lunedì 8 novembre 2010

Intervento medico e consenso o dissenso del paziente

INTERVENTO MEDICO E CONSENSO O DISSENSO DEL PAZIENTE


Sommario: Premessa – 1. Inquadramento generale: il fondamento della liceità dell’attività medico-chirurgica e l’ammissibilità delle scriminanti non codificate.– 2.Trattamenti terapeutici non necessari né obbligatori: i requisiti del consenso, quale presupposto imprescindibile di liceità dell’intervento medico-chirurgico – 3. Il trattamento medico arbitrario: evoluzione giurisprudenziale dalla sentenza 13 maggio 1992 (Massimo) ai più recenti arresti della Suprema Corte– 4. Rifiuto espresso e trattamento sanitario necessario: rilevanza penale dell’intervento medico contra voluntatem e dell’omesso intervento –Conclusioni.


Premessa
Nell’attuale quadro normativo, l’assenza di un’apposita disposizione che disciplini espressamente la fattispecie del trattamento medico-chirurgico e dei limiti entro i quali ne è autorizzato l’esercizio, ha posto in dottrina e giurisprudenza tre interrogativi fondamentali:
1.       quale sia il fondamento della liceità penale del trattamento medico-chirurgico;
2.       e in tale ambito, quale sia l'esatta rilevanza giuridica del consenso del paziente;
3.       infine, quali fattispecie delittuose contro la persona siano configurabili nel caso di trattamento medico arbitrario, sia sotto il profilo di un'ipotetica offesa all'incolumità individuale che sotto quello di una potenziale lesione della libertà morale.
In ordine alla prima questione, si registrano tre tesi fondamentali:
a)      la teoria dell’azione socialmente adeguata;
b)      quella che ammette la configurabilità di scriminanti non codificate, attraverso un applicazione analogica in bonam partem di quelle codificate;
c)      ed, infine, quella (prevalente) che riconduce il fondamento di liceità dell’attività medico-chirurgica alle scriminanti già previste dall’ordinamento, invocando di volta in volta l’art. 50, l’art.51 o l’art.54 c.p., a seconda della tipologia di intervento che viene in rilievo (di chirurgia estetica; terapeutico; sperimentale; sperimentale-terapeutico) e delle circostanze fattuali (es. necessità e urgenza terapeutica) nelle quali viene effettuato.
Strettamente connessa alla prima, è, poi, la seconda questione inerente la rilevanza e i requisiti del consenso del paziente, con particolare riferimento ai trattamenti sanitari non urgenti né necessari, nei quali la copertura consensualistica del trattamento assurge a presupposto imprescindibile di liceità degli stessi. Con la conseguenza che ove detto consenso difetti o sia invalido l’intervento del medico sarà arbitrario e come tale suscettibile di assumere rilevanza penale.
Intorno a quest’ultima e più delicata tematica -relativa alle conseguenze penali del trattamento sanitario c.d. arbitrario- ruota un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che è tuttora lungi dal comporsi in modo univoco.
Indubbiamente, la materia si presenta particolarmente spinosa, conside­rata la straordinaria pregnanza degli interessi in gioco: da un lato, le istanze di tutela della dignità morale e della libertà di autodeterminazione del paziente ex artt. 13 e 32 Cost.; dall’altro, l'eser­cizio dell'attività medica che, per quanto intrinsecamente rischiosa, è ex art. 2 e 32 Cost. attività autorizzata, regolamentata ed incentivata dall'ordinamento, per le irrinunciabili finalità di interesse sociale (salvaguardia dell’integrità fisio-psichica degli individui) cui è preordinata.
A seconda che si attribuisca maggiore rilevanza all’uno o all’altro interesse contrapposto, si perverrà a conclusioni diverse in ordine alle conseguenze penali  del trattamento medico arbitrario.
Occorre, sul punto, ulteriormente distinguere l’ipotesi di intervento medico-chirurgico effettuato “in assenza di consenso” (o in presenza di un consenso invalido) da quella in cui l’intervento sia praticato “nonostante il dissenso espresso” del paziente. 
La distinzione assume rilievo decisivo nel caso in cui l’intervento sia c.d. necessario (giustificato, cioè, dal presupposto fattuale della necessità e urgenza di cui all’art.54 c.p.). Se da un lato, infatti, si riconosce, ormai pacificamente, la liceità dell’intervento arbitrario necessario effettuato in assenza di consenso, altrettanto non è a dirsi per l’intervento effettuato nonostante il rifiuto espresso del paziente.
Riassunti, quindi, i termini del problema, occorre prendere le mosse dalla questione preliminare, tuttora ampiamente discussa, del fondamento di liceità penale dell’attività medico chirurgica.

1.      Inquadramento generale: il fondamento della liceità dell’attività medico-chirurgica e l’ammissibilità delle scriminanti non codificate.

L’attività medico-chirurgica presenta indubbie ed irrinunciabili finalità di utilità sociale, essendo preordinata alla salvaguardia di beni supremi dell’ordinamento quali la vita e l’integrità psico-fisica, tuttavia, al contempo, per la sua frequente intrinseca pericolosità, può integrare fatti astrattamente conformi ad ipotesi di reato (segnatamente i delitti contro la vita e l’incolumità individuale).
Si è posto, pertanto, il problema preliminare di individuare, in assenza di una causa di giustificazione ad hoc[1][1], quale sia il fondamento normativo della liceità penale di tale attività ed entro quali limiti lo svolgimento della stessa sia autorizzato, e dunque scriminato, dall’ordinamento.
La questione in oggetto, comune all’esercizio dell’attività sportiva violenta, investe la più ampia tematica dell’ammissibilità delle c.d. scriminanti non codificate o atipiche (o tacite) nel nostro sistema penale, ovvero di cause di giustificazione non espressamente previste dalla legge e che hanno l’effetto di rendere lecite talune condotte astrattamente costituenti reato.
Sul punto si sono sviluppate tre tesi fondamentali[2][2].
Secondo una prima tesi, della c.d. azione socialmente adeguata, mutuata dalla dottrina tedesca, sarebbero scriminate tutte quelle condotte che, pur astrattamente punibili in assenza di apposita norma giustificatrice che le consenta o le autorizzi, siano ritenute “socialmente adeguate”, cioè conformi alle finalità sociali perseguite da una determinata collettività in un dato momento storico.
Tale tesi, se può trovare cittadinanza in altri ordinamenti, ispirati ad un principio di legalità sostanziale (e ad una concezione sostanziale del reato e dell’antigiuridicità) è, pressoché pacificamente, ritenuta incompatibile con un ordinamento come il nostro, informato al principio di legalità formale. Di guisa che, se è reato solo ciò che è espressamente previsto dalla legge, non può la natura illecita di un fatto essere rimossa in forza della mutevolezza del sentire sociale rispetto alle previsioni legislative. A ciò si aggiunge la considerazione, secondo la quale l’accoglimento di una tale tesi finirebbe inevitabilmente con l’innescare incertezze applicative insuperabili: perché ciò che sia socialmente adeguato ed inadeguato in un dato momento storico è rimesso alla valutazione discrezionale del giudice caso per caso, con buona pace del principio di riserva di legge (tassatività e determinatezza della fattispecie) costituzionalmente sancito all’art.25 Cost.
La seconda tesi, autorevolmente sostenuta[3][3], perviene all’ammissibilità di dette scriminanti tacite, sul presupposto- estremamente controverso- di una applicazione analogica in bonam partem di quelle codificate, atteso il loro carattere non strettamente penalistico e l’effetto conforme alla ratio sottesa al divieto di analogia, che si assume essere la salvaguardia della libertà personale (favor libertatis)[4][4].
La tesi attualmente prevalente, invece, ritiene il divieto di analogia assoluto, in quanto ispirato ad esigenze di certezza ed univocità del comando penale; nega, quindi, ogni possibilità di applicazione analogica delle scriminanti e, per l’effetto, riconduce il fondamento della liceità di tali condotte alle scriminanti già previste dall’ordinamento[5][5].
Si afferma, peraltro, che non abbia rilevanza pratica, oltre che dogmatica[6][6], la categoria delle cause di giustificazione non codificate, in quanto le ipotesi più discusse (attività medico-chirurgica ed attività sportiva violenta) sarebbero in realtà pienamente riconducibili alle scriminanti codificate.
Alcuni, ulteriormente precisando, pervengono a tale risultato applicativo attraverso il funzionamento congiunto e combinato di più scriminanti codificate.
Più nel dettaglio, il fondamento della liceità dell’attività medico-chirurgica viene da taluno individuato nel consenso dell’avente diritto di cui all’art.50 c.p., purchè “informato, esplicito, libero e attuale[7][7].
Una tale impostazione, tuttavia, presta il fianco ad una obiezione difficilmente superabile e che deriva dal combinato disposto di tale norma con l’art.5 c.c.
L’art. 50 c.p., da un lato, pone un limite invalicabile alla sua efficacia, precisando che deve trattarsi di diritti dei quali la persona può validamente disporre; dall’altro, l’art.5 c.c. prevede un divieto, di natura imperativa, a disporre del proprio corpo ove ciò possa cagionare “una diminuzione permanente dell’integrità fisica”.
Ne consegue, pertanto, che, stante il divieto di cui all’art.5 c.c., si verte in materia di diritti solo parzialmente disponibili, di guisa che l’art.50 c.p. non può costituire esclusiva causa fondante della liceità penale dell’attività medica [8][8].
A conferma di ciò, si sostiene, il divieto di natura imperativa di cui all’art.5 c.c. non è che espressione del più generale principio di ordine pubblico di salvaguardia dei beni supremi della vita e della salute anche a scapito- entro certi limiti- della libertà di autodeterminazione del singolo. Applicazioni di questo principio si rinvengono, inoltre, a livello costituzionale, nell’art.32 Cost. con la previsione di trattamenti sanitari obbligatori, nonché, in seno allo stesso codice penale, nell’incriminazione dell’omicidio del consenziente di cui all’art.579 c.p.
Il suddetto consenso ex art.50 c.p. ex se considerato può, al più, valere a scriminare le sole ipotesi, marginali, di trattamenti chirurgici di natura puramente estetica o “di routine”, la cui minima invasività (e comunque non intrinseca pericolosità) consente ragionevolmente di ritenere sufficiente, ai fini dell’esonero di responsabilità del sanitario, il consenso informato prestato dal paziente.
Al di fuori di tali ipotesi, la tesi prevalente, nel valorizzare l’evidente utilità sociale dell’attività medico-chirurgica, invoca a suo fondamento la causa di giustificazione dell’art.51c.p. sub specie di esercizio del diritto[9][9], “rinvenendone il baricentro garantista nel c.d. diritto alla salute, consacrato nell’art.32 della Costituzione”. Si sostiene, infatti, che tale attività, pur intrinsecamente pericolosa, è tuttavia attività che l’ordinamento autorizza e promuove, regolamenta e finanzia a certe condizioni ed entro certi limiti[10][10].
Più nel dettaglio, si individuano tre requisiti di liceità del trattamento medico- chirurgico, sussistendo i quali opererebbe l’art. 51 c.p. (e dunque l’autorizzazione legislativa dell’attività in oggetto):
  1. la finalità terapeutica (ovvero la finalità di cura e recupero della salute del paziente);
  2. il rispetto delle regole dell’ars medica (di natura precauzionale, che valgono a ridurre e perimetrare i confini del c.d. rischio consentito[11][11]);
  3. il consenso del paziente che si sottopone alle cure [12][12].
Solo alla ricorrenza di tutti i presupposti sopra citati, il medico che effettua il trattamento andrà esente da responsabilità penale, anche laddove l’esito sia infausto, nel senso di un aggravamento delle condizioni di salute preesistenti del paziente o, addirittura, di morte dello stesso in conseguenza dell’intervento.
In questa prospettiva, il consenso del paziente assume un ruolo decisivo, necessario, ma comunque da solo insufficiente a scriminare, in quanto funzionerebbe non come consenso scriminante ex art.50 c.p., ma come presupposto indefettibile di operatività di altra scriminante, individuata nell’esercizio del diritto di cui all’art.51 c.p. [13][13].
Si danno, tuttavia, delle eccezioni.
L’orientamento giurisprudenziale e dottrinario prevalente ha, infatti, diversificato il fondamento e i presupposti della liceità a seconda del tipo di trattamento medico che viene in rilievo. Si distingue, in primo luogo, tra attività medico chirurgica terapeutica e/o sperimentale e attività puramente estetica (con finalità non stricto sensu curative, ma di mera vanità).
Nel caso di trattamenti di chirurgia estetica e plastica, come già detto, appare sufficiente a scriminare la condotta medica il solo consenso ex art. 50 c.p., purchè si mantenga entro i limiti di cui all’art. 5 c.c.[14][14].
Con la precisazione, peraltro, che l’operatività di detta scriminante è comunque esclusa quando le lesioni o la morte del paziente siano dipese da un errore del medico (sub specie di violazione del complesso di leges artis che regolamentano il trattamento sanitario).
Ove si versi, invece, in tema di attività medico-chirurgica terapeutica o terapeutico-sperimentale o sperimentale pura (c.d. scientifica) di norma opera la scriminante di cui all’art.51 c.p., nei limiti e alla ricorrenza dei presupposti di cui si è detto. Si danno, tuttavia, talune ipotesi, circoscritte all’attività terapeutica (o al più terapeutico-sperimentale), nelle quali si prescinde dal consenso del paziente, quale presupposto ineludibile di liceità della condotta.
Si tratta, in primo luogo, degli interventi sanitari c.d. necessari, caratterizzati dal presupposto fattuale della necessità e urgenza ( c.d. terapeutica) di intervenire per far fronte ad un imminente e grave pericolo alla salute o alla vita del paziente: le eventuali conseguenze infauste dell’intervento sarebbero scriminate, secondo alcuni autori[15][15], a norma dell’art.54 c.p., ricorrendo gli estremi dello stato di necessità. Altri, ulteriormente precisando, ritengono operare l’art.51 c.p., ma sub specie di adempimento del dovere (stante la posizione di garanzia rivestita dal sanitario) integrato, sul piano fattuale, dal requisito dell’urgente necessità terapeutica, come descritto dall’art.54 c.p.[16][16]
Nel caso, infine, di trattamenti sanitari obbligatori per legge si ritiene, pacificamente, che operi per ciò solo la scriminante dell’esercizio del diritto di cui all’art.51 c.p., sub specie di attività autorizzata dal legislatore ex art.32 della Cost. in combinato disposto con le singole leggi di riferimento. In tale ambito, l’assenza di consenso del paziente o addirittura il suo rifiuto espresso all’intervento non assumerebbero rilievo ai fini dell’operatività dell’art. 51 c.p., prevalendo sulla libertà di autodeterminazione del singolo la salvaguardia della vita e della salute, seppur nei limitati casi espressamente previsti dalla legge[17][17].
Al di fuori di questi casi, e cioè nelle ipotesi più ricorrenti e più complesse di trattamenti sanitari non urgenti, né obbligatori, né puramente estetici, opererebbe, come detto, la scriminante dell’art.51 c.p. sul presupposto, imprescindibile, del consenso del paziente.

2.Trattamenti terapeutici non necessari né obbligatori: i requisiti del consenso, quale presupposto imprescindibile di liceità dell’intervento medico-chirurgico.

