza con la data in cui le quote del Torrey Global Offshore Fund vennero intestate a M., ovvero il 29 febbraio del 2000.

Al contrario, secondo la difesa, il momento di consumazione del reato sarebbe identificabile in quello del versamento della somma di 600.000 dollari nel Torrey Global Offshore Fund, avvenuto a fine ottobre del 1999.

Deve ricordarsi al riguardo che, nell’interpretazione giurisprudenziale, il tema della consumazione del reato di corruzione, ivi compresa la fattispecie di corruzione in atti giudiziari, è stato affrontato e risolto attraverso la categoria del duplice schema [categoria utilizzata anche nei delitti contro il patrimonio per i quali assume parimenti rilievo il profilo dell’approfondimento dell’offesa tipica per mezzo dell’effettiva realizzazione dell’arricchimento (si veda ad esempio, tra le altre pronunzie, in materia di usura, Cass., Sez. II, 1 ottobre 2008 n. 38812, Barreca)].

Tale approdo interpretativo viene condiviso e ribadito da queste Sezioni Unite, anche alla stregua della approfondita ricostruzione a tal proposito svolta dalla già citata sentenza della Sez. VI, 4 maggio 2006 n. 33435, Battistella e altri, con argomentazioni integralmente riprese dalla successiva pronunzia della Sez. VI, 9 luglio 2007, n. 35118, Fezia, ove è stato dato atto dell’esistenza di una pluralità di decisioni che, ancor prima della sentenza n. 33435/2006, hanno articolato lo stesso ragionamento in ordine al momento consumativo nel reato di corruzione.

Deve rifiutarsi, pertanto, la tesi secondo cui la consumazione si collocherebbe al momento di perfezionamento dell’accordo, relegando la dazione effettiva, rateizzata o meno, nell’area del postfactum non punibile.

Va osservato, invece, che le norme sulla corruzione, incriminando anche la semplice promessa di denaro al pubblico ufficiale che l’accetta, anticipano la soglia della punibilità per una tutela rafforzata del bene protetto. Tanto, però, non può significare che l’effettiva ricezione di quanto ha formato oggetto della promessa e dell’accettazione sia elemento estraneo alla fattispecie, non potendosi minimizzare un aspetto centrale della condotta antigiuridica.

Il reato di corruzione, nelle varie forme in cui è disciplinato, può attuarsi attraverso due distinte autonome ipotesi fattuali, quella della dazione e quella della promessa accettata, con le quali rispettivamente coincide, se rimangono alternative, il momento consumativo del reato. La sola promessa accettata, però, assume una propria autonomia ed è idonea a fissare il momento consumativo nelle sole ipotesi in cui non è seguita dalla dazione-ricezione, perché, ove quest’ultima segua alla promessa, si verificano l’approfondimento dell’offesa tipica e lo spostamento in avanti del momento consumativo.

Il delitto di corruzione, dunque, si può realizzare con una forma ordinaria “promessa seguita dalla dazione” e una forma contratta o sussidiaria “promessa non seguita dalla dazione”.

Secondo lo schema principale, il reato si realizza attraverso due essenziali attività, legate tra loro e l’una funzionale all’altra: l’accettazione della promessa e il successivo ricevimento dell’utilità. Quest’ultimo tratto di condotta cristallizza nel tempo la consumazione del reato, che assume caratteristiche assimilabili a quelle del reato progressivo, verificandosi una sorta di passaggio necessario da un minus (la promessa) ad un maius (la dazione), e risultando offeso con gravità crescente un medesimo bene giuridico.

La promessa accettata, quando è seguita dalla dazione-ricezione, resta assorbita in questa e perde la sua autonomia. È pur vero che la dazione non presuppone necessariamente la promessa, ma è altrettanto vero che, se le parti scelgono di percorrere l’iter promessa-dazione, la prima diventa un atto prodromico della seconda e ad essa si salda e con essa si confonde, concorrendo sostanzialmente entrambe, in progressione, al completamento della fattispecie criminosa in tutti i suoi aspetti.

Può quindi affermarsi che il legislatore ha inteso punire, in primo luogo, il fatto della dazione o effettiva prestazione, come momento di maggiore concretezza dell’attività corruttiva nel quale rimane assorbita e si confonde l’eventuale promessa preventiva, e soltanto in via sussidiaria, ove l’anzidetto aspetto fattuale non si verifichi, la promessa accettata.

Applicando i principi anzidetti alla fattispecie in esame, va ricordato che dalle acquisizioni probatorie risulta quanto segue:

- in data 4 ottobre 1996 venne costituita [in seguito a mandato fiduciario conferito da M. alla società “Depigest SA.” di Ginevra] la “International Subsea Service Ltd.”.

