mercoledì 10 novembre 2010

Coltivazione Stupefacenti ad Uso domestico

La coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti ad “uso domestico” alla luce del principio di offensivita’
Un’ interessante fattispecie che è stata vagliata dalla Corte Costituzionale in relazione al principio di offensività – la cui interpretazione è stata oggetto di una vexata quaestio - consiste nella coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti . Il principio di offensività , che può essere compendiato nel brocardo “nullum crimen sine iniuria”, si configura come un principio cardine del nostro ordinamento penalistico e preclude l’incriminazione e la conseguente punibilità di fatti che non comportino la lesione o la messa in pericolo di beni giuridicamente tutelati. Il principio di offensività presuppone ed integra il principio di materialità: Lo presuppone in quanto richiede che a fondamento dell’incriminazione vi sia un fatto nella sua materialità ( e non meri atteggiamenti interiori)lo integra in quanto esige che il fatto sia offensivo di un bene giuridico tutelato, rifiutando nettamente l’incriminazione della mera disobbedienza alle norme statuali.
Dottrina e giurisprudenza maggioritaria ritengono che il principio di offensività abbia fondamento costituzionale( vedi nota ex pluribus sul punto Mantovani- Angioni- Fiore) Esso viene desunto dall’art. 13 Cost. che, nel definire “inviolabile” la libertà personale, implicitamente richiede che non si pongano limitazioni alla stessa, se non per la tutela di interessi concreti, dall’art 27 - comma primo e terzo – che, codificando il principio di personalità della responsabilità penale e la funzione rieducativa e retributiva della pena, sembra presupporre l’incriminazione di un fatto concretamente offensivo, nonchè dal combinato disposto degli artt. 25 e 27 Cost. Questo, distinguendo le pene dalle misure di sicurezza, impedisce di incriminare fatti di mera disobbedienza, a meno di una utilizzazione della sanzione con finalità preventive, con una inaccettabile usurpazione delle funzioni proprie della misura di sicurezza, che sola è preposta a colpire la pericolositàLa norma che meglio riassume il principio di offensività, è, tuttavia,a livello di normazione ordinaria per ampia dottrina e giurisprudenza, l’art. 49 , secondo comma, che esclude la punibilità del reato impossibile che si configura quando “per l’inidoneità dell’azione o l’inesistenza dell’oggetto è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”. Particolari problemi di compatibilita’ col principio dell’ offesa si sono posti per i cosiddetti reati di pericolo astratto- presunto fra cui rientrerebbero quelli in materia di stupefacenti ivi compresa la coltivazione dei medesimi . La dottrina( ex pluribus Pagliaro- Mantovani- Fiandaca- Musco) e la giurisprudenza maggioritaria anche costituzionale(ex pluribus Corte. Cost. 360/95)salvano, tuttavia, la legittimità costituzionale dei reati de quibus in base ad un duplice percorso argomentativo. Da una parte si richiede al legislatore di ricorrere ad una forma così incisiva di anticipazione della tutela non a fronte di una irrazionale ed arbitraria valutazione di pericolosità del fatto, ma a fronte di condotte pericolose secondo l’id quod plerumque accidit ed a salvaguardia di beni primari, non suscettibili di essere efficacemente protetti con tecniche di tutela differenti ; dall’altra si impone al giudice di ricondurre alla fattispecie astratta,nel rispetto del principio di offensività in concreto, solo quelle condotte che siano effettivamente idonee a porre in pericolo l’interesse tutelato.
E’ importante stabilire il discrimen esistente tra coltivazione di sostanze psicotrope per uso specificatamente domestico e detenzione delle medesime ad uso personale stante la punibilita’ di quest’ ultima condotta con una mera sanzione amministrativa come si desume dall’ art 3 D.pr 703/90 sugli stupefacenti e successive modifiche sin alla legge 49/2006. Va precisato che il legislatore dopo il D.p.r. del 1993 seguito al referendum abrogativo,non ha fatto menzione della coltivazione domestica ai fini dell’ applicabilita’ delle sanzioni amministrative previste all’ uopo per la detenzione ad uso personale di sostanza stupefacente. Prima di esaminare i più recenti referenti normativi appare tuttavia opportuno, ai fini di una migliore comprensione della nozione penalmente rilevante di coltivazione, nonché al fine della valutazione della sua autonomia rispetto alla condotta di detenzione di sostanze stupefacenti, soffermarsi brevemente sulla progressione normativa in materia.
Sin dalla legge n. 1041 del 22 Ottobre 1954 il legislatore (agli art. 4 , 10 e 40) ritenne di incriminare la condotta di chiunque, senza la prescritta autorizzazione, coltivasse piante dalle quali si potessero ricavare sostanze comprese nell’elenco degli stupefacenti. La medesima legge (art. 6, comma 4) considerava penalmente rilevante la condotta di detenzione indipendentemente dallo scopo dell’acquisto e dal quantitativo ricevuto.
La legge n. 685 del 22 Dicembre 1975 se da un lato continuava a punire la condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti ( art. 28 comma 1) assoggettandola alle sanzioni penali ed amministrative previste per la fabbricazione illecita delle sostanze de quibus, dall’altro modificava la rilevanza penale della condotta di detenzione. Infatti, pur mantenendo ferma in linea di principio l’illiceità di tale condotta (art. 71 comma 1), escludeva tuttavia la punibilità quando le sostanze stupefacenti fossero detenute in modica quantità per uso personale.