Come già accennato, tra i presupposti di liceità dei trattamenti medico-chirurgici non necessari né obbligatori un ruolo centrale è attribuito al consenso del paziente che si sottopone alla cura.
Tale consenso, si ribadisce, non funge di per sé da causa di giustificazione ex art.50 c.p., ma è più semplicemente espressione della libertà di autodeterminazione del singolo, il quale, a norma dell’art.32 Cost., ha il diritto di rifiutare le cure, salvo i casi, tassativamente previsti dalla legge, di trattamenti obbligatori. Si tratta, quindi, di un atto di volontà che è specificazione del riconoscimento della libertà personale di cui all’art. 13 Cost., e il cui fondamento, oltre che nel citato art. 32 Cost., si rinviene nell’art. 3 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo a norma del quale “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”.
In altri termini, “il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto delle proprie integrità corporee, le quali sono tutte profili della libertà personale proclamata inviolabile dall'art. 13 cost. Ne discende che non è attribuibile al medico un generale "diritto di curare", a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell'ammalato che si troverebbe in una posizione di "soggezione" su cui il medico potrebbe "ad libitum" intervenire, con il solo limite della propria coscienza; appare, invero, aderente ai principi dell'ordinamento riconoscere al medico la facoltà o la potestà di curare, situazioni soggettive queste derivanti dall'abilitazione all'esercizio della professione sanitaria, le quali, tuttavia, per potersi estrinsecare abbisognano di regole, del consenso della persona che al trattamento sanitario deve sottoporsi” [18][18].
Affinché il consenso sia frutto di una consapevole e ponderata manifestazione della libertà individuale occorre che sia dotato di certi requisiti, in ordine ai quali dottrina e giurisprudenza risultano alquanto prodighe di aggettivi: si richiede così, di volta in volta, che questo sia personale, esplicito, specifico, libero, attuale, informato e consapevole.
Appare opportuno chiarire i singoli aspetti.
  1. Il consenso deve, anzitutto, essere personale: deve cioè essere manifestato direttamente dal paziente, purchè si tratti di persona capace di intendere e di volere[19][19].
  2.  Deve poi trattarsi di un consenso esplicito. Si discute, tuttavia, se debba necessariamente essere anche espresso e in forma scritta, ovvero se sia sufficiente un consenso tacito, per facta concludentia[20][20] .
  3. Il consenso deve, inoltre, essere specifico: cioè deve avere ad oggetto il singolo intervento ovvero ognuna fra le ipotesi di trattamento prospettate e non potrà , quindi, essere generico o onnicomprensivo, se non nei limitati casi di interventi di routine e a basso rischio. Più in particolare, si richiede, per interventi dotati di una certa rilevanza per i beni coinvolti, un atto di volontà tanto più specifico quanto più il rischio è elevato, escludendosi, in tali casi, la possibilità di legittimare l'attività del chirurgo in virtù di una 'delega in bianco' conferitagli dal paziente[21][21].
  4. E soprattutto,  affinché sia consapevole e, dunque, espressione di una seria manifestazione di libertà di autodeterminazione terapeutica, si impone un consenso c.d. informato [22][22]. Il che comporta una specifica e particolareggiata informazione, da parte del sanitario, in ordine alla “natura dell’intervento medico e/o chirurgico, alla sua portata ed estensione, ai rischi, ai risultati conseguibili, alle possibili conseguenze negative, alla possibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri interventi e ai rischi di questi ultimi”: solo così il paziente è messo concretamente in condizione di valutare ogni rischio ed ogni alternativa[23][23]. Si afferma, infatti, che il diritto all'informazione esiste se è esercitato positivamente, nel momento in cui il paziente è messo nelle condizioni di attuarlo. Il medico, quindi, ha il compito di informare in modo compiuto il paziente, in quanto è quest’ultimo l’arbitro indiscusso della decisione di sottoporsi alle cure, ovvero di affidarsi a lui, o ancora di non sottoporsi ad alcun intervento[24][24].
  5. Dal ché consegue che il consenso deve formarsi liberamente e cioè essere immune da vizi[25][25].
  6. Deve, infine, essere reale ed effettivo, e non già presunto[26][26]; attuale, deve cioè persistere al momento dell’inizio dell’intervento (non anticipato), e sempre revocabile.
In ordine, poi, alla prova dell’intervenuto consenso da parte del paziente, si ritiene pacificamente che il sanitario possa fornirla attraverso l’esibizione dei moduli prestampati di “consenso informato” (ampiamente diffusi nella prassi ospedaliera) debitamente sottoscritti, con la precisazione, tuttavia, che detta sottoscrizione non esonera affatto il sanitario dal fornire al paziente le dovute informazioni verbali -in termini comprensibili al suo livello culturale ed intellettuale- ed inoltre, non esonera da responsabilità, salvo i casi di interventi di routine, ove il modulo contenga indicazioni generiche e non siano inserite postille che tengano conto delle peculiarità della patologia dell’assistito e della connessa terapia[27][27].

3. Il trattamento medico arbitrario: evoluzione giurisprudenziale dalla sentenza 13 maggio 1992 (Massimo) ai più recenti arresti della Suprema Corte