Nel settembre dell’anno successivo tale società trasformò la propria ragione sociale in “Struie Holding Ltd.” e, dal 16 settembre 1997, il M. ne divenne amministratore unico;

- il 10 dicembre 1997 M. si dimise dalla carica di amministratore unico, ma le dimissioni vennero registrate soltanto nel marzo 1998, ed il successivo 29 aprile vennero nominati amministratori Albert Mayer ed Ernst Blochlinger (cittadini del Liechtenstein) e si ebbe “il trasferimento della gestione della società Struie a Heimo Quaderer presso FKG Finanz & Management AG di Vaduz, Liechtenstein” (vedi pag. 190 della sentenza di primo grado);

- in Struie confluivano patrimoni che il M. gestiva fiduciariamente per conto di propri clienti e, fra coloro che conferivano danaro, vi era, fino dal 1997, B.;

- l’imputato, nella lettera inviata a Robert Drennan, ha riconosciuto di avere saputo “di una somma in suo favore nell’ottobre 1999”;

- anche nell’interrogatorio reso al P.M. di Milano il 18 luglio 2004 M. ebbe a dichiarare che la somma di 600.000 dollari era stata messa verbalmente a sua disposizione alla fine di ottobre del 1999;

- l’11 novembre 1999 M. dette istruzioni a Heimo Quaderer di investire il “regalo” in quote del Torrey Global Fund e ciò avvenne il 15 novembre 1999, allorquando furono addebitati sul conto n. 600478 di Struie, presso la CIM Banque di Ginevra, 600.032,20 dollari per l’acquisto di circa tre milioni di quote del fondo Torrey;

- le anzidette istruzioni dell’11 novembre 1999 furono date a Quaderer da M. in proprio e non come gestore di patrimoni altrui, come risulta incontestabilmente dal fatto che lo stesso M., il 4 febbraio 2000, diede allo stesso Quaderer e ad Albert Mayer ulteriori istruzioni di “trasferire le quote del fondo a se stesso”, con la significativa precisazione che l’operazione non comportava alcuna vendita, poiché le quote “sono comunque detenute fiduciariamente a mio favore da Struie”.

Alla stregua delle emergenze fattuali dianzi compendiate - ai fini della individuazione del momento consumativo del reato - va evidenziato che tale momento non può identificarsi in concomitanza con la non rifiutata promessa di B. (avvenuta nell’autunno 1999), allorché si consideri che essere stato messo al corrente “di una somma in proprio favore” non significa necessariamente che la somma sia stata posta nella propria disponibilità, potendo trattarsi di una promessa, sufficiente ad integrare il reato, ma, se seguita dalla dazione, inidonea a fissare il momento consumativo che, secondo la giurisprudenza (come illustrato dianzi), coincide con la seconda.

La consumazione del reato deve ritenersi coincidente, invece, con il momento in cui M., attraverso l’istruzione data a Quaderer l’11 novembre 1999, si comportò uti dominus (con conseguente mutamento del titolo del possesso) nei confronti della somma che prima era gestita indistintamente in Struie.

L’11 novembre 1999 M. compì, dunque, il primo atto di utilizzazione della somma posta a sua disposizione da B., esteriorizzando inequivocabilmente l’intenzione di farla propria. Infatti, quando il pubblico ufficiale riceve un donativo correlato ad un atto del proprio ufficio, il delitto di corruzione, secondo autorevole e condivisibile dottrina, si consuma nel momento in cui “egli manifesta esteriormente in qualche modo l’intenzione di trattenerlo”.

Ininfluente, pertanto, è la circostanza che le quote del Torrey Global Offshore Fund vennero intestate a M. soltanto il 29 febbraio del 2000, trattandosi di condotta comunque successiva all’acquisizione in proprio delle quote medesime, inizialmente avvenuta in forma anonima per la finalità, perseguita dell’imputato, di rendere difficoltosa la ricostruzione dell’origine e del percorso del denaro: di quelle quote, benché non ancora a lui intestate, infatti, M. avrebbe potuto disporre anche prima ed in qualsiasi modo, solo che lo avesse voluto.

Ne segue che - pure tenendo conto della sospensione di 42 giorni per effetto dell’ordinanza 7 marzo 2008 del Tribunale (secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite con la sentenza 11.1.2002, n. 1021, ric. Cremonese) - il delitto per il quale si procede, punito con pena edittale massima di anni otto, è estinto per prescrizione ai sensi dei vigenti artt. 157, comma 1, e 161, comma 2 - prima parte, cod. pen., come sostituiti dalla legge 5.12.2005, n. 251 (anteriormente a tale legge, invece, la prescrizione massima era fissata in 15 e non in 10 anni).

La sentenza impugnata, in conclusione, deve essere annullata senza rinvio, perché il reato è estinto per prescrizione, maturata il 23 dicembre 2009.

12. Deve essere quindi applicata la disposizione dell’art. 578 c.p.p., che impone al giudice di appello o alla Corte di cassazione di decidere sull’impugnazione ai fini delle statuizioni civilistiche qualora, dopo la condanna in primo grado, il reato ascritto all’imputato sia estinto per prescrizione.