Occorre sottolineare che, già nel vigore della legge n. 685 del 1975, la giurisprudenza riteneva non operante, per la coltivazione di modiche quantità di stupefacenti, il regime della detenzione per uso personale, in tal modo tracciando limiti rilevanti tra il trattamento penale della detenzione ed il trattamento penale della coltivazione ( Così Cass ,sez VI , 23 Ottobre 1987,Mariotti ; sez I ,7 Aprile 1987 Gallo) cio’ nonostante laprima fosse considerata come species di un unico genus. La preclusione alla rilevanza penale della coltivazione sarebbe discesa dal dato testuale di cui all’art. 80 che prevedeva, appunto, la non punibilità soltanto per chi acquistasse modiche quantità di sostanze stupefacenti o psicotrope “per farne uso personale non terapeutico”, anche se la migliore dottrina già allora riteneva che l’intento del legislatore non fosse la discriminazione dei tipi di condotta ma delle quantità implicate.
Con la legge 26 Giugno 1990 n. 162, pressoché immediatamente trasfusa nel testo unico tuttora in vigore, seppure rimaneggiato (D. p.r. 9 Ottobre 1990, n. 309 ) i requisiti di rilevanza penale della condotta di detenzione di sostanze stupefacenti sono stati modificati . In particolare l’art. 75 ha escluso l’illiceità penale delle condotte di acquisto, importazione e detenzione per uso personale solo se aventi ad oggetto un quantitativo non superiore alla dose media giornaliera determinata ai sensi del comma 1 dell’art. 78. La normativa de qua escludeva, invece, dal regime dell’uso personale tutte le condotte illecite previste dall’art. 73, tra le quali si annoverava la coltivazione. Tale esclusione si giustificava per il fatto che quella normativa ricollegava la destinazione all’uso personale al non superamento della dose media giornaliera, dato quantitativo ontologicamente incompatibile con la nozione di coltivazione, condotta questa che, di per se stessa, richiede un sia pur lieve accumulo, oggetto di esplicito divieto alla stregua del testo originario del D. p. r. 309/1990.
Il D. p. r. 5 Giugno 1993, n. 171 ha nuovamente modificato la condotta di detenzione di sostanze stupefacenti, all’esito di una procedura referendaria, sopprimendo la nozione di dose media giornaliera e così estrapolando una normativa di risulta in grado di evidenziare un regime sanzionatorio perfettamente compatibile con la coltivazione per il solo consumo personale. Tale normativa, infatti, distingue la detenzione finalizzata all’uso personale dalla detenzione finalizzata alla cessione a terzi e la quantità della sostanza, lungi dall’essere criterio discretivo tra le due condotte, viene ad assumere una pura valenza sintomatica dell’uso personale.
Oggi le norme di riferimento in materia, che non hanno sostanzialmente modificato i termini della questione successivi alla consultazione referendaria, sono contenute agli artt. 73 e 75 della legge n. 49 del 21 Febbraio 2006. L’art. 73 comma 1 punisce con la reclusione da 6 a 20 anni e con la multa da E 26.000 a 260.000 “chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’art.17, coltiva, produce, fabbrica, raffina, vende , offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, invia, spedisce in transito, consegna sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella 1 dell’art 14”, alle stesse pene è assoggettato ( al comma 1 bis)“chiunque importa, esporta, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene” sostanze stupefacenti che per quantità, modalità di presentazione o confezionamento o altre circostanze appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale. L’art. 75 qualifica invece alla stregua di illecito amministrativo la condotta di “chiunque illecitamente importa , esporta, acquista, riceve o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope”fuori dalle ipotesi di cui all’art. 73 bis.

I contrasti giurisprudenziali
Immediatamente dopo la consultazione referendaria e l’emanazione del D. p. r. 171 / 1993 che ne recepì gli esiti, la Corte Costituzionale venne investita della questione di legittimità costituzionale degli artt. 28,72,73 e 75 del T. U. 309 / 1990 in relazione all’art. 3 Cost. nella parte in cui le suddette disposizioni non escludevano l’illiceità penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all’uso personale proprio. Con la decisione n. 443 / 1994 la Corte dichiarò inammissibile la questione di costituzionalità prospettando la possibilità di un’interpretazione adeguatrice delle norme impugnate, che estendesse la disciplina della detenzione ad uso personale alla condotta di coltivazione delle sostanze in oggetto per il fine indicato.
Chiamata nuovamente a pronunciarsi sulla medesima questione, a meno di un anno dal precedente intervento, la Corte Costituzionale con la storica sentenza n. 360/1995 ne dichiarò l’infondatezza. La Consulta evidenziò, infatti, l’insussistenza di una disparità di trattamento tra la condotta di coltivazione e quella di detenzione di sostanze stupefacenti per la loro intrinseca differenza legata ad un duplice ordine di ragioni. In primo luogo la detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale presenta un collegamento immediato rispetto al consumo, collegamento che difetta nell’ipotesi di coltivazione di sostanze stupefacenti; ben può giustificarsi pertanto la scelta del legislatore di punire più severamente comportamenti propedeutici all’approvvigionamento di stupefacenti ad uso personale. In secondo luogo nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente, unitamente ad altri elementi, la valutazione prognostica della destinazione della sostanza. Nell’ipotesi di coltivazione non è invece apprezzabile ex ante il quantitativo di prodotto ricavabile dal variabile ciclo della coltivazione; pertanto anche la correlata valutazione prognostica sulla destinazione della sostanza all’uso personale risulta maggiormente ipotetica.