La precisazione dei requisiti che devono sussistere affinché il consenso del paziente possa ritenersi validamente prestato, porta, a contrario, a desumere i casi in cui si versa nel campo del penalmente rilevante, profilandosi l’ipotesi del c.d. intervento medico arbitrario.
In termini più puntuali, ricorre l’intervento medico arbitrario allorché il trattamento sanitario sia effettuato:
  1. in difetto assoluto del consenso;
  2. in presenza di un consenso non informato (ossia viziato per effetto della mancata o inesatta informativa) che è equivalente al primo sul piano giuridico;
  3. ovvero (ipotesi più  delicata e più frequente) nel caso di consenso non specificatamente riferito a quel dato intervento praticato dal medico ( il quale, in particolare, ottenuto il consenso per un certo intervento, nella fase intra-operatoria decida di praticarne uno diverso e generalmente più invasivo, ancorchè non ricorrano i presupposti della necessità  e urgenza terapeutica e possa, quindi, richiudere la breccia operatoria e consultarsi col paziente).
L’individuazione delle conseguenze penali del trattamento medico arbitrario ha innescato un vivace dibattito in dottrina e giurisprudenza, incentrato essenzialmente sulla diversa rilevanza attribuita, di volta in volta, ai due termini fondamentali della quaestio: da un lato, il consenso del paziente (che difetta o è comunque invalido), dall’altro, l’attività medico chirurgica in quanto tale (e le sue finalità terapeutiche). Appare opportuno, sul punto, distinguere varie ipotesi che possono venire in rilievo. In primis, le soluzioni prospettate variano a seconda che l’esito dell’intervento sia fausto o infausto.
Nel primo caso, è possibile individuare due contrapposti orientamenti: il primo a favore della rilevanza penale della condotta del medico; il secondo in senso contrario.
Secondo il primo orientamento, al di fuori degli atti urgenti o necessari rientranti nello stato di necessità, gli atti operatori solo opportuni, diversi (aggiuntivi o sostitutivi) rispetto a quelli consentiti, sarebbero sempre penalmente rilevanti, anche allorché l’estrema opportunità di essi sia ravvisabile nell’intento di evitare al paziente un nuovo intervento a distanza di tempo ed una nuova anestesia con i rischi connessi. In definitiva, solo il consenso del paziente validamente prestato o del suo legale rappresentante avrebbe efficacia scriminante dell’attività medico chirurgica, a meno che si tratti di atti operatori urgenti o necessari riconducibili allo stato di necessità.
Questo orientamento si distingue al suo interno in due tronconi, in relazione alla tipologia di fattispecie delittuose che possono venire in rilievo.
Secondo un primo filone, estremamente formalistico, verrebbe comunque in rilievo il delitto di lesioni personali, in quanto esso sussisterebbe anche quando il trattamento medico arbitrario abbia esito favorevole, «non potendosi ignorare il diritto di ognuno di privilegiare il proprio stato attuale». Detta conclusione, sarebbe autorizzata dall’accezione del termine malattia accolta nella relazione ministeriale al progetto del codice penale: «qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo»[28][28]. Si sostiene, più nel dettaglio, la ricorrenza del reato di lesioni personali dolose nel caso in cui il medico sia intervenuto nella piena consapevolezza dell’assenza del consenso e di ragioni di necessità e urgenza; nell’ipotesi, invece, nella quale  il medico “in assenza di un valido consenso dell'ammalato, abbia effettuato l’intervento terapeutico nella convinzione, per negligenza o imprudenza a lui imputabile, della esistenza del consenso", ricorrerà la fattispecie di lesioni colpose di cui all’art. 590 c.p. e ciò anche ove “la condotta del chirurgo nell’intervento sia di per sé immune da ogni addebito di colpa" [29][29].
Il secondo filone, più recente, muovendo dal presupposto incontrovertibile che l’esito fausto dell’intervento determina un miglioramento delle preesistenti condizioni di salute e non già una “malattia” ex art. 582 c.p.[30][30], ritiene inammissibile- per difetto di tipicità oggettiva- il reato di lesioni e profila, quindi, a carico del sanitario la lesione della sola libertà di autodeterminazione del paziente e, dunque, a seconda dei casi, i delitti di: violenza privata di cui all’art. 610 c.p.; stato di incapacità procurato mediante violenza di cui all’art. 613 o, ancora, nei casi più gravi, di sequestro di persona ex art. 605 c.p. [31][31].
Il secondo orientamento, nel ridimensionare drasticamente la rilevanza del consenso quale condizione imprescindibile di liceità dell’intervento chirurgico, osserva che:
-         non può venire in rilievo il reato di lesioni, in quanto “difetterebbe il fatto tipico del reato, arrecando il medico al paziente un miglioramento e non un peggioramento del bene della salute[32][32];
-         parimenti, non sembrano sussistere, se non a fronte di un esplicito dissenso del paziente alle cure, gli estremi dell’art.610 c.p., esulando la violenza, quale elemento descrittivo della fattispecie delittuosa in questione, dall'ordinario esercizio dell'attività medica;a fortiori sembrano ipotizzabili gli estremi degli altri reati contro la libertà morale evocati.
Con la conseguenza che, in presenza di un esito fausto dell’atto operatorio, allorché il sanitario abbia agito secondo le regole dell’arte medica, non sussisteranno gli estremi di alcun fatto penalmente rilevante, salve comunque eventuali responsabilità di ordine disciplinare e civile[33][33].
E’, tuttavia, nel caso di esito infausto dell’intervento, dal quale derivi un aggravamento delle condizioni fisiche originarie o, addirittura, la morte del paziente, che la questione della responsabilità penale del medico assume rilievo decisivo, anche in ragione della maggiore gravità delle conseguenze che ne discendono.
Superata la tesi, di ispirazione dottrinale, che affermava sussistere in capo al sanitario -in caso di trattamento privo del consenso- una responsabilità penale a titolo di colpa[34][34], è possibile distinguere due orientamenti fondamentali sul tema, ai quali corrisponde storicamente l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale degli ultimi anni del secolo scorso.
Si passa, in particolare, da un atteggiamento di massimo rigore nei confronti del sanitario e dell’attività medico-chirurgica -in ossequio alla estrema valorizzazione del consenso del paziente- , ad un atteggiamento più equilibrato di contemperamento tra gli opposti interessi in conflitto (libertà di autodeterminazione, da un lato, attività medica con finalità terapeutiche, dall’altro), maggiormente in grado di offrire soluzioni conformi alle peculiarità dell’attività medico-chirurgica e alle connesse esigenze di equità sanzionatoria.
La prima tesi, seguita a lungo dalla giurisprudenza, si snoda secondo un’impostazione rigoristica del problema stigmatizzata nel 1992 dalla Suprema Corte nel c.d. “caso Massimo”[35][35].
Nel caso di specie, il chirurgo aveva eseguito un intervento demolitore, ben diverso da quello programmato per il quale soltanto il paziente aveva prestato il suo consenso, agendo altresì in assenza dei presupposti di necessità e urgenza. Dall’intervento era conseguita, a causa di complicanze post-operatorie, la morte del paziente.
Il chirurgo veniva, quindi, condannato per omicidio preterintenzionale (art.584 c.p.) sia in primo che in secondo grado. La Cassazione, con tale pronuncia, conferma la condanna, dando ampio conto delle ragioni a sostegno della stessa. Due sono, in particolare, i passaggi salienti della sentenza:
- l’assunto secondo il quale il trattamento sanitario in assenza di valido consenso integra, per ciò solo, il reato-base di lesioni personali dolose (art.582 c.p.);
- la ricostruzione del delitto preterintenzionale come ipotesi di dolo mista a responsabilità oggettiva, e dunque integrabile sulla base dell’accertamento del mero nesso di causalità tra l’evento morte (non voluto) e l’intervento effettuato dal sanitario, a prescindere dalla verifica di qualsivoglia coefficiente psicologico di imputabilità a quest’ultimo dell’evento -più grave- in questione.
Il primo assunto muove da una estrema “valorizzazione” del consenso, quale presupposto imprescindibile di liceità del trattamento, ed è reso possibile, secondo il Collegio, dalla circostanza che “per il reato di lesioni volontarie (cui l’atto deve essere diretto perché possa, in caso di morte quale evento sopravvenuto non voluto, configurarsi il delitto di omicidio preterintenzionale) è richiesto il dolo generico e (…) l’esecuzione di un intervento chirurgico non consentito, in assenza di ragioni di urgenza che lo giustifichino, non fa venir meno l’indicato elemento psicologico essendo irrilevante la circostanza che il soggetto abbia agito per il perseguimento di uno scopo lecito o illecito o per un motivo lecito o illecito”.
In definitiva, per integrare il dolo di lesioni volontarie, si precisa, non è necessario che la volontà dell’agente sia diretta precipuamente alla produzione dell’evento lesivo (cosa che nel caso di specie non ricorre, data la finalità opposta curativa), ma è sufficiente che questi abbia previsto che dal suo comportamento avrebbe potuto determinarsi, come evento collaterale (rispetto allo scopo principale terapeutico) un’offesa all’integrità personale del soggetto passivo ed abbia agito a costo di cagionarla (accettandone cioè il rischio).
Il dolo generico, infatti, a differenza del dolo intenzionale e specifico, è perfettamente compatibile con le forme attenuate del dolo indiretto e eventuale, ed è, quindi, compatibile con la finalità curativa avuta di mira dal medico. Quest’ultima, di conseguenza, è di per sé irrilevante in quanto semplice “motivo” o scopo ultimo dell’azione, che nulla toglie alla ricorrenza dei due segmenti necessari ai fini del supposto dolo generico di lesioni: ossia la rappresentazione in capo al medico dell’evento-lesioni e la volontà di realizzarlo (anche solo in termini di effetto collaterale della condotta).
Nel caso di specie, evidenzia la Corte, il medico aveva volontariamente posto in essere l’intervento, “senza averne il diritto e senza che ve ne fosse necessità”, perfettamente rappresentandosi il rischio di lesioni all’integrità fisica del paziente come conseguenza della sua condotta, e agendo “a costo” di cagionarle.
Conclude, quindi, enunciando il seguente principio di diritto:“il chirurgo, il quale, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, sottopone il paziente ad un intervento operatorio di più grave entità, rispetto a quello meno cruento e comunque di lieve entità, del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta, sicché egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale, se da quelle lesioni deriva la morte”.
La responsabilità del medico, a titolo di omicidio preterintenzionale, viene quindi fondata sull’evidente assunto della ricostruzione dell’art.584 c.p. come figura di dolo misto a responsabilità oggettiva. Riconoscendo, nei termini di cui si è detto, la sussistenza del reato base di lesioni, l’evento morte, non voluto, è, infatti, imputato al sanitario solo in quanto eziologicamente consequenziale al processo patologico innescato dall’intervento chirurgico e a prescindere dalla prevedibilità o evitabilità dello stesso, in base alle leggi dell’ars medica.
Quanto all’elemento materiale, esso sarebbe insito nel trattamento chirurgico, essendo la condotta del chirurgo, in difetto di consenso (senza il quale “nulla il medico può fare”), «un atto solo formalmente terapeutico e sostanzialmente illecito».
Il rigore delle conclusioni alle quali è pervenuta la Suprema Corte non poteva non sollevare un vespaio di critiche, sia in sede dottrinale che giurisprudenziale[36][36], tale da condurre nel 2001 ad un decisivo revirement.
Due sono le obiezioni principali a tale impostazione, che fanno leva su una diversa ricostruzione degli elementi strutturali del reato di cui all’art.584 c.p.
In primo luogo, già sotto il profilo oggettivo, si osserva che l’art.584 c.p. richiede la direzionalità finalistica degli atti a ledere o percuotere, mentre nel caso di intervento medico la direzione degli atti è diametralmente opposta (guarire): difetterebbe, quindi, l’elemento oggettivo del reato, atteso che il medico, il quale, avvedutosi dell’inadeguatezza dell’intervento programmato e originariamente consentito, pone in essere il nuovo intervento realizzerebbe una condotta non già diretta a cagionare “una lesione dalla quale derivi una malattia nel corpo o nella mente”, ma al contrario ad impedirne il prodursi, superando lo stato morboso in atto.
Ma è soprattutto sotto il versante soggettivo che la soluzione a favore dell’omicidio preterintenzionale evidenzia insuperabili incongruenze[37][37].
Si osserva, infatti, che, valorizzando la formulazione testuale della norma di cui all’art.584 c.p. (“con atti diretti a”) anche sul versante soggettivo e non solo oggettivo della fattispecie, il dolo dell’evento voluto (in particolare le lesioni) non è quello generico di cui all’art.582 c.p. ma è diretto o intenzionale: come tale palesemente incompatibile con l’opposta finalità- terapeutica- che anima il sanitario [38][38].
Se, dunque, è vero che la finalità terapeutica non assume rilievo ai fini dell’esclusione del dolo, non essendo richiesto il dolo specifico per i reati-base di percosse e lesioni, è, parimenti, indubbio che incide sulla gradazione dello stesso, prospettandolo nella forma meno intensa del dolo eventuale, tale da escludere l’elemento soggettivo del reato base (dolo intenzionale) e dunque, a valle, la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale.
Siffatta soluzione, inoltre, sembra apparire più coerente anche con l’esigenza di attenuare il rigore dell’addebitabilità dell’evento più grave, circoscrivendone l’operatività alle sole ipotesi in cui l’agente abbia almeno direttamente voluto la produzione dell’evento meno grave.
Sviluppando ulteriormente queste considerazioni, si è escluso più a monte che si possa addebitare al medico il reato di lesioni, difettandone l’elemento soggettivo anche nella sua forma generica: in assenza del consenso del paziente, infatti, l’elemento soggettivo si sostanzia non già nella rappresentazione e volontà delle menomazioni qualificabili come “malattia del corpo o della mente”, ma nella sola rappresentazione di compiere un atto contro la volontà del destinatario e dunque nella consapevolezza di ledere non già la sua integrità fisica, che in realtà vuole curare, ma la sua libertà morale[39][39].
Verrebbero, pertanto, in rilievo, sussistendone gli estremi, taluni delitti a presidio della libertà individuale: la violenza privata di cui all’art. 610 c.p.; lo stato di incapacità procurato mediante violenza di cui all’art. 613 ; o, ancora, nei casi più gravi (a fronte di un reciso rifiuto del paziente a sottoporsi alle cure), il sequestro di persona ex art. 605 c.p[40][40].
Con la conseguenza che, nel caso in cui dall'esecuzione del trattamento sanitario arbitrario derivino effetti lesivi o mortali, la natura dolosa dei reati di cui agli artt. 605, 610 e 613 c.p. consentirà di imputare all'agente altresì, a norma dell'art. 586 c.p., l'evento lesione o morte quale conseguenza dell'offesa portata alla libertà morale.
Quest’impostazione è stata salutata con favore da alcuni, ma ha anche sollevato critiche[41][41].
Con favore da chi ha evidenziato che, riconducendo il caso all’art. 586 c.p. il medico beneficerebbe di un trattamento sanzionatorio più equo, essendo la sanzione penale prevista dall’aberratio delicti e dall’omicidio colposo molto più mite di quella prescritta dall’art. 584 c.p. Si correggerebbe, quindi, l’intollerabile iniquità sanzionatoria della soluzione Massimo, che importa una pena più grave, a carico del medico, che abbia cambiato intervento chirurgico senza il previo consenso del paziente, rispetto a quello che, pur formalisticamente autorizzato, abbia agito con negligenza, imperizia ed imprudenza.
Non sono mancate, però, le critiche. Si è, infatti, obiettato che, specie alla luce della sentenza n.364/88 della Corte Costituzionale, l’imputazione a titolo di responsabilità oggettiva dell’evento morte determinerebbe un grave vulnus al principio di personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost. Ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 586 c.p. sarebbe, quindi, comunque necessario un c.d.minimum di attribuibilità psichica dell’evento aggravatore al sanitario.
Le critiche della dottrina, in ciò seguite anche da numerosi tribunali di merito[42][42], determinano una progressiva rimeditazione della questione, culminata nel 2001 nello storico arresto della sezione IV della Cassazione[43][43], con la sentenza n. 28132 c.d. Barese, che segna il definitivo superamento delle soluzioni prospettate nel caso Massimo.
La Suprema Corte, infatti, sottopone a revisione critica il precedente orientamento sotto due versanti fondamentali:
2.      con riferimento agli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 584 c.p. (oggettivi e soggettivi);
3.      ed in ordine all’eccessiva enfatizzazione del consenso quale presupposto imprescindibile di liceità del trattamento medico.
Sotto il primo versante, la Cassazione mostra di condividere le divergenze dottrinali e giurisprudenziali -di cui si è detto- sulla ricostruzione teorica della struttura dell’omicidio preterintenzionale: e ciò sia sotto il profilo dell’attribuibilità psichica e non meramente eziologia dell’evento morte al chirurgo, sia, soprattutto, sotto il profilo della diversa configurazione dell’elemento psicologico del reato-base di lesioni.
In ordine al primo profilo, si limita incidenter tantum a sottolineare che “pacifico essendo che l’evento voluto debba essere addebitato a titolo di dolo è invece controverso se quello non voluto sia addebitabile a titolo di responsabilità oggettiva, sulla base del semplice rapporto di causalità materiale, ovvero se sia necessaria la colpa. Divergenze che si sono ulteriormente acuite a seguito della sentenza 24 marzo 1988 n. 364, sull’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale (art. 5 cod. pen.) nel caso di ignoranza incolpevole, per l’inevitabile rafforzamento conseguitone del principio di colpevolezza”.
Non affronta in modo più dettagliato la questione, perché risultava comunque già accertata la colpa dell’imputato nella causazione dell’evento più grave.
Passa, quindi, ad affrontare il secondo profilo, che costituisce il vero puctum dolens della configurabilità dell’omicidio preterintenzionale, osservando che “se è vero che la connotazione finalistica della condotta (la finalità terapeutica) è irrilevante – non essendo richiesto il dolo specifico per i reati di lesioni volontarie e percosse – è altrettanto vero che la formulazione dell’art. 584 cod. pen. (“atti diretti a”) fa propendere per la tesi, non da tutti condivisa (anche perché, secondo alcuni orientamenti, la caratteristica prevista dalla legge, riprendendo la formulazione dalla legge usata per il tentativo, riguarderebbe solo la condotta e non l’elemento soggettivo), che l’elemento soggettivo richiesto per l’omicidio preterintenzionale, quanto all’evento voluto, sia costituito dal dolo diretto o intenzionale con esclusione quindi del dolo eventuale[44][44] .
Questo non vuol dire, ad avviso del collegio, escludere sempre e comunque il dolo del reato di lesioni nel caso di intervento medico con finalità terapeutiche: affermare, infatti, che l’intento terapeutico esclude a priori questa volontà significherebbe “reintrodurre il non richiesto dolo specifico; per converso affermare l’intenzionalità della condotta, ogni volta che non vi sia il consenso del paziente, significa, in realtà, confondere il problema della natura del dolo richiesto per la fattispecie criminosa in esame con l’esistenza della scriminante costituita dal consenso dell’avente diritto”.
Ecco perché, precisa la Corte- fermi restando i presupposti della non necessità del dolo specifico e delle non discusse caratteristiche dell’elemento materiale del reato (ricavabile dal concetto di malattia fatto proprio dall’art. 582 cod. pen.) – ricorre l’elemento soggettivo del reato-base di cui all’art.584 c.p. allorché l’agente si rappresenti anticipatamente (sia pure nel corso dell’intervento chirurgico) l’esito (voluto) della sua condotta e non quando agisca “a costo” di provocarlo.
Non va infatti dimenticato che, nella fattispecie dell’omicidio preterintenzionale, l’agente pone in essere una condotta che sa, e vuole, diretta a provocare un’alterazione dell’integrità fisica della persona offesa; egli si pone consapevolmente in una situazione di illiceità ponendo coscientemente in pericolo l’incolumità fisica o la salute del paziente”.
Perché ciò si realizzi, soggiunge la Corte, “non è necessario (…) che l’agente sia animato da una “malvagia volontà” nei confronti della persona offesa ma è comunque necessario che egli si rappresenti, come conseguenza della sua condotta voluta, la lesione dell’integrità fisica del paziente”. Rilievo decisivo – proprio per l’incidenza che ne può derivare sulla natura intenzionale dell’elemento psicologico richiesto – assume, al riguardo, la differenza tra i casi nei quali l’intervento arbitrario sia deciso nella fase intra-operatoria per sopraggiunte e imprevedibili (ovvero prevedibili ma non previste) circostanze e il caso in cui detto intervento sia stato programmato con quelle caratteristiche fin dall’inizio.
Concentrandosi sulla prima e più frequente ipotesi, in cui il diverso intervento –senza il consenso del paziente- è giustificato da sopravvenienze emerse in itinere (sebbene non tali da integrare gli estremi della necessità e urgenza terapeutica), la Corte afferma che “la finalità curativa e l’essere la condotta intenzionalmente diretta a tutelare la salute del paziente e non a provocarne una menomazione valgono ad escludere non solo la sussistenza del dolo intenzionale per l’omicidio preterintenzionale, ma addirittura lo stesso dolo generico di cui all’art.582, residuando al più una responsabilità a titolo di colpa, ove se ne accerti la ricorrenza”[45][45].
Nel tentativo, poi, di enucleare alcune ipotesi esemplificative, nelle quali è possibile configurare in capo al sanitario detto dolo intenzionale[46][46], la Cassazione chiarisce che si tratta “dei casi nei quali, già nella rappresentazione dell’agente, il normale rapporto tra costi (certi) dell’intervento e benefici (eventuali) di esso è ampiamente e preventivamente conosciuto e rappresentato dall’agente come assolutamente squilibrato verso i primi”: in tali casi, infatti, il chirurgo, o il medico, pur animato da intenzioni terapeutiche, agisce “essendo conscio che il suo intervento produrrà una non necessaria menomazione dell’integrità fisica o psichica del paziente”.
Così ricondotto l'elemento soggettivo del reato entro i suoi limiti naturali, la Corte evidenzia, poi,  la preoccupazione per una “eccessiva enfatizzazione” del consenso, “le cui finalità sono in realtà diverse rispetto a quella di legittimare interventi lesivi dell'integrità del paziente” e la cui rilevanza “non ha un ambito di applicazione generalizzato” ove si tenga conto dei limiti posti dalla legge (art. 5 cod. civ.) agli atti di disposizione del proprio corpo e delle ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori nonché dei casi di trattamenti nei confronti di persone non consenzienti (per es. colui che ha tentato il suicidio o che effettua lo "sciopero della fame" o "della sete") o non in grado di esprimere il consenso.
In queste ipotesi, osserva la Corte, il consenso- di per sé- non assume rilievo decisivo nè ai fini di rendere lecito l’intervento (stante il divieto di cui all’art.5 c.c.) nè, a contrario, al fine di renderlo illecito penalmente (non è, infatti, necessario nei casi di trattamenti obbligatori e di interventi necessari e urgenti).
Il discorso cambia- soggiunge- nel caso di dissenso esplicito del paziente.
“A fronte di una manifestazione di volontà esplicitamente contraria all'intervento terapeutico il pericolo grave ed attuale per la vita o per la salute del paziente configura lo stato di necessità (…) e vale certamente ad escludere il dolo diretto di lesioni in quanto ciò che si rappresenta il medico, nell'intervenire malgrado il dissenso del paziente, è la salvaguardia della sua vita e della sua salute poste in pericolo”. Al di fuori di queste ipotesi “l'esplicito dissenso del paziente rende l'atto, asseritamente terapeutico, un'indebita violazione non solo della libertà di autodeterminazione del paziente ma anche della sua integrità con conseguente applicazione delle ordinarie regole penali”.
Sebbene non fornisca una soluzione esplicita al riguardo, la Corte sembra in parte condividere la tesi dottrinale, sopra illustrata, secondo la quale, essendo il bene giuridico protetto di cui si lamenta la lesione la libertà di autodeterminazione del paziente, il reato astrattamente configurabile sarebbe quello previsto dall'art. 610 cod. pen. (violenza privata) e l'eventuale evento lesivo o mortale che ne fosse derivato diverrebbe punibile secondo la previsione dell'art. 586 cod. pen. 
Con la precisazione, peraltro, in ordine alla condotta di cui all’art. 610 c.p., che è da escludersi la possibilità che l’attività del medico si sostanzi nella minaccia, mentre potrebbe al più ipotizzarsi la violenza, sebbene “nei soli casi di dissenso espresso del paziente al trattamento chirurgico”.
Nel caso di specie:
-         era stato effettuato un intervento demolitivo non espressamente consentito (ma neppure rifiutato) dal paziente;
-         in violazione delle leges artis (risultava processualmente accertato l’errore diagnostico e terapeutico in cui era incorso il medico[47][47]);
-         e in assenza di ragioni di necessità e urgenza che lo giustificassero.
La Corte condanna, quindi, il chirurgo per omicidio colposo, sussistendo i presupposti della colpa medica, e rileva che “se è vero che le finalità che l'agente si propone sono, nel nostro caso, irrilevanti è altrettanto vero che l'erronea rappresentazione della realtà si riverbera sull'elemento soggettivo sì da escludere non solo il dolo generico del delitto di lesioni volontarie ma altresì quello intenzionale richiesto per l'omicidio preterintenzionale[48][48].
Riassumendo, è, quindi, possibile affermare che nel caso di intervento medico praticato“in assenza del consenso del paziente o in presenza di un consenso viziato”:
1)      ove il trattamento sia necessario (ossia effettuato in presenza di una situazione di necessità e urgenza terapeutica) e/o obbligatorio, e sia eseguito secundum leges artis, l’attività è comunque scriminata, rispettivamente, ex art. 54 c.p. ovvero dall’art.51 sub specie di adempimento del dovere, integrato dal presupposto fattuale dell’urgente necessità terapeutica, ovvero nel secondo caso ex art. 51 c.p. sub specie di esercizio del diritto;
2)      ove, invece, il trattamento sanitario non sia né necessario né obbligatorio la finalità terapeutica, salvo ipotesi in cui ricorra la colpa medica o addirittura il dolo- nei termini di cui si è detto- di lesioni, esclude la configurabilità dei reati contro l’incolumità individuale, lasciando al più residuare ipotesi delittuose contro la libertà morale.
In ordine a tale tematica, di recente, la Cassazione è andata ancora oltre, precisando ulteriormente che è escluso che il medico che effettui, in mancanza di esplicito consenso, un trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure “possa essere chiamato a rispondere dei presunti danni cagionati alla vita o all'integrità fisica e psichica del soggetto sul quale ha operato a regola d'arte”; e circoscrivendo, viceversa, alla sola ipotesi di rifiuto espresso del paziente la configurabilità del delitto di violenza privata[49][49].
La prima affermazione fa perno sulla considerazione della natura “obbligata, per non dire forzata” della pratica sanitaria[50][50], specialmente quella chirurgica, salvo rare eccezioni, tale per cui “sembra lecito(…) prospettare l'esistenza di uno stato di necessità generale e, per così dire, "istituzionalizzato", intrinseco, cioè, ontologicamente, all'attività terapeutica”.
Con la conseguenza che quando “il giudice di merito riconosce, in concreto, il concorso di tutti i requisiti occorrenti per ritenere l'intervento chirurgico eseguito con la completa e puntuale osservanza delle regole proprie della scienza e della tecnica medica deve, solo per questa ragione, anche senza fare ricorso a specifiche cause di leicità codificate, escludere comunque ogni responsabilità penale dell'imputato, cui sia stato addebitato il fallimento della sua opera”.
Questa soluzione trova la sua giustificazione, ad avviso della Corte, in due dati fondamentali:
-         la preminenza, nell’attuale contesto normativo, delle esigenze di salvaguardia della salute dell’individuo sulla sua libertà di autodeterminazione, ove non espressa[51][51];
-         ma, soprattutto, in altre ragioni che attengono propriamente alla natura intrinseca dell'attività sanitaria e al rilievo, anche costituzionale, ad essa attribuito dall'ordinamento[52][52].
Viceversa, osserva la Corte, la volontà del soggetto interessato svolge un ruolo decisivo  quando sia espressa in forma negativa, “dovendosi (…) ritenere insuperabile l'espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorché l'omissione dell'intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell'infermo e, persino, la sua morte. In tale ultima ipotesi, qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata ma non - nel caso in cui il trattamento comporti lesioni chirurgiche ed il paziente muoia - il diverso e più grave reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali all'intervento terapeutico, possano rientrare nella previsione di cui all'art. 582 cod. pen.”
La prospettiva, pertanto, muta sostanzialmente ove si passi dall’intervento medico “in assenza di consenso” a quello effettuato “nonostante il rifiuto espresso” del paziente. E ciò anche nell’ipotesi in cui sussistano i presupposti della necessità e urgenza terapeutica. La delicatezza della questione ne rende opportuna una trattazione separata.

4. Rifiuto espresso e trattamento sanitario necessario: rilevanza penale dell’intervento medico contra voluntatem e dell’omesso intervento.