Al riguardo deve osservarsi che, alla stregua delle valutazioni dianzi effettuate, risulta verificata la sussistenza degli estremi del reato di corruzione in atti giudiziari, dal quale discende il diritto al risarcimento della parte civile.

13. Con i motivi di ricorso si eccepisce la inosservanza e la erronea applicazione degli artt. 185, comma 2, cod. pen. e 2059 cod. civ. (nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione) in relazione alla conferma, operata dalla Corte territoriale, delle statuizioni civili contenute nella sentenza di primo grado, con condanna dell’imputato a corrispondere alla parte civile Presidenza del Consiglio dei Ministri la somma di euro 250.000, determinata in via equitativa.

Il ricorrente lamenta, in proposito:

- la inesistenza di un effettivo accertamento del danno non patrimoniale, prospettando che la Corte di merito avrebbe omesso di spiegare “come la condotta posta in essere dall’avvocato M. abbia dato luogo, in concreto, ad un danno non patrimoniale per la Pubblica Amministrazione”, nonché di precisare “quali sarebbero stati i tempi, i modi, le forme e le circostanze dell’emergere di tale danno, del discredito per la giustizia e, in generale, per la Pubblica Amministrazione nella sua interezza”;

- la mancanza di riferimenti concreti idonei a sorreggere il giudizio equitativo di liquidazione del danno.

Dette doglianze sono infondate.

Deve rilevarsi, sul punto, che le Sezioni Unite civili - con le sentenze 11.11.2008, nn. 26972-975 - hanno statuito che la risarcibilità del danno non patrimoniale è ammessa, oltre che nelle ipotesi espressamente previste da una norma di legge, nei casi in cui il fatto illecito vulneri diritti inviolabili costituzionalmente protetti, purché l’offesa arrecata al diritto sia grave e il pregiudizio sia serio. Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato: a tal fine il giudice può fare ricorso a presunzioni, ma il danneggiato dovrà comunque allegare tutti gli elementi dai quali sia possibile desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio subito [vedi pure, su quest’ultimo punto, Sez. Unite civ., 16.2.2009, n. 3677].

Nella fattispecie in esame, la Corte di merito ha legittimamente ritenuto che il M., con il suo comportamento configurante reato, ha cagionato alla pubblica Amministrazione un danno di natura non patrimoniale, riconoscibile anche per le persone giuridiche [secondo Cass. civ., Sez. III, 4.6.2007, n. 12929, la lesione del diritto della persona giuridica all’integrità della propria immagine è causa di danno non patrimoniale risarcibile, sia sotto il profilo della sua considerazione presso i consociati in genere o presso quei settori con i quali l’ente interagisce, sia sotto il profilo dell’incidenza negativa che la sminuita considerazione cagiona nell’agire delle persone fisiche dei suoi organi].

Tale danno deriva dalla lesione degli interessi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione della giustizia (rappresentata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri), risultando seriamente leso un diritto inviolabile riconosciuto dalla Costituzione.

In ordine, infine, alla prova del quantum, esattamente la Corte territoriale ha osservato che, mentre il danno patrimoniale esige la precisa allegazione e dimostrazione delle singole poste economiche che lo compongono (con il limite previsto dagli artt.1226 e 2056 cod. civ.), le conseguenze non patrimoniali derivanti dalla lesione di un diritto della persona (fisica o giuridica) non sono per loro natura suscettibili di una matematica conversione monetaria e, pur non integrando un danno-evento o in re ipsa, sono dimostrabili per presunzioni o fatti notori e quindi sottomesse alla valutazione equitativa del giudice.

I parametri adottati ai fini della liquidazione in via equitativa non sono stati riferiti alla gravità della condotta del M. Al contrario - a palese smentita dell’assunto difensivo secondo il quale sarebbe stata introdotta una “funzione punitiva” del danno stesso - l’importanza del processo, il rilievo dei personaggi coinvolti e il clamore mediatico che ha accompagnato tutta la vicenda (stante la rilevanza del ruolo sociale e pubblico dei protagonisti e l’entità del discredito proiettato verso l’esterno per effetto dei mezzi di informazione) sono stati ritenuti - con corretta ed adeguata valutazione - elementi idonei e sufficienti a giustificare il pregiudizio derivato all’amministrazione senza necessità di ulteriore dimostrazione, ben potendo, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ., essere utilizzati ai fini probatori anche i fatti notori.

Vanno confermate, conseguentemente, le statuizioni civili ed il ricorrente va condannato alla rifusione degli onorari di parte civile del grado, liquidati in euro 10.000,00.



P.Q.M.


La Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite, visti gli artt. 607, 615 e 620 c.p.p., annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione. Ferme le statuizioni civili, condanna il ricorrente alla rifusione degli onorari di parte civile del grado, che liquida in euro 10.000,00.

 Conforme:Cass. Sez. VI, 20.6. 2007, n. 25418; e in  dottrina  Pagliaro- Secreto De Luca Difforme:Cass. Sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435   e dottrina prevalente  ex pluribus  Mezzetti- Romano- Fiandaca Musco

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