Nell’ambito della medesima sentenza la Corte, pur qualificando la coltivazione di sostanze stupefacenti come reato di pericolo presunto, ne suggerì un’interpretazione rispettosa del principio di offensività in concreto, ammettendo la riconducibilità alla fattispecie astratta solo di quelle condotte concretamente idonee a porre in pericolo il bene giuridico tutelato, in difetto di ciò venendo le condotte concrete a rifluire nel reato impossibile ( art. 49 c. p. ) .
La rilevante pronuncia della Corte Costituzionale, lungi dal placare il contrasto giurisprudenziale emerso all’indomani della consultazione referendaria sulla rilevanza penale della coltivazione di stupefacenti finalizzata al consumo personale, ne ha inasprito i toni. In materia si rilevano essenzialmente due orientamenti giurisprudenziali : l’ uno restrittivo e l’altro liberale.
L’orientamento prevalente, in conformità a quanto affermato dalla Corte Costituzionale, ritiene che la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti sia penalmente rilevante, quale che sia la destinazione del raccolto. Ciò in virtù di un duplice argomento :
Vi è, in primis, un argomento di carattere letterale: L’art. 75 del D. p. r. n. 309 / 1990, nel qualificare come illecito amministrativo la condotta di chi importa, esporta, acquista , riceve o comunque detiene sostanza stupefacente ad uso personale , non fa alcun riferimento all’attività di coltivazione ; peraltro , l’art. 26 , nell’incriminare la condotta di coltivazione ,vieta la produzione di specie vegetali da cui è possibile ricavare l’agente psicotropo , indipendentemente dalla dose di principio attivo estraibile . Da ciò consegue che, ai fini della verifica circa la sussistenza del reato di coltivazione abusiva, “ non rilevano la quantità e la qualità delle piante, la loro effettiva tossicità o la quantità di sostanza drogante da esse estraibile”, indici non richiesti dal legislatore neanche dopo il novum normativo del 2006. Tali elementi, lungi dall’incidere sull’an della punibilità possono tuttavia rilevare ai fini del quantu , ossia ai fini della dosimetria della pena .
In secundis si sostiene l’illiceità ex se della condotta di coltivazione in base ad un argomento logico attento all’individuazione della ratio legis. Più esplicitamente, la coltivazione di stupefacenti si configura come una condotta maggiormente pericolosa ed offensiva rispetto alla detenzione in quanto volta alla creazione di nuove disponibilità di sostanze , con conseguente pericolo di circolazione delle droghe ed alto rischio per la salute e l’incolumità pubblica . Il legislatore, proprio a cagione dell’idoneità della condotta de qua a compromettere interessi superiori di carattere collettivo ed in virtù della sua valenza criminogenetica, l’ha ritenuta meritevole di pena indipendentemente dall’accertamento della destinazione della sostanza all’uso personale, configurandola come reato di pericolo presunto. Il divergente trattamento sanzionatorio della condotta di coltivazione rispetto alla condotta di detenzione di sostanze stupefacenti non sarebbe, pertanto, che il riflesso di una differenza ontologica tra le due condotte, differenza che si evince, peraltro, come brillantemente affermato dal Giudice delle leggi, anche dalla mancanza di un collegamento immediato tra coltivazione e consumo e dall’impossibilità di determinare a priori la potenzialità della sostanza stupefacente ricavabile .
Questa interpretazione di rigore, pur sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria, è stata di recente disattesa da un orientamento giurisprudenziale che ha cercato, senza smentire l’inequivoca presa di posizione del legislatore, una soluzione equilibrata idonea a ricondurre ad equità il trattamento sanzionatorio da riservare alle condotte “minimali” di coltivazione, in relazione alle quali è impossibile dimostrare l’intenzione del coltivatore di dare alla sostanza una destinazione diversa dall’uso esclusivamente personale.
Tale orientamento giurisprudenziale, a tale scopo, ha sostenuto l’equiparazione della condotta di coltivazione finalizzata al consumo personale alla condotta di detenzione per uso personale. Alla base di tale assunto si pone, innanzitutto, un’esigenza di coerenza del sistema: Infatti, una volta abrogato il divieto dell’uso personale di sostanze stupefacenti ed una volta che il discrimen tra gli illeciti penale ed amministrativo viene fissato solo nella destinazione della sostanza al consumo personale, l’esigenza di evitare irragionevoli disparità di trattamento per condotte finalizzate al medesimo scopo, impone di interpretare l’art 75 in senso conforme alla Costituzione, estendendo tale discrimen anche alla condotta di coltivazione . Peraltro tale tesi trova un addentellato letterale nella locuzione, dal tenore generico, “comunque detiene” di cui all’art. 75 primo comma idonea a ricomprendere ogni forma di detenzione qualificata e pertanto anche la coltivazione. Inoltre si evidenzia, effettuando una sorta di analisi storicizzata dell’espressione “o comunque detiene”, che la normativa antecedente al referendum del 1993 non prevedeva come illecito amministrativo, unitamente alla condotta di detenzione per uso personale anche quella di coltivazione, in quanto la destinazione all’uso personale si ricollegava al non superamento della dose media giornaliera, dato incompatibile con la nozione di coltivazione. Una volta espunto il riferimento alla dose media giornaliera nulla osta alla riconducibilità, alla condotta di chi comunque detiene, della condotta di coltivazione . D’altra parte apparirebbe assolutamente irrazionale e sproporzionato al disvalore del fatto, sanzionare la coltivazione di poche piantine, se finalizzata al consumo personale, con pene severe quali quelle previste all’art. 73 anziché con sanzioni amministrative .