Tra i casi più complessi e problematici che possono presentarsi nell’esercizio dell’attività medica, si pone indubbiamente quello del rifiuto espresso del paziente a sottoporsi ad una determinata terapia, specie quando tale scelta comporti un grave pericolo per la salute e per la sua stessa vita.
Si pensi, ad esempio, alle ipotesi di rifiuto di emotrasfusioni “salvavita” da parte dei testimoni di Geova o dello “sciopero della fame” praticato in carcere dai detenuti in agitazione.
Anche in tale ambito appare opportuno, in via preliminare, distinguere le tre ipotesi di rifiuto che possono venire in rilievo, ovvero con riferimento ad un:
  1.  trattamento obbligatorio per legge;
  2. trattamento necessario;
  3. trattamento non obbligatorio né necessario.
La prima ipotesi non desta alcuna difficoltà, essendo la volontà di autodeterminazione del singolo irrilevante o comunque recessiva a fronte della preventiva valutazione del legislatore (costituzionale ex art.32 Cost. e ordinario[53][53]) circa l’obbligatorietà del trattamento: l’intervento sarà, dunque, scriminato ex art. 51c.p. sub specie di esercizio di attività autorizzata, purché praticato nel rispetto dei limiti prescritti e delle regole dell’arte medica.
Parimenti incontroversa, sebbene sotto l’opposto profilo dell’illiceità penale, è la terza ipotesi, salvo poi ad individuare le concrete fattispecie delittuose che vengono in rilevo.
Alla stregua dell’orientamento giurisprudenziale oggi prevalente (v.§3) è indubbio che l'esplicito dissenso del paziente rende l'atto, asseritamente terapeutico, un'indebita violazione della libertà di autodeterminazione del paziente, configurando il reato di violenza privata di cui all’art.610 c.p.
A ciò si aggiunge, secondo parte della giurisprudenza, anche la lesione dell’integrità fisica del paziente[54][54].
L’ipotesi più problematica è indubbiamente quella in cui il trattamento sanitario sia necessario ed urgente, rendendo più acuto e lacerante il conflitto tra il bene giuridico della vita e quello della libertà morale individuale [55][55].
Innanzi al medico, chiamato gestire tali vicende, si prospetta una drammatica alternativa:
-         rispettare la libertà di autodeterminazione del paziente, astenendosi dall’intervento e di conseguenza agevolando il peggioramento, fino alla morte in casi estremi, del paziente (decisione tanto più difficile quanto più sussistano concrete possibilità di restituire il malato ad una vita normale, e quanto più le ragioni del rifiuto di cure appaiano difficilmente comprensibili o irrazionali);
-         imporre coattivamente il trattamento sanitario, con il rischio, tuttavia, di integrare gli estremi di una violenza privata, particolarmente umiliante non solo perché rivolta al "corpo" del paziente, ma soprattutto perché destinata a svilire le convinzioni personali più radicate e profonde dell'interessato ed in definitiva il suo diritto di ergersi ad  unico "vero" arbitro dei propri più intimi interessi[56][56].
In ogni caso, la responsabilità per la gestione di tali vicende viene a ricadere interamente sul medico, con esiti, sotto il profilo penale, gravemente contradditori in giurisprudenza e in dottrina.
Sul punto è possibile distinguere tre tesi fondamentali, che pervengono a soluzioni diverse in ragione del diverso peso attribuito ai due valori in conflitto: libertà di autodeterminazione, da un lato; salvaguardia della salute e della vita dell’individuo, dall’altro.
Secondo il primo orientamento –minoritario e rigoristico-, ancorato al dogma dell'assoluta indisponibilità della vita, incomberebbe, in capo al medico, nonostante il rifiuto di cure, un obbligo di intervento a tutela della salute del paziente e ciò in ragione della posizione di garanzia da questi rivestita e della sussistenza nel nostro ordinamento di un presunto "dovere di vivere" quale limite implicito al diritto, costituzionalmente tutelato, di rifiutare le cure[57][57].
La posizione di garanzia in tal caso -ove non solo manca una volontà di affidarsi alle cure del medico ma addirittura è espressa una volontà contraria- viene desunta su base meramente fattuale-funzionale: ovvero in forza del potere di signoria del medico sull’evento lesivo, potendo egli, attivandosi, impedirne la verificazione[58][58].
Quanto, poi, alla presunta sussistenza, nel nostro ordinamento, di un limite implicito al diritto di rifiutare le cure, tale da escludere un’illimitata disponibilità del bene-vita e il c.d. diritto a lasciarsi morire, si adducono a sostegno taluni dati normativi[59][59].
 In particolare, si enumerano le norme del codice penale in materia di omicidio del consenziente e di agevolazione del suicidio; nonché il più volte citato art.5 c.c.; e soprattutto l’art.54 c.p., la cui funzione, altrimenti vanificata, sarebbe proprio quella di scriminare condotte “necessitate” dall’esigenza di salvaguardare beni supremi dell’individuo, quali la vita e l’integrità fisio-psichica.
Con riferimento, infine, alla Costituzione, si richiamano ora l'obbligo costituzionale di adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà sociale, di cui agli artt.2 e 4 Cost. (obbligo rispetto al quale atti di disposizione "negativa" della propria salute o, addirittura, della propria vita costituirebbero un'inaccettabile "scappatoia"), ora il valore costituzionale della (dignità della) "persona umana", gerarchicamente sovraordinato rispetto ai diritti alla libertà e all'autodeterminazione, e da intendersi «non come volontà di realizzarsi liberamente, ma come valore da preservare e realizzare nel rispetto di se stessi» [60][60].
Tale impostazione, tuttavia, presta il fianco a numerose critiche, due delle quali appaiono difficilmente superabili[61][61].
Da un lato, infatti, si desume un supposto "principio generale" di indisponibilità del bene vita da norme che sono pur sempre di legge ordinaria, come tali incapaci di fissare limiti alla regola sancita in modo generale ed inequivoco dall'art.32, 2° comma, Cost.
Dall’altro, pur richiamando anche norme costituzionali a supporto, tale tesi tende a svalutare il puntuale dettato normativo dell’art.32 Cost. secondo comma a favore di concetti ambigui quali la dignità sociale e il dovere solidaristico di cui agli artt. 2 e 4 Cost. e finisce, nella sostanza, col trasformare surrettiziamente il “diritto alla salute” in “dovere alla salute”: “il benessere psico-fisico viene ad essere, così, inteso non più come prerogativa del singolo, atta a fondare una pretesa solidaristica nei confronti dello Stato e della società, ma come prerogativa dello Stato e della società, implicante una pretesa verso il singolo, affinché egli si tenga bene "in forma" per meglio poter "servire" alla collettività” [62][62]. Il ché, se può apparire conforme ad istanze "utilitaristiche" di regimi totalitari, non può sicuramente conciliarsi con una norma costituzionale che, in una opposta prospettiva liberale e individualistica, sancisce expressis verbis l'illiceità di ogni trattamento sanitario contra voluntatem, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge.
Facendo, quindi, perno sulla chiara lettera del secondo comma dell'art.32 Cost., la tesi attualmente prevalente, tende a riconoscere un significato assoluto e preminente al rifiuto di cure[63][63], ora qualificandolo nei termini di una "scriminante" del reato eventualmente realizzato con l'omissione di terapie[64][64], ora nei termini di un fatto che impedisce il sorgere dello stesso "obbligo di garanzia" nei confronti del malato dissenziente (e con ciò la stessa configurabilità di un fatto tipico omissivo)[65][65].
Più in particolare, si afferma che sussisterebbe non la mera facoltà, ma addirittura l’obbligo in capo al medico di astenersi dall’intervento. Dalla qual cosa discenderebbe, come conseguenza ineludibile, l’illiceità penale dell’intervento effettuato in dispregio della volontà contraria del paziente: a prescindere dall’esito e dalla perfetta osservanza delle regole dell’arte medica, sarebbero, infatti, integrati gli estremi della fattispecie di violenza privata di cui all’art.610 c.p.[66][66] .
In tale direzione, talune decisioni dei giudici di merito che hanno ritenuto giuridicamente doverosi e dunque scriminati ex art.51 c.p. l’omissione del trattamento e il conseguente mancato impedimento dell’evento letale, in conformità al contrario e consapevole parere dell’assistito, e per l’effetto hanno mandato assolto il medico, il quale, in presenza del rifiuto di un testimone di Geova, aveva omesso di praticargli un trattamento trasfusionale “salvavita”, nonché il direttore di un istituto penitenziario, il quale, non disponendo l’alimentazione forzata di un detenuto in sciopero della fame, non ne aveva impedito la morte[67][67].
Se questo è l’orientamento prevalente, specie in dottrina, al suo interno è tuttavia emerso un filone- di matrice giurisprudenziale- che, nel tentativo di individuare un giusto equilibrio tra gli opposti valori costituzionali in conflitto, è pervenuto ad una soluzione mediana: si è, in definitiva, riconosciuta la liceità penale dell’astensione, ma al tempo stesso, si è rinvenuto nell’art.54 c.p. il fondamento normativo per scriminare gli interventi connotati dai presupposti della necessità e urgenza terapeutica.
Con  ciò, implicitamente, degradando l’obbligo in facoltà di astensione.
Tale tesi, pur riconoscendo la liceità penale dell’astensione, ammette, tuttavia, in capo al medico la facoltà di intervenire contra voluntatem, in presenza di una situazione di pericolo grave ed attuale per la vita o di danno grave alla salute della persona, non altrimenti sventabile, riconducendo la liceità dell’intervento al paradigma di cui all’art.54 c.p.
Se, da un lato, infatti, si riconosce decisivo rilievo al diritto del paziente di rifiutare le cure, ove cristallizzato in un’espressa e informata manifestazione di volontà, dall’altro, tuttavia, si ritiene che, qualora il rifiuto afferisca a terapie indispensabili per la sopravvivenza, deve poter trovare applicazione la previsione dello stato di necessità. Con la conseguenza che, laddove il medico, pur non obbligato, decida di intervenire, la sua condotta sarà comunque scriminata ex art.54 c.p.[68][68] 
Strettamente connessa a tale tematica è, infine, la vexata quaestio della persistente validità di un rifiuto alle cure, quando il paziente, in stato di incoscienza, non sia in grado di confermarlo e le cure, in precedenza rifiutate, si prospettino necessarie e improcrastinabili[69][69].
La differenziazione delle tesi sopra esaminate non poteva non riverberarsi anche su tale tema: è, infatti, possibile distinguere tre opzioni ermeneutiche.
Un primo orientamento tenta di risolvere la questione, affermando che, nella contrapposizione tra opposti principi costituzionali -solidaristico e consensualistico (ex art.32 primo e secondo comma), nel caso di specie avrebbe ragione di essere invocato il primo, di talché l’intervento medico risulterebbe comunque doveroso.
A ciò è facile obiettare che, così ragionando, si azzera in modo aprioristico e astratto il principio volontaristico: se, infatti, il paziente, non è più in grado, nella contingenza, di estrinsecare la propria volontà (confermando il rifiuto alle cure), ciò, di per sé, non può significare che quel valore non inerisca più alla sfera delle sue prerogative giuridiche[70][70].
Il secondo orientamento afferma la necessità di ricostruire il "vero" interesse del paziente, ricorrendo a criteri quali "consenso presunto", ovvero ad un consenso verso le cure che sarebbe costantemente da presumersi ogni qual volta si prospetti altrimenti, per il paziente incosciente, un rischio di morte: e ciò perché, si afferma, l'istinto di autoconservazione sarebbe insopprimibile in ogni essere vivente[71][71].
Dal ché si desumerebbe la liceità, se non talvolta la doverosità, dell’intervento medico, venendo meno la rilevanza giuridica del rifiuto, non più attuale.
Anche tale tesi non è esente da critiche, fondandosi su presunte regole "empiriche" o "equitative", non dimostrabili e suscettibili di interpretazioni altamente discrezionali, senza la guida di alcun referente normativo a sostegno. Inoltre, si evidenzia, essa condurrebbe, sotto il profilo dei risultati applicativi, a sovvertire sempre e comunque il valore del dissenso già espresso dal paziente, sacrificandolo sull’altare di un presunto e prevalente istinto di auto-conservazione[72][72].
Appare, quindi, preferibile un terzo orientamento che afferma la necessità di rinvenire nell’attuale tessuto normativo i referenti ermeneutici utili a guidare l'interprete.
Più nel dettaglio, si richiama l’art.9 della Convenzione di Oviedo, oggi trasmigrato, dal mero ambito "deontologico", dov'era "confinato" dall'art.34 del Codice di deontologia medica, a livello di legge ordinaria (legge 28 marzo 2001 n.145 di ratifica della Convenzione)[73][73].  Tale disposizione, si afferma, se da un lato non è in grado, in positivo, di offrire un criterio certo di comportamento, non essendo chiaro cosa significhi, in concreto, "tener conto" delle direttive anticipate, sicuramente, in negativo, non può voler dire che il precedente dissenso verso le cure del paziente incosciente non debba mai assumere rilevanza[74][74]. Come dire, “a fronte dell'incertezza  – innegabile– circa la prevalenza, nel caso di specie, di un interesse a curarsi o a non curarsi, l'unico dato normativamente sicuro è che un qualche valore il precedente dissenso lo deve avere” [75][75] .
Questi i passaggi fondamentali della tesi in questione:
-         il rifiuto di cure vincola il medico a non intervenire, anche se ciò dovesse comportare una compromissione seria dello stato di salute, o addirittura la morte;
-         non è rinvenibile nel sistema una regola che sancisca l'invalidità sempre e comunque di una manifestazione di dissenso verso le cure, qualora il manifestante cada successivamente in uno stato di incoscienza;
-          esiste, invece, una regola diversa, alla stregua della quale tale volontà deve avere ancora un (qualche) significato.
Nel tentativo di chiarire in che cosa questo "significato" ex art.9 cit. possa concretizzarsi, tale tesi afferma che si tratta di una disposizione, la quale, dando per scontata la validità assoluta della manifestazione di volontà contraria alla terapia (già evincibile dall'art.5 della Convenzione medesima, non a caso rubricato "regola generale"), pone a carico del medico, nel caso in cui il paziente versi in stato di incoscienza, una sorta di "onere cautelare", consistente nel sincerarsi circa l'effettiva riferibilità di quel dissenso a quelle cure. In definitiva, l'atto di autodeterminazione è sempre potenzialmente valido, in linea di massima, anche in casi così particolari, solo che l'impossibilità di una sua conferma ed ulteriore specificazione da parte del paziente rende in concreto più problematico comprendere se esso effettivamente "si attagli" alla particolare situazione, rivolgendosi a quella prestazione terapeutica o diagnostica, implicando l'accettazione di quegli specifici esiti.
La sopravvenuta incoscienza, in questa prospettiva, viene considerata non già come evenienza suscettibile di determinare per ciò solo l'applicazione di una regola specifica e diversa da quella ordinaria, che vieta l'attuazione di trattamenti sanitari contra voluntatem (regola che sarebbe priva di un qualsivoglia fondamento normativo), ma come dato fattuale suscettibile in concreto di rendere più difficoltoso, in un'ottica lato sensu "probatoria", l'accertamento dell'esistenza di un effettivo dissenso rispetto alle cure[76][76].
In conclusione, poi, si precisa che con tale soluzione “non si ipotizza l'attribuzione al medico di un autonomo potere-dovere "inquirente" come un pubblico ministero: ciò che conta è che il sanitario compia quelle verifiche, circa la "reale" volontà del paziente, esigibili in situazioni di così pressante emergenza, nei limiti delle concrete possibilità offerte ad un soggetto privo di qualsiasi autorità "istituzionale" in tal senso. Se dovesse poi a posteriori risultare che, in realtà, quel dissenso non era significativo, l'omissione di terapie, con esito mortale, potrà comunque considerarsi non dolosa – se il medico era assolutamente convinto della presenza di un rifiuto di cure – e neppure colposa, se tale convinzione discendeva da una considerazione sufficientemente attenta dei dati a sua conoscenza”[77][77].
Il tutto, con la precisazione che l'art.32 della Cost. non contempla un'alternativa tra curarsi e lasciarsi morire, tra curarsi e lasciarsi ammalare, ma si riferisce esclusivamente al diritto di rifiutare determinati trattamenti sanitari[78][78].
Ne consegue che, il medico destinatario di un dissenso non già generalizzato, ma riferito soltanto a specifiche cure, non sarà per ciò solo liberato da qualsiasi dovere nei confronti del paziente, ma dovrà comunque ricorrere a tutte le terapie alternative rispetto a quella divenuta impraticabile, purché esse abbiano legittimazione scientifica (giacché il dovere del curante si informa per l'appunto alla miglior scienza ed esperienza medico).
Qualora, però, il dissenso sia di così ampia portata da rendere in sostanza impraticabile qualsiasi tipo di intervento (venendo con ciò a coincidere con una vera e propria richiesta di eutanasia consensuale passiva[79][79]), a carico del medico residuerà comunque un dovere di dialogare col paziente circa le implicazioni di una tale scelta, essendo un'adeguata informazione, e se opportuno una corretta e sapiente attività di persuasione, gli ultimi mezzi disponibili per ottemperare al proprio compito di garante [80][80].