L’orientamento giurisprudenziale più “liberale” chiarisce inoltre la nozione normativa di coltivazione , oggetto di divieto penale ai sensi degli artt. 27 e 28 del D. p. r. 309 / 90, distinguendo a tal fine la c. d. “coltivazione domestica” dalla “coltivazione in senso tecnico – agrario”. La prima si sostanzia nella messa a dimora (nel giardino della propria abitazione, in un terrazzo, nel garage di casa), da parte di un tossicodipendente – assuntore, di pochissime piantine da cui sia possibile ricavare un modestissimo quantitativo di sostanza stupefacente. In queste ipotesi, per l’esiguo numero di piante, i luoghi inadatti e le tecniche rudimentali utilizzate, si è al di fuori della nozione di coltivazione normativamente prevista; di guisa che la condotta si configura come species del genus detenzione, punita solo con sanzioni amministrative a norma dell’art. 75, se ed in quanto difettino elementi che possano far ritener dimostrata una destinazione del ricavato della coltivazione ad uso non esclusivamente personale. La coltivazione penalmente rilevante è invece la coltivazione in senso tecnico agrario o imprenditoriale che è caratterizzata da una serie di presupposti, quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la presenza di locali destinati alla raccolta dei prodotti. In mancanza di tali requisiti si configurerebbe una coltivazione domestica riconducibile alla nozione di “detenzione”.
Tale indirizzo giurisprudenziale sottolinea, peraltro, il paradosso a cui si giungerebbe riconducendo qualsiasi condotta di coltivazione alla fattispecie penalmente rilevante : si assegnerebbe al contesto della scoperta forza dirimente ai fini della identificazione della fattispecie . Così, nel caso in cui il prodotto della coltivazione sia stato già raccolto, verrebbe meno il pericolo astratto della condotta di coltivazione e si procederebbe all’accertamento della pericolosità in concreto; se invece la coltivazione è ancora in corso tale accertamento resta precluso perché del tutto inconfluente ai fini dell’individuazione dell’ipotesi di reato.
La soluzione del contrasto alla luce del principio di offensività.
La sussistenza di un così intenso dibattito giurisprudenziale ha reso necessario l’intervento risolutivo delle Sezioni Unite che, con le recentissime sentenze gemelle 28605 e 28606 del 10 Luglio 2008, hanno definitivamente preso posizione sulla rilevanza penale della condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti, se finalizzata al consumo personale.
La Corte, in linea di continuità con quanto già espresso dal Giudice delle leggi e dall’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, afferma il principio di diritto secondo il quale “costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale”. Alla base di tale dictum si pone, innanzitutto, come precedentemente evidenziato, il dato testuale che non consente di equiparare la condotta di detenzione ad uso personale alla condotta di coltivazione, né tantomeno consente di distinguere nell’ambito di una nozione di coltivazione non altrimenti aggettivata, una coltivazione in senso tecnico agrario da una coltivazione c. d. domestica . Si pone, peraltro, la qualificazione, già operata dalla Corte Costituzionale, della coltivazione di sostanze stupefacenti come reato di pericolo astratto: tale qualificazione se da un lato non è incompatibile con il principio di offensività perché riferita ad una condotta idonea a porre in pericolo, secondo l’id quod plerumque accidit, beni primari quali la salute collettiva, dall’altra evidenzia l’intrinseca differenza tra la condotta di coltivazione dotata ex se di disvalore penale e la condotta di detenzione di sostanze stupefacenti penalmente rilevante solo se finalizzata alla cessione a terzi. Qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato, infatti, “da un dato essenziale e distintivo rispetto alla fattispecie di detenzione, che è quello di contribuire ad accrescere, pure se mirata a soddisfare esigenze di natura personale, la quantità di sostanza stupefacente esistente, sì da meritare un trattamento sanzionatorio diverso e più grave”.
La Corte, inoltre, per evitare gli esiti irragionevoli paventati dalla giurisprudenza minoritaria, precisa che la “successiva detenzione del prodotto della coltivazione per finalità di uso personale non comporta la sopravvenuta irrilevanza penale della precedente condotta di coltivazione”; non si realizza pertanto l’assorbimento nella fattispecie amministrativa nell’illecito penale, che è autonomo anche sotto il profilo temporale.
La Corte dopo aver affermato, a cagione degli esposti argomenti, la rilevanza penale tout court della condotta di coltivazione, aderendo all’indirizzo giurisprudenziale più rigoroso, introduce tuttavia degli importanti temperamenti in virtù del principio di offensività in concreto, principio già invocato dalla Corte Costituzionale( n. 360/95) e da parte della giurisprudenza di legittimità(ex pluribus Cass. n. 8142 / 2006,) il cui richiamo è sicuramente il profilo di maggior interesse delle pronunzie de quibus .
Il principio di offensività in concreto si atteggia, come precedentemente esposto, come criterio interpretativo applicativo affidato al giudice perché accerti che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene giuridico tutelato. Il giudice, in ossequio al principio di offensività in concreto, non potrà ricondurre alla fattispecie astratta quelle fattispecie concrete che siano assolutamente inidonee a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensive . Applicando tale principio alla fattispecie in esame ne discende che le singole condotte di coltivazione si configureranno come “inoffensive”e pertanto non penalmente rilevanti solo se il quantitativo di sostanza da esse ricavabile non è idoneo a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. LE FONTI INTERNAZIONALI E COMUNITARIE
Le condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti sono disciplinate da numerose norme internazionali e comunitarie.
Gli artt. 33 e 36 della Convenzione delle Nazioni Unite di New York del 1961 stabilirono che la detenzione non autorizzata di sostanze stupefacenti dovesse essere vietata, senza peraltro specificare la natura delle sanzioni da comminare per le infrazioni; nella stessa direzione si mosse la successiva Convenzione delle Nazioni Unite del 1971.
L'art. 3 § 2 della Convenzione di Vienna del 20 dicembre 1988, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 5 novembre 1990, n. 328, ha poi stabilito che, «fatti salvi i propri principi costituzionali ed i concetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico, ciascuna parte adotta le misure necessarie per attribuire la natura del reato conformemente alla propria legislazione interna, (...) alla detenzione e all'acquisto di stupefacenti e di sostanze psicotrope, alla coltivazione di stupefacenti destinati al consumo personale (...)».
La Commissione istituita dal Parlamento europeo per le libertà e i diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni, nell'ambito del Documento di lavoro sulle Convenzioni ONU sulle sostanze stupefacenti redatto in data 4 febbraio 2003, ha interpretato la Convenzione di Vienna in senso particolarmente rigoristico, ritenendo che essa, all'art. 3, § 2, richieda alle parti contraenti «di definire violazioni delle proprie disposizioni attribuendo la natura di reato penale, ai sensi del proprio ordinamento giuridico interno, al possesso, l'acquisto e la coltivazione di stupefacenti illegali destinati al consumo personale». Non sarebbe, dunque, sufficiente la mera previsione, per siffatte ipotesi, di un (pur articolato) sistema di sanzioni amministrative.
L'esigenza di arginare il dilagare della diffusione delle droghe ha indotto gli organi comunitari a ripetuti interventi anche in tempi più recenti.
Il Consiglio dell'Unione europea, premesso che gli Stati membri devono ottemperare ai loro obblighi a norma delle Convenzioni della Nazioni Unite del 1961, del 1971 e 1988 e devono esaminare i mezzi per rendere più efficace il rispetto di dette Convenzioni, in particolare aiutando i Paesi terzi a mettere in atto i loro obblighi, ha ribadito la determinazione comune «ad eliminare il traffico illecito di droga per proteggere le società dagli effetti devastanti di tale traffico, nonché dalle altre cause profonde del problema dell'abuso di stupefacenti, in particolare la domanda illecita di stupefacenti e gli enormi guadagni derivanti da tale traffico», evidenziando che «un ravvicinamento delle legislazioni e delle prassi, destinato a rendere più efficace la cooperazione, costituirebbe un contributo positivo al conseguimento di tale obiettivo», e affermando conclusivamente che gli Stati membri devono impegnarsi «ad adottare le misure più opportune per lottare contro la coltivazione illecita delle piante contenenti principi attivi con proprietà stupefacenti».
La decisione quadro 2004/757/GAI dello stesso Consiglio dell'Unione europea, che fissa norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti e non riguarda la «coltura del papavero da oppio, della pianta di coca o della pianta della cannabis», se tenuta «soltanto ai fini del loro consumo personale quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali», ha precisato che «l'esclusione di talune condotte relative al consumo personale dal campo di applicazione della presente decisione quadro non rappresenta un orientamento del Consiglio sul modo in cui gli Stati membri dovrebbero trattare questi altri casi nella loro legislazione nazionale».
Il Parlamento europeo, nella Relazione del 23 febbraio 2004 sulla proposta della predetta decisione quadro, ha osservato che «sono escluse dal campo di applicazione della presente decisione quadro le attività collegate al consumo strettamente personale di stupefacenti, quale definito dalle legislazioni nazionali degli Stati membri (art. 2.2.). Questo aspetto è stato l'oggetto di uno dei principali emendamenti del Parlamento europeo e rispetta effettivamente il principio di sussidiarietà. Da un punto di vista giuridico, ciò significa che gli Stati membri vogliono poter penalizzare il consumo personale, ma non vogliono essere obbligati a farlo in virtù della presente decisione quadro».
Il Piano quadriennale 2000-2004 d'azione per la lotta contro la droga predisposto dalla Commissione, premesso che l'art. 152 del Trattato CE (ora UE) esige che la salute umana venga presa in considerazione in tutte le azioni e le politiche dell'Unione europea, e che proprio la lotta alla droga costituisce una delle priorità dell'azione comunitaria in materia di sanità pubblica, ha individuato, tra le priorità per il periodo di riferimento, la lotta contro il consumo e la produzione di cannabis, di anfetamine e dell'extasy. Il Consiglio dell'Unione europea ha inoltre predisposto una nuova strategia in materia di droga, per il periodo 2005-2012, a tutela del benessere della società e dell'individuo, ed a salvaguardia della salute pubblica, onde ridurre sia l'offerta che la domanda di droga: preso atto che i dati disponibili non testimoniano alcuna significativa riduzione né dell'una né dell'altra, con specifico riguardo alla riduzione dell'offerta, è stata evidenziata la necessità di «uno sforzo globale che comprenda azione di contrasto, eliminazione delle coltivazioni illegali, riduzione della domanda ...», ed è stato conseguentemente adottato un nuovo Piano quadriennale 2005-2008 di azione in materia di lotta alla droga, contenente misure volte a ridurre, tra l'altro, la produzione di eroina, cocaina e cannabis.