Conclusioni
La tematica della rilevanza penale dell’intervento medico arbitrario, sotto i tre diversi profili esaminati (in assenza del consenso, in presenza di un rifiuto espresso, e su persona in stato di incoscienza che abbia in precedenza espresso un rifiuto alle cure), resta a tutt'oggi aperta[81][81]. 
La mancata copertura consensualista dell’atto medico, in violazione dell’art.32 Cost., degrada, per le ragioni di cui si è detto, una condotta lecita e autorizzata dall’ordinamento in comportamento suscettibile di assumere rilevanza penale.
E’ tuttavia possibile affermare che, se da un lato, emerge prepotentemente un diritto del paziente a non sottoporsi alle cure ex art.32 Cost., quale immediata derivazione del principio personalistico di cui all'art. 2 Cost. e della libertà di autodeterminazione di cui all’art.13 Cost.; dall’altro non possono sottacersi insopprimibili istanze solidaristiche di tutela della salvaguardia dell’integrità fisio-psichica dell’individuo, nonché di promozione e miglioramento dell’attività medico-chirurgica.
Ecco perché si è imposta la distinzione tra le ipotesi di mera mancanza di consenso e le fattispecie in cui sia stato opposto un esplicito rifiuto al trattamento terapeutico: solo nelle seconde si è, infatti, cristallizzata una specifica estrinsecazione del patrimonio spirituale e culturale dell'individuo.
Con la conseguenza che, se in costanza di dissenso consapevole ed informato del paziente, si tende a profilare quanto meno la lesione del bene giuridico della libertà morale; nel caso di mera assenza del consenso, la finalità terapeutica può e deve, a certe condizioni, prevalere, escludendo la responsabilità penale del sanitario. In particolare, ove l’intervento risulti assolutamente necessario ed indilazionabile non può non essere pienamente scriminato (ex art.54 c.p.), non emergendo in alcun modo un interesse personale contrario e prevalente rispetto a quello valorizzato in via principale dall'ordinamento, ovvero l'interesse "alla salute".
E, tuttavia, anche nell’ipotesi in cui l’intervento sia solo opportuno e non effettivamente necessario, un atteggiamento di eccessivo rigore come quello prospettato nel caso Massimo, rischia di originare danni ancor più gravi di quelli inferti alla libertà di autodeterminazione del singolo: ossia, da un lato, una elevata conflittualità giudiziaria, indotta dalla sempre maggiore diffidenza dei cittadini verso le strutture sanitarie e verso coloro che vi lavorano; dall’altro l'inquietante fenomeno della "medicina difensiva", di cui sono, tra l'altro, espressione la spasmodica ricerca da parte dei medici di adesioni "modulistiche" sottoscritte dai pazienti, nell'erronea supposizione di una loro totale attitudine esimente” e , per converso, il rallentamento se non a volte la paralisi di pratiche chirurgiche altamente rischiose.
La giurisprudenza ha, in tale ambito, un compito tanto decisivo, quanto estremamente delicato ed angosciante.