La l. 22 aprile 2005, n. 69 (in tema di mandato di arresto europeo) non ricomprende le condotte di "coltivazione" di piante da stupefacenti, quale che sia la destinazione del raccolto, tra le condotte per le quali è prevista la consegna obbligatoria ex art. 8 della legge: l'omissione non appare, peraltro, decisiva, atteso che - alla stregua delle fonti internazionali appena riepilogate - le condotte di «coltivazione» rientrano fra quelle per le quali è prevista la necessità dell'incriminazione, con conseguente «doppia punibilità» della fattispecie e possibilità di emissione del MAE ex art. 7 della citata legge.
LA DOTTRINA
I contributi della dottrina allo studio della questione controversa non sono moltissimi, ma consentono anch'essi di enucleare due contrapposti orientamenti, nessuno dei quali appare, in verità, dominante.
La qualificazione della fattispecie controversa quale reato di pericolo appare pacifica.
Si è ritenuto che il concetto di "coltivazione" evochi «l'insieme delle fasi che vanno dalla semina alla raccolta delle piante produttrici, esclusa la raccolta stessa. Ciò si desume dall'art. 1, lett. f), della Convenzione unica sugli stupefacenti stipulata a New York il 30 marzo 1961, che definisce «produzione» l'operazione che consiste nel raccogliere l'oppio, la foglia di coca, la cannabis e la resina dalle piante che li forniscono».
Una dottrina meno recente(GIORDANO, La coltivazione abusiva di piante per la produzione di sostanze stupefacenti, in Giust. pen., 1988, II, c. 378) aveva osservato che «nella lingua italiana, coltivazione significa "attività diretta ad ottenere un conveniente rendimento dalla terra e dalle piante". Il concetto, sul piano giuridico (civilistico) viene individuato nel disposto di cui all'art. 2135 c.c. dove però è presente una componente economico-reddituale, nel senso che l'attività di coltivazione, definibile ex art. 2082 c.c., è intesa come "attività di produzione di beni, mercé lo sfruttamento dell'energia genetica della terra". Tuttavia, occorre depurare, ai fini che ne occupano, la nozione di "coltivazione" dai profili esclusivamente propri del diritto agrario che accentuano esclusivamente il dato produttivo ed imprenditoriale, per recuperare, invece, il significato del fenomeno in sé, come dato agronomico che rinvia ad un complesso di lavori indispensabili per il conseguimento dei frutti della terra: "rottura del suolo, preparazione del terreno, raccolta del prodotto attraverso fasi intermedie volte a sorreggere ed a stimolare il processo produttivo". In questa operazione concettuale, si sposta inevitabilmente il baricentro dalla terra alla pianta, giacché oggetto della coltivazione diventa non il terreno, ma la pianta, "essendo sufficiente un diverso elemento che riponga a sostegno della pianta e costituisca veicolo per le sostanze nutritive ad essa necessarie". Non è senza ragione che proprio quest'ultimo significato sia contestato nel diritto agrario, ponendo il diritto positivo (art. 2135 c.c.) un riferimento specifico al fondo, che però manca nella legislazione sugli stupefacenti, ove invece assume rilievo la specie botanica - indipendentemente dall'ambiente nutritivo -, e l'idoneità della pianta a fornire "sostanze stupefacenti o psicotrope". Dal che consegue che la coltivazione punibile è configurabile anche se essa viene praticata in ambienti diversi dal terreno aperto (in serra, in vasi, ecc.)».
In quest'ottica, la quantità di raccolto poteva condizionare unicamente il trattamento sanzionatorio, non anche la stessa rilevanza penale della condotta.
A favore della tesi della incondizionata rilevanza penale delle condotte di c.d. coltivazione domestica si era negato che le interpretazioni più evolute della fattispecie penalmente rilevante avessero una solida base normativa: «in particolare, pare che, per tutti gli argomenti già spesi da C. cost. n. 360 del 1995, non sia percorribile la strada dell'interpretazione estensiva della nozione di "detenzione", fino a far ricomprendere in essa il concetto di "coltivazione domestica". (...). Per individuare il nucleo centrale della questione, occorre considerare che il legislatore, valutando comunque come illecita l'attività di assunzione di sostanze stupefacenti, ha inteso sottrarre alla sanzione penale solo l'area del consumo, considerando l'assuntore come una vittima di chi produce o comunque fa circolare la sostanza stupefacente. (...). Vi sono quindi alcune condotte che sono necessariamente connesse con il consumo, punendo le quali si punirebbe automaticamente il consumo stesso. Tra di esse, in primo luogo, ovviamente, la detenzione, in quanto è evidente che non si può consumare se non si è detenuta, almeno per un attimo, la sostanza (...). Ma il nucleo centrale dell'area depenalizzata resta l'assunzione della sostanza, già esistente in natura. Tale condotta va distinta nettamente non solo da quelle che implicano la circolazione della sostanza (cessione, vendita, ecc.) ma anche da tutte quelle che tendono ad accrescere in qualsiasi modo ed in qualunque quantità, la sostanza stupefacente esistente (produzione, raffinazione, fabbricazione, coltivazione, ecc.). Il legislatore ha inteso in tal modo evitare del tutto la "creazione" di nuova sostanza, ritenendo tale attività pericolosa per la sua diffusività e per il fatto, comunque, di incoraggiare il consumo. Trattasi di scelta assai ragionevole e perfettamente conforme allo spirito complessivo della normativa in materia. La punibilità penale della coltivazione, pertanto, prescinde del tutto dalla destinazione della sostanza, in quanto opera su un piano diviso ed in tal modo si spiega l'influenza che ha avuto su tale fattispecie l'esito referendario» (RIVIEZZO, Sulla coltivazione domestica della canapa indiana, in Gazz. giur., 1998, n. 19, p. 4 ss.)