[1][1] Recentemente, la Relazione della Commissione Ministeriale per la riforma del Codice Penale, istituita con Decreto Ministeriale del 1° Ottobre 1998, presieduta dal Professore Avvocato Carlo Federico Grosso, ha affrontato la questione relativa alla possibilità di introdurre una causa di giustificazione ad hoc per l'attività terapeutica e gli interventi medico-chirurgici. Già l'art. 16, n°5 dello schema di legge-delega Pagliaro stabiliva la necessità di considerare scriminata l'attività medico-chirurgica, a patto che: " (a) vi sia il consenso dell'avente diritto o, in caso di impossibilità a consentire, il suo consenso presumibile e l'urgente necessità del trattamento; (b) il vantaggio alla salute sia verosimilmente superiore al rischio; (c) siano osservate le regole della migliore scienza medica". La Commissione del Progetto Grosso, invece, si è espressa in senso contrario, in quanto ha affermato che il rischio di intervenire in questo settore comporterebbe un irrigidimento della disciplina normativa, ormai ancorata a principi della prassi e della giurisprudenza che possono ritenersi consolidati. Inoltre, parlare di consenso presumibile richiede di affrontare un tema molto delicato, quello cioè della corretta informazione del paziente, argomento sul quale non sussistono ancora certezze in campo dottrinale, tema tra l'altro non trattato dal progetto Pagliaro. Quanto al requisito in base al quale il vantaggio alla salute deve essere superiore al rischio per il malato, esso non è facilmente misurabile, per cui richiederlo come presupposto espresso di una scriminante non sarebbe accettabile per la sua estrema genericità. Per tacere, poi, dell'osservanza delle norme che presiedono alla determinazione della migliore scienza ed esperienza, inquadrabili più nell'ambito della colpa che delle esimenti. Infine, non si prenderebbero in considerazione gli orientamenti giurisprudenziali in materia, che, quando hanno ritenuto che il consenso non fosse abbastanza 'informato', hanno propeso per la configurazione di delitti dolosi o preterintenzionali contro la persona (relazione pubblicata in Riv. it. dir. e proc. pen., I, Milano, 1999, 616 ss.).
[2][2] Per un’approfondita disamina della questione si rinvia a GAROFOLI, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 2006.
[3][3] Cfr., in tal senso, ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, pt. gen., Milano, 1997, 97 ss e 307 ss. ; e Vassalli, Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di ne­cessità nel trattamento medico-chirugico, in Arch. pen., 1973, I, 81-113 (l'Autore è tra i principali fautori della tesi del necessario ricorso ad una scriminante non codificata per giu­stificare la liceità dell'attività medica arbitraria, stante la palese iniquità sostanziale dell'omologa­zione di un intervento terapeutico alle condotte aggressive dell'incolumità della persona, ed il carattere paradossale della configurazione degli estremi di una fattispecie delittuosa contro la persona nell'esercizio di un'attività istituzionalmente disciplinata dall'ordinamento).
E’ opportuno, peraltro, rilevare che parte della stessa dottrina a favore dell’analogia in bonam partem, non manca talvolta di escluderla nei confronti di specifiche scriminanti, avuto riguardo alla loro struttura e al loro contenuto. Si tratta di quelle scriminanti già previste dalla stessa legge nella loro massima portata estensiva (art. 51 e 54 c.p., suscettibili di interpretazione estensiva) o rispetto alle quali il superamento di uno degli specifici elementi costitutivi farebbe venir meno l’eadem ratio di disciplina (es. art. 50 c.p. non estendibile ai diritti non disponibili e art. 53 c.p. in ragione della sua natura sussidiaria rispetto agli artt.51 e 52). In tal senso, v. per es. CARACCIOLI, L’esercizio del diritto, Milano, 1965, 29 ss. (con riferimento all’art.51 c.p.); GROSSO, Difesa legittima e stato di necessità,Milano, 1964, 266 ss. (nei confronti dell’art.52 c.p.).
Anche la Cassazione di recente ha affermato che, in presenza di un intervento chirurgico realizzato con la completa e puntuale osservanza delle regole proprie della scienza e della tecnica e salvo il caso in cui ricorra un dissenso espresso del paziente, non sia neppure necessario fare riferimento alle cause di giustificazione codificate, atteso che “l'attività terapeutica, essendo strumentale alla garanzia del diritto alla salute previsto dall'art. 32 Cast, è autorizzata e disanimata dall'ordinamento ed è quindi scriminata da uno “stato di necessita” ontologicamente intrinseco, senza che sia necessario fare riferimento alle cause di giustificazione codificate”. (Cass. pen., sez.I, 29-05-2002, n. 528 e nello stesso senso Cass. pen., sez.I, 11-07-2002, n.26446 di cui si dirà ampiamente nel § 3).
[4][4] Si tende, in particolare, a riconoscere la liceità penale dell’attività in oggetto, ove determini esiti infausti, attraverso un’applicazione analogica dell’art.50 c.p.(talvolta in combinato disposto con elementi dell’art.51 c.p.), dilatandone i confini fino ad ammettere, in ragione di una presunta eadem ratio, anche i casi di consenso presunto ovvero fino a ricomprendere nel concetto di diritto disponibile anche le lesioni dovute ad interventi chirurgici; e ancora, ove manchi il consenso, si evoca l’applicazione analogica della scriminante dello stato di necessità di cui all’art.54 c.p. alle ipotesi in cui il pericolo di un danno grave alla persona sia solo potenziale e non già attuale. Difficilmente superabili, sono tuttavia, le critiche al riguardo: in ordine al consenso presunto v. nota 26; in ordine al concetto di diritto disponibile e, per contro, all’ostacolo insuperabile dell’art.5 c.c. v. infra; quanto, infine, all’applicazione analogica dello stato di necessità si replica che così opinando verrebbe meno la ratio dell’art.54 c.p. basata sul principio dell’inesigibilità del comportamento lecito, che in tali ipotesi sarebbe, per converso, esigibile.
[5][5] V. MANTOVANI, Manuale di diritto penale, pt. gen., Padova, 2001, 81 ss; SABATINI, Istituzioni di diritto penale, I, Catania, 1946, 120; BENINCASA, Liceità e fondamento dell’attività medico-chirurgica a scopo terapeutico, in Riv. it. dir. e proc. pen, Milano, 1980, 713 ss.; PANNAIN, Manuale di diritto penale, pt. gen., Torino, 1967, 142 ss. Nega l’applicazione analogica delle scriminanti anche PADOVANI, Diritto penale, parte generale, Milano, 1999, 45, ma in ragione della natura eccezionale delle stesse ex art.14 delle preleggi. Supera l’obiezione, evidenziando l’insussistenza di un rapporto di genus ad species tra norme incriminatici e scriminanti, MANTOVANI, op. cit., 308.
[6][6] Sotto questo profilo, si osserva che il ricorso all'analogia trova un ostacolo normativo nelle Disposizioni sulla legge in generale, il cui articolo 12 lo ammette solamente ove non sia possibile risolvere altrimenti una controversia, mentre nulla si dice a proposito del caso in cui si debba non colmare una lacuna normativa, ma introdurre una nuova causa di giustificazione, che vada ad aggiungersi a quelle che la legge già prevede. Ritenere operante una scriminante con un procedimento che la legge non autorizza, perciò, significherebbe andare contro la volontà del legislatore, conferendo al giudice del caso concreto un margine di discrezionalità inammissibile.
[7][7] MACCHIARELLI-ARBARELLO-CAVE BONDI-FEOLA, Compendio di medicina legale,Torino, 1998, 302; CRESPI, La responsabilità penale nel trattamento medico-chirurgico con esito infausto,Palermo, 1955; RIZ, Il consenso dell’avente diritto, Padova, 1979; BENINCASA, op. cit., 723, il quale opta per la scriminante de qua, nel caso in cui il paziente sia in grado di esprimere un valido consenso, mentre in caso negativo si interroga sulla possibilità di configurare lo stato di necessità o il consenso presunto.
[8][8] A tale obiezione, parte della dottrina (v. nota precedente) replica ricorrendo alla consuetudine e alla tesi secondo la quale l’art.5 c.c. avrebbe ad oggetto un divieto solo di natura civilistica, la cui violazione determinebbe esclusivamente la nullità dei contratti aventi ad oggetto atti di disposizione del corpo umano a scopo di lucro; viceversa tale articolo non avrebbe alcuna efficacia limitatrice del consenso in campo penale. Ma v. in senso critico a tali affermazioni MANNA, Trattamento medico-chirurgico, in Enciclopedia del diritto, XLIV, Milano, 1992, 1280 ss. Si osserva, ex adverso, che, per quanto concerne il ricorso alla consuetudine, sarebbe inammissibile una deroga ad una norma di legge primaria (art.5 c.c.) da parte di fonte subordinata, configurandosi come consuetudine contra o comunque praeter lege; d’altra parte, laddove il legislatore ha inteso derogare all’art.5 c.c. lo ha fatto espressamente, come in tema di trapianti del rene e di parti del fegato. Sotto il secondo versante, si osserva che negare l’applicabilità dell’art. 5c.c. al diritto penale, ivi compreso alla scriminante dell’art.50 c.p., significherebbe contravvenire all’ormai accettata tesi dell’applicabilità delle cause di giustificazione all’intero ordinamento giuridico e non solo al diritto penale.
[9][9] Per diritto non s'intende soltanto il diritto soggettivo, ma si possono ricomprendere al suo interno anche l'esercizio di attività dotate di un'autorizzazione giuridica da parte dello Stato, e quindi l'attività medico-chirurgica; occorre cioè che la legge, anche implicitamente, permetta all'individuo di esercitare quel potere giuridico o facoltà legittima che si concreta nell'azione che altrimenti costituisce reato.
[10][10] Cfr. GAROFOLI, op. cit., 381.
[11][11] Per un approfondimento sulla tematica della colpa professionale medica v. GAROFOLI, op. cit., 470 ss.
[12][12] Sulla tematica dei requisiti del consenso, si rinvia al paragrafo seguente.
[13][13] MANTOVANI, op. cit., 287 ss.; in giurisprudenza significativa è sul punto Cass., sez. IV, 3 ottobre 2001, n.1571, in Cass. pen., 2002, 2041,  secondo la quale il fondamento della liceità penale dell’attività medico-chirurgica consiste nella sua “autolegittimazione”, rispetto alla quale il consenso del paziente assurge a presupposto imprescindibile di invocabilità, salvo i casi di trattamenti obbligatori ex lege o di intervento medico urgente e indifferibile.
[14][14] Entro gli stessi limiti è riconosciuta la liceità della donazione di sangue (l. 107 del 1990); analogo discorso può farsi per il prelievo della cute. Quanto alla donazione di organi da vivente, in linea generale il consenso non può scriminarla, stanti i limiti dell'art.5, salvo le eccezioni del trapianto di rene e di parte del fegato, espressamente consentite dalla legge ( l. 26 giugno 1967 n.458 per il trapianto di rene da vivente; l. 16 dicembre 1999, n.483 per quello di parte del fegato).
[15][15] RIZ, Il consenso dell’avente diritto, cit.
[16][16] Si tratta di una combinazione congiunta di più scriminanti che si pone al limite con la tesi delle scriminanti non codificate: v. in tal senso MANTOVANI, op. cit., 289.
[17][17] Il trattamento sanitario obbligatorio, come specifica l’articolo 1 della legge 180/78 si configura come un’eventualità del tutto eccezionale, una deroga espressamente autorizzata - e disciplinata nei minimi dettagli - dalla legge (art. 2 della n. 180 cit. e art. 34 della l. n.833/78), al principio del necessario consenso, nel pieno rispetto della riserva di legge sancita nel 2º comma dell'art. 32 della Costituzione. In tal senso, la disposizione contenuta nel comma 5 dell'articolo 1 l. cit., precisa che: "Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato". E ciò evidenzia come, prima di intervenire in via coercitiva, deve comunque essere posto in essere ogni tentativo utile per ottenere il consenso. Il fatto, poi, che i trattamenti sanitari prestati in via coercitiva non devono violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana e della sua dignità, implica la fissazione di un criterio generale di valutazione del comportamento posto in essere dal medico e dai suoi collaboratori.
[18][18] Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 2001, n. 1572.
[19][19] Fanno eccezione, quindi, le ipotesi in cui il paziente sia infermo di mente, minore o comunque incapace di intendere e di volere, nelle quali  l’approvazione al trattamento deve essere manifestata dal rappresentante legale, ossia dai genitori esercenti la potestà o dal tutore. Tuttavia, nei confronti degli infradiciottenni è ormai acquisito il principio secondo cui, in considerazione dell'età e del livello di maturità raggiunto, vanno sempre fornite al minore congrue informazioni sanitarie, dovendosi tenere conto, in misura crescente con il passare dell’età, del parere specifico dell’interessato.
Più nel dettaglio, nella fascia di età compresa tra i quattordici e i sedici anni, per il fatto che il minore acquisisce una individuale capacità di agire, alla consapevole volontà espressa dal minore non è possibile non riconoscere rilevanza soprattutto nel caso di esplicito e fermo dissenso. Viene citato a tal proposito l’articolo 6 della Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedica (Oviedo - 1997), che contiene una specifica disposizione riguardante i trattamenti sanitari rivolti ai minorenni:“Il parere del minore è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità”.
Alla suddetta disposizione fa da corollario l’analoga previsione del Codice deontologico dei medici, che prevede il consenso del legale rappresentante (“fermo restando il rispetto dei diritti del legale rappresentante”), ma anche l’obbligo di informare il minore e di tenere conto della sua volontà, compatibilmente con l’età e con la capacità di comprensione (art. 34).Soltanto nel caso di “trattamento necessario ed indifferibile”, l’opposizione del minore non viene considerata e se ad opporsi è il legale rappresentante, il medico è tenuto ad informare l’autorità giudiziaria (art. 33).
[20][20] Pur nella diversità delle opinioni dottrinarie e giurisprudenziali, si reputa tendenzialmente non necessaria la manifestazione del consenso in forma sacramentale, anche se la forma scritta assume significativo rilievo ai fini probatori. In ordine, tuttavia, all’inidoneità della mera sottoscrizione del modulo di consenso informato a ritenere assolto il dovere di informazione dei medici v. Tribunale Milano, sez. V civile, sentenza 29.03.2005 n° 3520 (pubblicata il 29.3.2005), ove si evidenzia che  il consenso deve essere frutto di un rapporto reale e non solo apparente tra medico e paziente, in cui il sanitario è tenuto a raccogliere un’adesione effettiva e partecipata, non solo cartacea, all’intervento. Esso non è dunque un atto puramente formale e burocratico ma è la condizione imprescindibile per trasformare un atto normalmente illecito (la violazione dell’integrità psicofisica) in un atto lecito”. Con la conseguenza che, ove la formulazione del modulo sia generica, sintetica e non dettagliata, non precisando “quali siano i rischi specifici, ovvero le diverse possibili procedure”, “non può ritenersi che il paziente, anche solo dalla semplice lettura di tale modulo, possa avere compreso effettivamente le modalità ed i rischi connessi all’intervento, in modo da esercitare consapevolmente il proprio diritto di autodeterminarsi in vista dello stesso”.
In ordine al consenso per facta concludentia, la dottrina tendenzialmente reputa non valido un nulla-osta puramente tacito  e ciò a difesa dei diritti di autodeterminazione dell’assistito. Tuttavia, in  giurisprudenza, per quanto si affermi l'importanza di una manifestazione espressa di volontà, si ammette che in certi casi sia configurabile un consenso tacito, "purché suffragato da una condotta inequivocabilmente idonea ad esternare l'effettiva volontà del paziente".
[21][21] Delicata è, al riguardo, la questione circa la doverosità del consenso, nell’imminenza di un intervento chirurgico, anche con riferimento all'opera dell'anestesista. Ci si chiede, in particolare, se nel consenso che viene prestato all’operazione chirurgica, in generale, possa ritenersi compresa o meno anche un’approvazione di quanto attenga specificamente all'anestesia. I pareri al riguardo divergono. C'è chi opina che un’accettazione siffatta dovrebbe, in linea di massima, considerarsi implicita. Altri insistono, opportunamente, sui limiti di qualsiasi presunzione in materia. Nessun dubbio, in effetti, che ogniqualvolta il trattamento anestetico presenti rischi di particolare entità, di questi il paziente deve essere preventivamente informato, a pena di rendere il trattamento de quo arbitrario.
V. sul punto, in tema di interventi chirurgici in "equipe", Cass. civ. Sez.III 15-01-1997, n. 364, la quale ha stabilito che il medico non può intervenire senza il consenso informato del paziente, aggiungendo che “se le singole fasi assumono un'autonomia gestionale e presentano varie soluzioni alternative, ognuna delle quali comporti rischi diversi, il suo dovere di informazione si estende anche alle singole fasi e ai rispettivi rischi”. E ancora, più recentemente, Cass. civ. sez. III 30-07-2004, n. 14638, nella quale si afferma che“se è vero che la richiesta di uno specifico intervento chirurgico, avanzata dal paziente, può farne presumere il consenso a tutte le operazioni preparatorie e successive che vi sono connesse, e in particolare al trattamento anestesiologico, allorché più siano le tecniche di esecuzione di quest'ultimo, e le stesse comportino rischi diversi, è dovere del sanitario, cui pur spettano le scelte operative, informarlo dei rischi e dei vantaggi specifici e operare la scelta in relazione all'assunzione che il paziente ne intenda compiere”.
[22][22] A titolo meramente esemplificativo, si indicano talune fonti – anche di rango regolamentare-  che impongono l’obbligo del consenso informato per specifiche attività sanitarie: art.3 l. 4 maggio 1990 n.107 (recante la “Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano e ai suoi componenti per la produzione di plasmaderivati”); art. 5 della l. 5 giugno 1990, n.135, in tema di prevenzione e lotta all’AIDS; gli artt. 19, 26, 28, 31 e 34 del D.M. recante “Protocolli per l’accertamento dell’idoneità del donatore di sangue ed emoderivati”; art.7 della l. 2 maggio 1992, n.210, recante “Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati”; il D.M. 15 luglio 1997, recante “Recepimento delle linee guida dell’Unione Europea di buona pratica clinica per la esecuzione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali” etc. In tal senso v. ora il nuovo Codice di deontologia medica, approvato il 4 Ottobre 1998, che afferma nell'art. 30 il dovere del sanitario di informare il paziente, tenendo in considerazione anche le sue caratteristiche personali, per renderlo edotto delle proprie reali condizioni e delle possibilità terapeutiche che gli si prospettano. L'art. 32, 1° comma, sancisce che "Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica, senza l'acquisizione del consenso informato del paziente". La forma prevista è quella scritta per i casi previsti dalla legge e quelli in cui le conseguenze possono essere molto gravi per il singolo. In ogni caso, se la prestazione diagnostica e il trattamento terapeutico comportano un alto rischio per l'incolumità del paziente, il medico può operare solo in casi di assoluta necessità e previa informazione sulle conseguenze possibili.
[23][23] Cfr. Cass. civ, 23 maggio 2001, n. 7027, ove si precisa ulteriormente, in sede di accertamento della responsabilità civile del medico, che “nel caso di interventi di chirurgia estetica, in quanto non finalizzati al recupero della salute in senso stretto, l'informazione deve essere particolarmente precisa e dettagliata”. Nello stesso senso Cass. n 364/1997; Cass. n. 10014/1994. E ancora, sempre in sede di responsabilità civile, la Suprema Corte ha chiarito che l’onere di informazione in capo al medico si estende anche allo stato di efficienza e al livello di dotazioni della struttura sanitaria in cui presta la sua attività. Questo il principio fissato: “Il consenso informato - personale del paziente o di un proprio familiare - in vista di un intervento chirurgico o di altra terapia specialistica o accertamento diagnostico invasivi, non riguardano soltanto i rischi oggettivi e tecnici in relazione alla situazione soggettiva e allo stato dell'arte della disciplina, ma riguardano anche la concreta, magari momentaneamente carente situazione ospedaliera, in rapporto alle dotazioni e alle attrezzature, e al loro regolare funzionamento, in modo che il paziente possa non soltanto decidere se sottoporsi o meno all'intervento, ma anche se farlo in quella struttura ovvero chiedere di trasferirsi in un'altra. L'omessa informazione sul punto può configurare una negligenza grave, della quale il medico risponderà in concorso con l'ospedale sul piano della responsabilità civile, quindi del risarcimento del danno, ed eventualmente anche sul piano professionale, deontologico – disciplinare” (Cass. civ. sez. III 16-05-2000, n. 6318 e negli stessi termini più recentemente Cass. civ. sez. III 30-07-2004, n. 14638).
[24][24] Sempre in tema di consenso informato e per le ripercussioni che potrebbe avere anche in sede penale si segnala la recentissima sentenza della Cassazione civile 10 marzo 2006  n.5444, per due aspetti in particolare. Il primo attiene al fatto che la Cassazione sancisce l’obbligo in capo alla struttura sanitaria che eroga la prestazione di informare il paziente dei rischi che corre in ogni caso, anche se esegua una prestazione già prescritta da altro specialista.
Circa il secondo aspetto la Cassazione ha sancito il risarcimento del danno in capo alla paziente per mancata acquisizione del consenso, pur dando atto che non vi erano profili di responsabilità professionale in quanto la prestazione era stata adempiuta nel pieno rispetto delle regole dell’ars medica. In particolare, secondo la Corte,"la correttezza o meno del trattamento non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, in quanto è del tutto indifferente ai fini della configurazione della condotta omissiva dannosa e dell’ingiustizia del fatto, la quale sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione, non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, con la conseguenza che, quindi, tale trattamento non può dirsi avvenuto previa prestazione di un valido consenso ed appare eseguito in violazione tanto dell’art. 32, secondo comma, della Costituzione (a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), quanto dell’art. 13 della Costituzione (che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica), e dall’art. 33 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (che esclude la possibilità d’accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità; ex art. 54 cod. pen.), donde la lesione della situazione giuridica del paziente inerente alla salute ed all’integrità fisica per il caso che esse, a causa dell’esecuzione del trattamento, si presentino peggiorate. Per converso, sul piano del danno-conseguenza, venendo in considerazione il mero peggioramento della salute e dell’integrità fisica del paziente, rimane del tutto indifferente che la sua verificazione sia dovuta ad un’esecuzione del trattamento corretta o scorretta”.
[25][25] Circa l’esigenza che il consenso del paziente non sia viziato da errore, che al contrario ricorre in mancanza di un’adeguata informazione su tutti i profili dell’intervento v. CRESPI, La responsabilità penale del trattamento medico chirurgico con esito infausto, Palermo, 1955 e RIZ, Il consenso dell’avente diritto, Padova, 1979.
Sul punto, si precisa che l'errore, per essere rilevante, ed inficiare la validità del consenso prestato, deve essere "essenziale", tale cioè da avere determinato ed orientato la volontà del soggetto, la quale sarebbe stata diversa se si fosse correttamente formata. I casi in cui l'errore è essenziale sono: a. l'errore che cada sulla identità del trattamento, nel caso in cui il consenziente ritenga di avere espresso il consenso ad un intervento chirurgico e non ad un intervento di medicina interna, o viceversa; b. l'errore che riguardi i rischi del trattamento per la salute, la capacità lavorativa o l'aspetto esteriore del paziente; c. l'errore che cada sull'identità del medico, allorquando il paziente ritenga che l'intervento sarà effettuato dal Primario mentre viene operato da un medico della equipe; d. l'errore che cada sulle qualità professionali del medico, se il paziente ritenga di essersi affidato alle cure di uno specialista mentre il sanitario in questione è un medico privo di specializzazione. Inoltre, l'errore - per incidere sul consenso - deve essere sempre riconoscibile, ossia deve essere percepito dal medico. Se non è riconoscibile, si afferma, il medico cadrà in errore incolpevole, ritenendosi autorizzato ad agire, ed in tal caso non potrà essere ritenuto responsabile di condotta illecita ai sensi dell'art. 47 c.p ., il quale da rilievo scusante all'errore incolpevole sul fatto.
[26][26] La giurisprudenza assolutamente prevalente nega, infatti, che assuma rilievo il  c.d. consenso presunto, ovvero quello non prestato ma che l’agente ritiene sarebbe stato prestato se l’avente diritto fosse stato nelle condizioni di poterlo fare, diversamente da quello c.d. putativo, erroneamente ritenuto sussistente, al quale tende ad attribuire rilievo scriminante nei limiti di cui all’art.59 cpv (v. in tal senso Cass, sez. VI, n.3125 del 1982). Esemplificativo al riguardo è il celebre caso Massimo, in merito al quale si sono pronunciate la Corte d'Assise, la Corte d'Assise d'Appello di Firenze e la Corte di Cassazione (21 Aprile 1992,  Massimo, in Cass. pen., 1993, I, con nota di MELILLO, 63 e ss.). Rinviando al paragrafo successivo la disamina della sentenza della Suprema Corte, qui preme sottolineare il grande rilievo della sentenza di primo grado, in quanto esamina il problema del difficile equilibrio tra il rispetto della libertà individuale e la tutela della salute, affermando che: "..nulla il medico può fare senza il consenso del paziente o addirittura contro il volere di lui, il che, anche, corrisponde ad un principio personalistico di rispetto della libertà individuale e ad una configurazione del rapporto medico-paziente che bene la difesa di PC ha individuato nella figura del paziente come portatore di propri diritti fondamentali, e dunque come uomo-persona, uomo-valore e non come uomo-cosa, uomo-mezzo, soggetto a strumentalizzazioni anche odiose per fini che sono stati spesso ammantati di false coperture di progresso scientifico o di utilità collettiva" (Corte d'Assise di 1° grado di Firenze, 18 Ottobre 1990, in Giurisprudenza di merito, 1991, II, con nota di GIAMMARIA, P., p. 1127). Tenuto conto del fatto che sono in gioco diritti di carattere personale, le uniche eccezioni al consenso espresso sono quelle in cui l'avente diritto sia incapace perché minore o interdetto, per cui in tali casi l'atto di volontà è manifestato dal rappresentante legale. Se, invece, l'interessato è materialmente impossibilitato a manifestare la propria volontà, la Corte non lo ammette nella forma presunta, bensì parla di stato di necessità, sempre che ne ricorrano i presupposti ex art. 54 c.p.
Contra v. però recentemente per es. Cass. pen., sez. IV, 28-11-2003 (05-11-2003), n. 45976, nella quale si afferma “Per quel che riguarda, infine, il consenso del paziente, (…)  il consenso deve essere reale, informato, pacifico o, se ne ricorrono le condizioni, presunto” ovvero nelle ipotesi di impossibilità materiale di manifestazione del consenso e di urgente necessità terapeutica. Nello stesso senso in dottrina, v. RIZ, Il consenso dell’avente diritto, Padova, 1979.
In una diversa prospettiva, BENINCASA, op.cit., 724-725, afferma che il consenso presunto non sarebbe comunque proponibile neppure in base all’art. 50 c.p. sulla base della considerazione che la ratio di tale norma si fonda sul principio dell’interesse mancante, qui insostenibile: il consenso del paziente, infatti, viene considerato imprescindibile nell’attività medica non essendo, quindi, possibile presumerne la sussistenza senza averne la certezza.
[27][27] V. sul punto nota 20.
[28][28] Cfr. Cass., Sez. V, 13 maggio 1992, Massimo, di cui si dirà ampiamente infra. In senso critico si segnala, per l’ampiezza di argomentazioni, Trib. Palermo, ordinanza del 31-01-2000,  G.i.p. Massa in Foro it.,  2000, II, 441.
[29][29] In tal senso cfr. Cass. 11 luglio 2001, Firenzani, di conferma della sentenza di condanna per lesioni colpose del chirurgo che aveva eseguito un intervento di meniscectomia sul ginocchio sbagliato.
[30][30] La distinzione tra esito fausto e infausto dell'intervento chirurgico, rispetto ai casi in cui il malato subisca una diminuzione della propria integrità fisica, si fonda sul concetto di malattia di cui all'art. 582 c.p. Tale figura delittuosa sussiste quando una persona subisce una lesione dalla quale deriva una "malattia nel corpo o nella mente". Sulla nozione di malattia sussistono due tesi contrapposte: la concezione giuridica e quella medica. Secondo la prima, oggi superata, la malattia è un'alterazione dell'integrità fisica, anche solo anatomica: con la conseguenza che l'esito dell'intervento non ha rilevanza, dal momento che esso integra già di per sé il reato di lesione personale, provocando un'alterazione anatomica dell'integrità fisica del paziente. La tesi in esame è stata tuttavia superata, poiché rende molto sottile, anzi quasi inesistente, la distinzione tra il delitto di lesione personale e quello di percosse, cosicché si farebbero rientrare nel primo anche le ecchimosi, le contusioni e le abrasioni, meglio riconducibili nell'ambito di operatività del secondo, altrimenti abrogato- almeno in parte-sostanzialmente. La valorizzazione dell'esito si ha, invece, attribuendo alla malattia un significato diverso, ossia quello di alterazione funzionale dell'integrità fisica, alla quale può accompagnarsene anche una anatomica, ma non necessariamente: è, questa, la definizione di malattia in senso medico, che consente di mantenere valida la distinzione tra le due fattispecie delittuose. Applicando tale definizione al trattamento medico-chirurgico si arriva, quindi, alla conclusione che, se l'esito è positivo, il comportamento tenuto dal medico non è inquadrabile come fatto tipico ai sensi dell'art. 582 c.p., in quanto la malattia, integrante il fatto, rappresenta l'esatto contrario del miglioramento di salute che il paziente guadagna dall'intervento. La malattia in senso medico è un processo evolutivo, per cui si differenzia nettamente dai postumi post-operatori, caratterizzati dalla stabilità: si pensi, per es., alla cicatrice lasciata da un intervento chirurgico.
[31][31] In questa direzione cfr. EUSEBI, Sul mancato consenso al trattamento terapeutico: profili giuridico penali, in Riv. it. medicina legale, 1995, 727 ss. (l’a. ritiene che l’intervento terapeutico eseguito lege artis, ma senza consenso, non possa dar luogo a un illecito contro l’incolumità individuale, incidendo piuttosto sulla libertà morale).
[32][32] Cfr. Tribunale di Palermo, ordinanza cit.. Negli stessi termini Cass. pen.,  sez. I,  11 luglio 2002, n.26446, ric. Volterrani, in Riv. Pen., 2002, 751-755, con nota di VOLTERANI (v. §§3 e 4).
[33][33] In questo senso e in una prospettiva più generale tale da ritenere insussistente una responsabilità penale del medico che abbia agito lege artis, anche ove l’intervento abbia avuto esito infausto, purchè non sussista un rifiuto espresso del paziente,  cfr. Cass. pen. 11 luglio 2002 cit.
[34][34] CRESPI, op. cit.. Un ambito di operatività della responsabilità a titolo di colpa di cui agli artt. 590 c.p. (lesioni colpose) e 589 c.p. (omicidio colposo) residua comunque, per giurisprudenza pacifica, nel caso di errore del medico sull’esistenza o i requisiti del consenso, determinato da colpa (c.d. consenso putativo ex art. 59 cpv c.p). Si afferma, infatti, che risponde "del reato di lesioni personali colpose il sanitario che, in assenza di un valido consenso dell'ammalato, abbia effettuato l’intervento terapeutico nella convinzione, per negligenza o imprudenza a lui imputabile, della esistenza del consenso" (Cfr. Cass. 10 novembre 1982 cit.).
[35][35] Cass., Sez. V, 13 maggio 1992, Massimo, in Riv. pen., 1993, 42, con nota di POSTORINO; Foro it., Rep. 1993, voce Omicidio, n. 17; Cass. pen., 1993, 63, con nota di MELILLO; Dir. famiglia, 1993, 441, con nota di SCALISI; Riv. it. medicina legale, 1993, 460, con nota di RODRIGUEZ. Nella specie, il chirurgo fiorentino prof. Massimo, nell’eseguire il programmato intervento di asportazione transanale di un adenoma rettale benigno, aveva, in mancanza di consenso (la paziente aveva consentito esclusivamente ad un intervento per via endoscopica) e in assenza di ragioni di urgenza, proceduto ad un intervento chirurgico demolitivo di amputazione totale addominoperineale del retto cagionando poi la morte della paziente a causa di complicazioni sopravvenute.

[36][36] Per una chiara esposizione della problematica relativa ai possibili profili di rilevanza penale del trattamento medico eseguito senza consenso informato del paziente, e per un quadro della dottrina e della giurisprudenza in argomento, cfr. IADECOLA, Potestà di curare e consenso del paziente, Padova, 1998, 237 ss. (l’a., pur considerando logicamente plausibile la tesi incline alla configurabilità dell’omicidio preterintenzionale, affermata in sede applicativa nel citato «caso Massimo», ammette tuttavia che essa possa apparire eccessivamente rigoristica, e perciò criticabile sul piano dell’equità, proprio tenuto conto delle caratteristiche specifiche del trattamento medico, di per sé finalizzato in ogni caso al salvataggio del paziente: IADECOLA, op. cit., 248 ss.).
In giurisprudenza, ancor prima dell’arresto della Cassazione del 2001, di cui si dirà ampiamente infra, evidenzia l’inadeguatezza di tale ricostruzione, in quanto non conforme ai principi di legalità e tassatività della fattispecie Trib. Palermo, ordinanza del 31-01-2000 cit. Il GIP siciliano afferma, in particolare, che “De iure condito, e fino a quando non verrà introdotta nel nostro sistema penale una norma che sanzioni specificamente l’intervento medico senza previo consenso del paziente, in ossequio ai principî di stretta legalità e tassatività della fattispecie penale, non può considerarsi integrata la fattispecie di cui all’art. 584 c.p. (o di cui all’art. 582 c.p.), ogniqualvolta il medico abbia eseguito l’intervento chirurgico (ovviamente fuori dei casi in cui sia operante lo stato di necessità) in assenza del consenso del paziente e ne sia derivato un esito infausto, pur essendo stato l’intervento condotto e portato a termine secondo le regole dell’arte” . E ciò in ragione del fatto che il consenso informato del paziente ha lo scopo di rendere autonoma il più possibile la sua scelta, ragion per cui esso è richiesto per legittimare l’intervento sotto tale profilo e non già per coprire un’eventuale esito infausto di esso (nella specie, è stata disposta l’archiviazione del procedimento penale instaurato nei confronti di un chirurgo il quale, avendo ottenuto da una paziente affetta da carcinoma alla colecisti il consenso all’inserimento di un impianto di pompa chemioterapica endoarteriosa, mutava nel corso dell’intervento il programma operatorio iniziale, asportando una grossa massa neoplastica estesa a diversi organi vitali, con conseguente decesso della paziente per complicanze postoperatorie)”.
[37][37] Nel senso della insufficienza del dolo eventuale relativo al reato-base ai fini della configurabilità dell’omicidio preterintenzionale, cfr. Cass. 20 gennaio 1986, Barletta, Foro it., Rep. 1987, voce cit., n. 19; Cass. 20 ottobre 1988, Lupidii, id., Rep. 1989, voce Omicidio, n. 31, ove si afferma che “Ai fini della configurabilità del delitto di omicidio preterintenzionale, non è sufficiente che la morte della vittima sia legata ad un rapporto di mera causalità materiale alla condotta dell’autore (del fatto), ma è necessario dimostrare che tale evento sia riferibile ad un comportamento volontario, diretto ad aggredire l’altrui persona; non è, quindi, giuridicamente apprezzabile, agli effetti dell’art. 584 c.p., un fatto di percosse o di lesioni di un soggetto, se non sia sorretto dalla volontaria intenzione di recare offesa all’altrui incolumità fisica (fattispecie di donna accusata di avere cagionato la morte [seguita a emorragia sub-durale] del figlioletto infante [sofferente di idrocefalia] causata da violento scuotimento, in ordine al quale però era mancata l’indagine sul dolo dovuto a comportamento intenzionale, diretto a ledere, ovvero a imperizia, imprudenza, indiligenza nella esecuzione delle giornaliere cure delle quali l’infante aveva bisogno).
[38][38] Giova ricordare, sul punto, che si ha dolo intenzionale quando un soggetto agisce  proponendosi come scopo primario la realizzazione dell’evento tipico, mentre se quest’ultimo è rappresentato e accettato come evento collaterale rispetto ad altro scopo lecito ricorre la figura del dolo indiretto (eventuale). Che il dolo intenzionale possa ricorrere nel caso del medico che pone in essere un intervento sanitario arbitrario è ipotesi quanto mai remota, salvo quello che si dirà infra, perché di norma il medico non agisce con l’intenzione di ledere ma con l’antitetico intento di curare: al più, quindi, potrà agire con dolo eventuale, prevedendo la lesione e accettandone il rischio. Per un maggior approfondimento del tema, v. GAROFOLI, op. cit., 423 ss.
[39][39] La tesi della mancanza del fatto tipico del delitto di lesioni nelle ipotesi di esercizio dell'attività medico-chirurgica risale al Grispigni, La responsabilità penale del trattamento medico­chirurgico, in Riv. it. dir. pen., 1914,  454; tale teoria è stata rivisitata e perfezionata da Crespi, in La responsabilità penale nel trattamento medico chirurgico con esito infausto, 1955, Milano, 13 ss.; un'ul­teriore elaborazione, attraverso le categorie concettuali tipiche della teoria dell'imputazione oggettiva dell'evento, si deve a Manna, in Profili penali, cit., p. 33 ss.; contrario all'equiparazione del trattamento terapeutico alle lesioni personali, seppure in base a diverse argomentazioni, Eusebi, II diritto penale di fronte alla malattia, in La tutela pe­nale della persona, a cura di Laura Fioravanti, 2001, 129 ss.
[40][40] Analogamente, in dottrina, MANTOVANI, Violenza privata, in Enc. dir., 1993, vol. XLVI, Milano, 930-952, che testualmente afferma: è « innegabile come nell'eseguire un intervento diverso da quello consentito, il chirurgo esplichi un'energia fisica sul corpo del paziente, tenendo per tale via una condotta violenta; che tale violenza esplica una vis absoluta, perché il paziente, nelle condizioni nelle quali si trova, non può opporre resistenza al­cuna; ne consegue che si potrà dire che il chirurgo abbia, con violenza, costretto il paziente a tollerare un quid da lui non voluto ». In giurisprudenza, v.  Trib. Torino, Sezione per le indagini preliminari, 10 ottobre 1998, G.U.P. Christillin, imp. Volterrani, il quale a fronte di una richiesta di condanna per omicidio preterintenzionale formulata dal rappresentante dell'ufficio della pubblica accusa, ritiene l'imputato colpevole dei reati di cui agli artt. 610 e 586 c.p. In particolare, il giudice torinese fonda  la decisione di condanna sulla circostanza che “la condotta del chirurgo che pone in essere un intervento mutilante altamente invasivo in assenza di consenso informato contiene tutti gli elementi costitutivi del delitto di violenza privata di cui all'art. 610 c.p. Infatti, in ossequio al principio generale di cui all'art. 32 comma 1 Cosi., il paziente deve essere libero di autodeterminarsi terapeuticamente e di scegliere consapevolmente, se farsi curare o meno, dove, da chi, in che modo e quando. La scelta arbitraria del medico di eseguire un trattamento sanitario che alteri significativamente le condizioni organiche originarie del paziente approfittando della sua impossibilità di esprimere un'opinione in merito equivale a costringere il paziente a tollerare qualcosa di non voluto. Nel caso in cui dall'esecuzione del trattamento sanitario arbitrario derivino effetti lesivi o mortali, la natura dolosa del reato di cui all'art. 610 c.p. consentirà di imputare all'agente altresì, a norma dell'ari. 586 c.p., l'evento lesione o morte quale conseguenza dell'offesa portata alla libertà morale, e ciò senza che sia necessario il requisito di una condotta viziata da imperizia tecnica, posto che il rinvio alla disciplina di cui agli artt. 589, 590 c.p., contenuto nello stesso ari. 586 c.p., opera esclusivamente quoad poenam e non esige in alcun modo la sussistenza dei requisiti della colpa”. La sentenza è stata tuttavia riformata dalla Corte di Appello di Torino, che ha condannato l’imputato per il più grave delitto di omicidio preterintenzionale, ravvisando  nella condotta del medico (asportazione arbitraria di parte consistente dell’apparato gastroenterico) gli elementi costitutivi degli atti diretti a ledere e il dolo intenzionale di lesioni personali. Quest’ultima decisione è stata, però, annullata con rinvio dalla Suprema Corte, per incompetenza ratione materiae del giudice del gravame. Rinviata la causa alla Corte d’Assise di appello di Torino, quest’ultima ha poi ribaltato il verdetto (3 ottobre 2001), assovendo il medico “perché il fatto non sussiste” ed evocando, a sostegno, la ricorrenza dei profili di urgenza terapeutica tali da integrare gli estremi dello stato di necessità,. Tale decisione ha dato la stura ad un significativo arresto della Cassazione, con sentenza del 29 maggio 2002, n.2446, di cui si dirà ampiamente nel § 3.
[41][41] V. GAROFOLI, op. cit., 382.
[42][42] Significativa è, al riguardo, la sentenza del G.i.p. Trib. Palermo 31 gennaio 2000, cit.
[43][43] Cass. pen., sez. IV, 12-07-2001 (09-03-2001), n. 28132 , Sent. Barese, in Cass. pen., 2002, 527 ss, con nota di IADECOLA.
[44][44] Soggiunge, al riguardo che, “se è vero che l'intenzionalità del dolo è elemento estraneo alla descrizione del delitto preterintenzionale data dall'art. 43 cod. pen. ma è stato più volte sottolineato come la struttura del delitto previsto dall'art. 584 cod. pen. (così come quella dell'unica altra ipotesi di delitto preterintenzionale prevista dal nostro ordinamento: l'aborto previsto dall'art. 18, comma 2° l. 194/1978) non coincida con lo schema normativo previsto dall'art. 43. D'altro canto, se così interpretata (nel senso che per l'omicidio preterintenzionale il dolo debba essere diretto o intenzionale), non sembra irragionevole la scelta del legislatore di addebitare le conseguenze non volute solo quando l'agente abbia almeno direttamente voluto l'evento attribuito a titolo di dolo. Nel caso invece di dolo indiretto o eventuale verrà meno, come è stato sottolineato in dottrina, il reato preterintenzionale ma non quello doloso di lesioni o percosse (sulla necessità che, nell'omicidio preterintenzionale, il dolo sia intenzionale si vedano, nella giurisprudenza di legittimità, le non recenti Cass., sez. V, 20 ottobre 1988, Lupiddi; sez. I, 20 gennaio 1986, Barletta)”.
Ed inoltre “la soluzione indicata, tesa alla valorizzazione dell'elemento soggettivo richiesto nella forma del dolo intenzionale, viene incontro anche all'esigenza, sottolineata da alcuni commentatori, che non venga obliterata, nella ricostruzione in esame, la necessità che venga osservato il principio di offensività, anche nell'individuazione dell'elemento soggettivo del reato, proprio richiedendosi la necessità che l'agente debba raffigurarsi anticipatamente le conseguenze dannose della sua condotta”.
[45][45] Cass. n. 2831 del 2001 cit., la quale, in un successivo passaggio, ribadisce che è da escludere “l'intenzionalità della condotta nei casi, non infrequenti, nei quali il medico, nel corso dell'intervento chirurgico, rilevi la presenza di una situazione che, pur non essendo connotata da aspetti di urgenza terapeutica, potendo essere affrontata in tempi diversi, venga invece affrontata immediatamente senza il consenso del paziente; per es. per evitargli un altro intervento e altri successivi disagi o anche soltanto per prevenire pericoli futuri”.
[46][46]Ben può farsi astratto riferimento, a titolo di esempio, ai casi in cui la menomazione del corpo o della mente venga provocata, intenzionalmente, per scopi scientifici, di ricerca o per scopi esclusivamente estetici (in questi casi non viene surrettiziamente reintrodotto un dolo specifico: lo scopo è estraneo al reato ma vale a qualificare l'elemento soggettivo come intenzionale), ai casi di interventi demolitivi coscientemente inutili, ai casi in cui il medico proceda ad un'amputazione per curare una patologia che sa poter essere affrontata agevolmente con diversi mezzi terapeutici o a quelli in cui produca un'inutile e consapevole mutilazione all'integrità fisica del paziente” (cfr. Cass. n.2831 cit.).
[47][47]L'imputato, sempre secondo l'accertamento incensurabile dei giudici di merito, è quindi intervenuto per eliminare questa patologia ritenendo, erroneamente, che l'intervento demolitivo fosse idoneo a questo scopo ed eseguendolo, peraltro, in modo scorretto”.
[48][48]La sentenza impugnata ha accertato che l'imputato aveva erroneamente ritenuto di poter eliminare non solo la patologia che si era presentata nel corso dell'intervento ma altresì quella preesistente che l'intervento aveva giustificato; ne consegue che egli deve essere ritenuto in colpa e non può essere ritenuto responsabile  del delitto (omicidio preterintenzionale) ipotizzato con l’atto del ricorso del Procuratore generale”.
[49][49] Cass. 11 luglio 2002, n.26446 cit.
[50][50] Si afferma, infatti, che “Il chirurgo preparato, coscienzioso, attento e rispettoso dei diritti altrui non opera per passare il tempo o sperimentare le sue capacità: lo fa perché non ha scelta, perché quello è l'unico giusto modo per salvare la vita del paziente o almeno migliorarne la qualità”( Cass. 26446/2002 cit.).
[51][51] Ad avviso della Corte, infatti, le disposizioni normative di riferimento (quali l’art. 5 c.c.,  l’art. 579 c.p., che prevede la figura di "omicidio del consenziente", severamente punito) evidenziano come per il legislatore “l'uomo non è illimitatamente "dominus membrorum suorum", perché la sua validità ed efficienza fisica e psichica sono considerate dal diritto di importanza fondamentale per l'esplicazione delle funzioni sociali e familiari assegnategli e per il contenimento dei costi gravanti sulla collettività costretta a sopperire alle deficienze di questo o quello dei suoi membri”. Ne consegue, “che deve considerarsi proibita qualsivoglia alterazione del corpo incidente in modo apprezzabile, temporaneamente o definitivamente, sul valore dell'individuo, impedendogli di adempiere i suoi doveri e di esercitare i suoi diritti”.
Una breccia in questo sistema, evidenzia la Corte, si sarebbe potuta aprire per effetto della ratifica, con legge 28 marzo 2001 n.145, della Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, fatta a Ovieto il 4-4-1997.  Infatti, secondo gli artt. 3 e 8 dell'accordo internazionale, salva l'ipotesi dell'impossibilità di ottenere il consenso dell'interessato (che allora potrà essere comunque sottoposto a "ogni trattamento necessario" alla sua salute), l'adesione della volontà libera e informata del paziente è sempre necessaria. La legge di ratifica, tuttavia, delegava (art. 3 .) il governo "ad adottare ... uno o più decreti legislativi recanti ulteriori disposizioni occorrenti per l'adattamento dell'ordinamento giuridico italiano ai principi ... " dalla stessa accolti. Ecco perché, afferma il collegio, “non essendo intervenuta nessuna modifica legislativa nel termine (sei mesi) fissato dalla delega e dovendosi, altresì, escludere, per i riflessi penalistici della nuova disciplina del consenso dell'avente diritto, l'immediata e diretta recessione delle regole pattizie nell'ordinamento del nostro Paese, l'attuale quadro normativo deve ritenersi sostanzialmente immutato”.
[52][52] Sul punto, la Corte ne evidenzia la natura strumentale all’attuazione dell’art.32 Cost., precisando che essa “corrisponde all'alto interesse sociale (…), interesse che lo Stato tutela in quanto attuazione concreta del diritto alla salute riconosciuto a ogni individuo, per il bene di tutti, dall'art. 32 della Costituzione della Repubblica e lo fa, autorizzando, disciplinando e favorendo la creazione, lo sviluppo e il perfezionamento degli organismi, delle strutture e del personale occorrente. Per ciò stesso, questa azione, ove correttamente svolta, è esente da connotazioni di antigiuridicità anche quando abbia un esito infausto”.