Alla luce di tali considerazioni, veniva considerata senza mezzi termini "assurda" la proposta distinzione tra coltivazione in senso tecnico-agrario e coltivazione domestica: «in primo luogo, non pare che tale distinzione sia legittimata dal dato letterale della norma, che non prevede alcuna specificazione del termine lessicale. Il fatto che negli artt. 27-29 e 30 d.P.R. n. 309 del 1990 siano previste norme particolari per la concessione delle autorizzazioni alla coltivazione, che presuppongono l'esistenza di un terreno su cui effettuare la coltivazione, depositi di stoccaggio ed eccedenze di produzione non può essere interpretato nel senso che le attività di coltivazione che non abbiano questi requisiti non siano soggette ad autorizzazione, e quindi siano lecite, ma solo che l'autorizzazione, per uso di ricerca, può essere concessa solo in presenza di questi elementi; per cui, ad esempio, la coltivazione domestica per uso personale non potrebbe giammai essere autorizzata. Invece, ciò che rileva è che tutte le coltivazioni sono accomunate da un dato essenziale, e distintivo rispetto alle fattispecie di detenzione, che è quello di contribuire ad accrescere la quantità di sostanza stupefacente esistente in natura».
Secondo l'orientamento contrario, (AMATO, i cui numerosi interventi in tema sono conclusivamente riepilogati in Guida dir., 2008, n. 31, p. 94 ss.) l'intento del Legislatore, anche prima del già menzionato referendum abrogativo del 1993 sarebbe stato quello di discriminare non i tipi di condotta, ma le quantità di droga implicate; all'esito del referendum abrogativo del 1993, per quanto in questa sede rileva, doveva ritenersi che le condotte di c.d. "coltivazione domestica" di piante stupefacenti destinate all'esclusivo uso personale dell'agente risultassero depenalizzate; venivano, in particolare, recepite le argomentazioni della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, sia quanto alla riconducibilità della c.d. "coltivazione domestica" al genus della detenzione, sia quanto alla necessità di verificare il concreto effetto drogante del raccolto.
All'indomani dell'entrata in vigore delle modifiche introdotte dalla l. n. 49 del 2006, l'orientamento ha trovato nuova linfa: parte della dottrina ha considerato irragionevole la non menzione, nella lett. a) del nuovo art. 73, comma 1-bis e nel successivo art. 75, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990 (come modificati dagli artt. 4-bis e 4-ter l. n. 49 del 2006), delle condotte di (micro)coltivazione finalizzate al solo uso personale: «un'interpretazione dei concetti di detenzione, trasporto e coltivazione ispirata al principio di offensività e, dunque, alla ratio sulla quale si fonda la scelta legislativa di differenziare la modalità dell'intervento (penale o amministrativo) a seconda che il fatto inerisca o meno all'uso non personale dovrebbe consentire soluzioni non determinate da un approccio formalistico alla lettera normativa»( EUSEBI, L'assunzione di stupefacenti non è un diritto, ma il tossicodipendente non è un "nemico", in Leg. pen., 2007, parte VI, Tavola rotonda.)Analogamente, nel senso della attuale omessa previsione della irrilevanza penale della coltivazione finalizzata all'esclusivo uso personale, altra dottrina ha osservato che «si tratta di incoerenze sulle quali la Corte costituzionale potrà intervenire attraverso un controllo di ragionevolezza/eguaglianza. E ciò anche a proposito di casi di coltivazione di cannabis, che, alla stregua dei criteri del comma 1-bis lett. a, risultino destinate ad uso esclusivamente personale. Il nuovo contesto normativo dovrebbe indurre la Consulta a rivedere posizioni negative già assunte: i criteri ora positivizzati dall'ultima norma citata potrebbero fornire sufficiente garanzia rispetto al pericolo derivante dalla ritenuta incertezza riguardante il quantitativo di prodotto ricavabile dalla coltivazione».
Sono anche stati espressi dubbi sulla possibilità che l'estromissione - tra le altre - della condotta di coltivazione dall'ambito di operatività (pur solo a livello indiziario) degli indici quantitativi di cui all'art. 73, comma 1-bis, possa comportare il superamento dell'orientamento che in precedenza riteneva prive di rilevanza penale le condotte di coltivazione c.d. domestica di un numero esiguo di piante( MANES, Commento all'art. 4-bis della l. n. 49 del 2006, in Leg. pen., 2007, p. 342.
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6. LE RAGIONI DELLA DECISIONE DELLE SEZIONI UNITE
Le Sezioni unite hanno ritenuto la fondatezza dell'orientamento già dominante, giungendo alla conclusiva affermazione del principio di diritto innanzi riportato.
A sostegno dell'affermazione della rilevanza penale di qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, pur se finalizzata all'uso personale, il supremo Collegio ha osservato, in particolare, che:
(a) come già evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale, non è individuabile un nesso di immediatezza tra la coltivazione e l'uso personale, ed è conseguentemente impossibile determinare ex ante le potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione: la fattispecie si caratterizza, infatti, rispetto agli altri delitti in materia di sostanze stupefacenti, per una notevole anticipazione della tutela penale, in relazione ad un "pericolo del pericolo", ovvero al «pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti», ed ha natura di reato di pericolo presunto, che fonda sulle «esigenze di tutela della salute collettiva», bene giuridico primario che «legittima sicuramente il legislatore ad anticiparne la protezione ad uno stadio precedente il pericolo concreto»; ad esso, si affiancano, peraltro, quali ulteriori beni giuridici tutelati, la sicurezza e l'ordine pubblico e la salvaguardia delle giovani generazioni;
(b) il fatto che, anche dopo l'intervento normativo del 2006, gli artt. 73, comma 1-bis, e 75, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990 non richiamino la condotta di "coltivazione", lascia ritenere che il legislatore abbia inteso «attribuire a tale condotta comunque e sempre una rilevanza penale, quali che siano le caratteristiche della coltivazione e quale che sia il quantitativo di principio attivo ricavabile dalle parti delle piante da stupefacenti», nel rispetto delle garanzie di riserva di legge e di tassatività, in virtù delle quali è rimessa al solo legislatore «la responsabilità delle scelte circa i limiti, gli strumenti, le forme di controllo da adottare»: il problema-droga presenta infatti «il pericolo effettivo che la carica ideologica ad esso inerente, in senso vuoi libertario vuoi conservatore e repressivo, induca a risolverlo con schemi di ampliamento e dilatazione ovvero per contro repressivi»;
(c) l'art. 75 d.P.R. n. 309 del 1990 assoggetta al regime previsto per le droghe destinate all'uso personale le sole condotte di importazione, acquisto o detenzione, con esclusione di tutte le altre condotte previste dall'art. 73 stesso d.P.R., ed il precedente art. 28 «prevede espressamente l'assoggettabilità alle sanzioni anche penali stabilite per la fabbricazione illecita di chiunque, senza essere autorizzato, "coltiva le piante indicate nell'art. 36"»;
(d) la distinzione tra «coltivazione in senso tecnico-agrario», ovvero «imprenditoriale», e «coltivazione domestica», non legittimata da alcun riferimento normativo, è arbitraria, e comunque superata dal rilievo che qualsiasi tipo di "coltivazione" è caratterizzato da un dato essenziale e distintivo rispetto alla "detenzione": «contribuire ad accrescere (...) la quantità di sostanza stupefacente esistente», il che legittima la previsione di «un trattamento sanzionatorio diverso e più grave».
Ai fini delle decisioni, è stato, peraltro, necessario valutare le possibili ripercussioni del grado di efficacia drogante del prodotto della "coltivazione" sulla punibilità della condotta, in presenza ancora una volta di orientamenti contrastanti:
(1) a parere di un orientamento, l'assenza od insufficienza di effetto drogante della sostanza coltivata consentiva di escludere l'offensività della condotta ex art. 49 c.p.;
(2) altro orientamento riteneva che la qualificazione della fattispecie come reato di pericolo astratto non consentiva di attribuire rilievo alla quantità e/o qualità delle piante, alla loro effettiva tossicità, ed alla quantità di sostanza drogante da esse estraibile: tali elementi avrebbero potuto assumere rilievo unicamente ai fini della valutazione della gravità del reato ovvero alla qualificabilità del fatto come di lieve entità.
Le Sezioni unite,con la pronuncia 28605/2008 accogliendo il primo orientamento, hanno affermato che, ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, spetta al giudice verificare in concreto l'offensività della condotta ovvero l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile, e che una condotta risulta in concreto inoffensiva «soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo. E’ perfettamente condivisibile al scelta mediana offesa in astratto – offesa in concreto adottata dalle Sezioni Unite per detta fatti specie “ coltivazione domestica” atteso che lungi dall’ aprioristica considerazione di detta ipotesi come rientrante nei reati di pericolo astratto , dovra’ l’interprete valutare in concreto se l a pianta singola abbia raggiunto il grado di maturazione tale da determinare efficacia drogante, se siano notevoli le quantita’ di piantine e quali siano i mezzi adottati per la coltivazione nonche’ le modalita’ della medesima ai fini sanzionatori onde evitar abusi strumentalizzazioni ch potrebbero derivar dall’ aprioristica scelta di punibilita’. Inoltre bisognera’ considerare anche il fattore che la condotta di coltivazione a uso domestico non potra’ esser sussunta in quella di detenzione a uso personale a priori essendo le due condotte differenti stante il nesso di immediatezza con la sostanza presente nell’ un caso e non nell’ altro. Attesa la scelta mediana delle Sezioni Unite 2008 sara’ concepibile anche giuridicamente l’assunto latino “ In medio stat virtus”?
Domenico Giannelli avvocato in Caserta

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