[53][53] V. per es. art. 34 L. 833/78.
[54][54] V. amplius §3.  A favore della configurabilità del reato di lesioni personali, oltre a Cass. 5639/1992 Massimo cit. e implicitamente Cass. 12.07.2001 n.28132 Barese, cfr. Cass. 27-3-2001, n. 731 cit., secondo cui il medico non può "manomettere" l'integrità fisica del paziente, quale si presenta attualmente, quando questi abbia espresso il suo dissenso, perché ciò sarebbe, oltre tutto, in contrasto anche con il principio personalistico espressamente accolto dall'art. 2 della Carta costituzionale, ma chiaramente emergente da una serie di altre disposizioni della legge fondamentale. E nella stessa direzione, Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 2001, n. 1572, la quale, nel rimarcare l’assoluto rilievo che assume il consenso, quale presupposto ineludibile della liceità del trattamento medico, afferma che “Uniche eccezioni a tale criterio generale sono configurabili solo nel caso di trattamenti obbligatori "ex lege", ovvero nel caso in cui il paziente non sia in condizione di prestare il proprio consenso o si rifiuti di prestarlo e d'altra parte, l'intervento medico risulti urgente ed indifferibile al fine di salvarlo dalla morte o da un grave pregiudizio alla salute. Per il resto, la mancanza del consenso (opportunamente "informato") del malato o la sua invalidità per altre ragioni determina l'arbitrarietà del trattamento medico chirurgico e, la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo. Le ipotesi delittuose configurabili possono essere di carattere doloso: art. 610 - 613 - 605 c.p. nell'evenienza del trattamento terapeutico non chirurgico; ovvero, art. 582 c.p. nell'evenienza di trattamento chirurgico: di fatto, il delitto di lesioni personali ricorre nel suo profilo oggettivo, poiché qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito "fausto", implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialità estrinsecano l'elemento oggettivo di detto reato, ledendo l'integrità corporea del soggetto”.
Contra, in ragione dell’estraneità della condotta medica ad integrare lo schema tipico dell’art.582 c.p., sembra orientarsi la tesi prevalente. V. in tal senso TRIBUNALE DI PALERMO, ordinanza, 31-01-2000 cit., e di recente Cass. 26446/2002 cit., ove si afferma che ““In nessun caso, però, quelli del delitto (art. 584, c.p.) contestato al V., a meno che il chirurgo per gratuita malvagità o per odio verso il malcapitato capitatogli tra le mani non approfitti dell'occasione per sfogare i suoi istinti sadici, percuotendo o ferendo il corpo del paziente e cagionandone, sia pur involontariamente, la morte.  Ma fuori di quest'ipotesi chiaramente romanzesca e anche di quella più frequente, ma ugualmente anomala, sulla configurabilità a carico dell'operatore di una responsabilità a titolo di colpa, anch'essa rilevante sul piano penale, ma sotto un diverso profilo, deve decisamente escludersi che il medico possa essere chiamato a rispondere dei presunti danni cagionati alla vita o all'integrità fisica e psichica del soggetto sul quale ha operato a regola d'arte”.
Ulteriormente precisando che, quando il chirurgo esegue, ad esempio, un'appendicectomia, taglia un pezzo dell'intestino cieco marcito, impedendo che l'infezione si propaghi pericolosamente, cagiona si una lesione ma si tratta, “di un'attività strumentale, priva di una propria autonomia funzionale, un passaggio obbligato verso il raggiungimento dell'obiettivo principale dell'intervento, quello di liberare il paziente dal male che lo affligge”.
[55][55] Cfr. GAROFOLI, op. cit., 384; e Baratta, Antinomie giuridiche e conflitti di doveri, Milano, 1963,  64 ss.
[56][56] Quali la sua concezione della vita e della morte; i "punti di vista" sotto il profilo etico, filosofico, religioso: si pensi, ad es., al caso del testimone di Geova sottoposto ad una trasfusione coattiva, il quale, ripresa conoscenza, venga a scoprire che, suo malgrado, nel suo corpo scorre il sangue di un altro soggetto, con quel che ne conseguirà sul piano delle sue chances ultraterrene, a mente dei dogmi religiosi di cui è osservante. “Poco importerà, a questo soggetto, che si dimostri in vario modo che suo interesse prevalente, al momento dell'urgenza terapeutica, era a sua insaputa divenuto quello a ricevere tale trattamento, giacché è soprattutto sulla sua vita futura e cosciente (e addirittura sulla sua proiezione ultraterrena) che l'intervento emotrasfusionale verrà ad esercitare, ai suoi occhi, un'influenza nefasta”. Cfr. sul punto un interessante saggio di VALLINI, “Il valore del rifiuto di cure "non confermabile" dal paziente, alla luce della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina”, in Riv. dir. pubbl., 2003, I, 185-217.
[57][57] Individuano misure coercitive “atipiche” a supporto dell’adempimento di tale obbligo di intervento: cfr. ad es. Pret. Pescara, decr. 8/11/74, in Nu.dir., 1975, 253, nota Pianigiani, per un'applicazione in tal senso dell'art.700 c.p.c.,; Pret. Modica, ord. 13/8/90, in Foro it., 1991, I, 271 ss. Sul punto v. anche Ramacci - RizBarni, Libertà individuale e tutela della salute, in Riv.it.med.leg., 1983, 863.
[58][58] In ordine alle fonti della posizione di garanzia nei reati omissivi impropri e alle tre tesi sul punto (formale, fattuale-funzionale e mista) si rinvia a GAROFOLI, op. cit., 233 ss. Qui giova solo ricordare che appare incompatibile con il nostro ordinamento giuridico, ispirato ad un principio di legalità formale, desumere da mere situazioni di fatto, in assenza di un’espressa previsione giuridica, obblighi di attivarsi per impedire l’evento lesivo rilevanti penalmente ex art. 40 cpv.
[59][59] V. ad es. IadecolaFiori, Stato di necessità medica, consenso del paziente e dei familiari, cosiddetto «diritto di morire», criteri per l'accertamento del nesso di causalità, in Riv.it.med.leg., 1996, 310 ss.
[60][60] Cfr. D’Addino Serravalle, Atti di disposizione del corpo e tutela della persona umana, Napoli, 1983, 145 ss. V. per un’ampia ricostruzione della tematica VALLINI, op. cit. e da ultimo, Palermo Fabris, Diritto alla salute e trattamenti sanitari nel sistema penale, Padova, 2000, 11 ss., 173 ss.; Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001,  31-89, 109 ss.
[61][61] Cfr. sul tema Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, 240 ss.; F.C.Palazzo, Persona (delitti contro), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 311; Pulitanò, Coazione a fin di bene e cause di giustificazione, in Foro it., 1985, II, 445; VILLANI, op. cit.; Albeggiani, Profili problematici del consenso dell’avente diritto, Milano, 1995, 90 ss.; Giuliani-Balestrino, Sul contenuto del dovere di soccorso, in Riv.it.dir.proc.pen., 1981, 901 s. Cfr. anche Padovani, Diritto penale, Milano, 2002, p. 159 (che ritiene insussistente, in simili ipotesi, il requisito della "costrizione"); F.Viganò, Stato di necessità e conflitti di doveri – contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Milano, 2000, 362 ss..
[62][62] VALLINI, op. cit., il quale ulteriormente precisa che “certo, la "salute" è considerata, dal primo comma di quella disposizione, anche un interesse "della collettività", oltre che "dell'individuo": ma è poi proprio il secondo comma a sancire espressamente criteri e limiti entro i quali (eccezionalmente) la tutela di quel bene possa essere sottratta, per fini sociali, alla disponibilità del singolo, alludendo ai trattamenti sanitari obbligatori previsti dalla legge. Non appare convincente il tentativo di convertire apoditticamente l'eccezione nella regola, ampliandone i presupposti applicativi oltre quelli espressamente sanciti”. E conclude, quindi, nel senso che “la collocazione gerarchica dei valori in gioco è talmente univoca da contenere in nuce, senza la necessità di ulteriori specificazioni, la stessa "regola" valida per il caso di specie: il medico non può mai imporre alcuna terapia, alcun accertamento diagnostico, alcuna attività medico-sanitaria in genere, laddove a ciò osti il dissenso del paziente, anche quando tale dissenso significhi, nei fatti, l'accettazione della morte”.
[63][63] In dottrina, tra i tanti, v. Antonelli, Emotrasfusione obbligatoria e libertà religiosa, in Dir. fam. pers., 1985, 1004 ss; Barile, Diritti dell'uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1994; Benincasa, Liceità e fondamento dell’attività medico-chirurgica a scopo terapeutico, in Riv. it. dir. pr. pen., 1980, 733 ss; Giunta, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, in Riv. it. dir. pr. pen., 1997, 89 ss;  Mantovani, I trapianti cit: ID. Aspetti penalistici, in Trattamenti sanitari tra libertà e doverosità, Napoli, 1983; Parodi Giusino, Trattamenti sanitari obbligatori, libertà di coscienza e rispetto della persona umana, in Foro it., 1983, I, 2657 ss.; D’Alessio, Limiti costituzionali dei trattamenti "sanitari", in Dir. e soc., 1981, 540 ss.; Gemma, Sterilizzazione e diritti di libertà, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, 251 ss.
In giurisprudenza, v. ad es. Ass. Firenze, 18/10/1990, Massimo, in Foro it., 1991, II, col. 242; TAR Lazio, 8/7/85, in Dir. fam. pers., 1985, pp. 999 ss.; Pret.Treviso, decreto 29/4/1999, in Foro it., 1999, II, pp. 668 ss.
[64][64] Cfr., di recente, Iadecola, Sugli effetti penali della violazione colposa della regola del consenso nell'attività chirurgica, in Cass.pen., 2002, 2049.
[65][65] Ad es. G.Grasso, Il reato omissivo improprio,Milano, 1983, 375ss.
[66][66] Cfr. in tal senso Cass., nn. 585 e 731, rispettivamente del 9 marzo 2001, ric. Barese cit. e 27 marzo 2001, ric. Ciccarelli, in cui si afferma che esclusivamente in presenza di esplicito e consapevole rifiuto, a seguito di informa­zione adeguata, all'esecuzione dell'intervento medico-chirurgico, il contegno del medico che rea­lizzi il trattamento sanitario, noncurante di siffatta condizione ostativa, integra gli estremi di una  fattispecie di violenza privata, risultando la sua condotta riconducibile allo schema della coarta­zione a tollerare qualcosa di cui all'art. 610 c.p. Nello stesso, come riportato nel § 3, Cass. 11 luglio 2002, n.26446 cit.
[67][67] Sul caso dei testimoni di Geova, cfr. Pret. Roma, 3 aprile 1997 (dep. 9/4/97), De Vivo e alt., in Cass. pen., 1998, 950, con nota critica di Iadecola, La responsabilità penale del medico tra posizione di garanzia e rispetto della volontà del paziente. (In tema di omessa trasfusione di sangue “salvavita” rifiutata dal malato); nonché in Riv.it.dir.proc.pen., 1998, 1422, con nota adesiva di Vallini, Il significato giuridico-penale del previo dissenso verso le cure del paziente in stato di incoscienza; in Giust.pen., 1998, II, 659, con nota critica di Zangani- Avecone, Mancata trasfusione di sangue, da negato consenso, in paziente testimone di Geova, seguita in nesso causale dal decesso. Aspetti medico-legali e giuridici. In ordine al caso dei detenuti in sciopero della fame, App. Milano, 21 maggio 1992, Miedico, inedita.
[68][68] Seppur in obiter dicta, Cass. 2001 n.28132 Barese; ma anche la quasi contestuale Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 2001, n. 1572 cit. In dottrina v.sul tema VIGANO’ Stato di necessità e confini di doveri, contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scriminanti, Milano, 2000, 15.
[69][69] Per un approfondimento della tematica si rinvia al VALLINI, op. cit.
[70][70] VALLINI, Il significato giuridico-penale del previo dissenso verso le cure del paziente in stato di incoscienza,1431 s.
[71][71] Così F. Mantovani, I trapianti cit., 230 ss.; Id., Aspetti pen. cit., 161 ss.; Id., Diritto penale, p.s., Delitti contro la persona, Padova, 1995, 104 ss.; in termini analoghi, Barni - Dell’Osso - Martini, op. cit., 42;  G.Grasso, op. cit., 315; Portigliatti Barbos, Diritto di rifiutare le cure, in Dig. disc. pen., IV, Torino, 1990, p. 32. In giurisprudenza Pret. Modica, ord. cit.,  290.
[72][72] In senso critico, VALLINI, op. cit.,evidenzia che il criterio da taluni profilato dell'in dubio pro vita non si attaglia al caso di specie, o per lo meno non è in grado di definire una "regola" orientata nei termini della prevalenza sempre e comunque del bene salute. Diversamente opinando, ossia generalizzando la logica dell'"in dubio pro vita", l'atto terapeutico, in quanto tale, troverebbe la propria giustificazione soltanto nell'istanza solidaristica ogni qual volta il malato sia incapace, con la conclusione, all'evidenza inaccettabile, che tutti gli interventi chirurgici implicanti un'anestesia totale, ad es., ben potrebbero, in pratica, prescindere da qualsiasi consenso, ché tanto quest'ultimo risulterebbe automaticamente invalido con la perdita di conoscenza del paziente. Negandosi qualsiasi valore al principio dell'autodeterminazione, poi, verrebbero ad essere vanificate eventuali opzioni del malato per un tipo di intervento piuttosto che per un altro: ogni sua scelta sarebbe di "dubbia" validità per il fatto stesso della sua inattualità, e l'atto medico dovrebbe allora ispirarsi esclusivamente ad un best interest del tutto eterodeterminato.
[73][73] L'art.9 recita: «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di manifestare la propria volontà, saranno presi in considerazione». L’ambiguità di tale formula è poi acuita dalla sua trasposizione nell'art. 34 del Codice di Deontologia Medica del 1998 («il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso»)
[74][74] Cfr. VALLINI, op. cit., il quale, altresì, precisa che, anche ove l’art.9 cit. (come tutte le norme della Convenzione) sia una norma non self-executing, e dunque priva di efficacia applicativa diretta e immediata nel nostro ordinamento, in assenza di una sua attuazione in sede legislativa, nulla toglie che sia comunque una regola utile a rivestire un diretto supporto ermeneutico, in assenza di altre puntuali coordinate del diritto positivo.
[75][75] Cfr. VALLINI, op. cit.  
[76][76] Parametri utili allo svolgimento della verifica del “significato” da attribuire al precedente dissenso del paziente vengono individuati: nei tempi e nei modi del rifiuto; nella corrispondenza "contenutistica" tra il tipo di trattamento sanitario di cui si prospetta la necessità, ed il tipo di trattamento sanitario oggetto del rifiuto; in caso di incertezza su questo punto, sarà l’attenta valutazione delle eventuali "motivazioni" del dissenso ad offrire un criterio risolutivo (ad es., un rifiuto di cure derivante dalla convinzione religiosa dell'esistenza di un divieto divino di "assunzione", in varia guisa, del sangue altrui, sarà evidentemente da ritenersi riferito a tutti i trattamenti implicanti una qualche forma di "contaminazione" ematica, con riferimento esclusivo, tuttavia, alle sole pratiche terapeutiche implicanti l'utilizzazione di sangue umano o animale, non già di prodotti sintetici). Dovrà, inoltre,  essere chiaro, dalle modalità di manifestazione del dissenso, che il paziente è disposto ad accettare l'eventualità di pericoli significativi per la salute, o addirittura per la vita: se il rifiuto di cure risulti a tal proposito del tutto ambiguo, ben si potrà dubitare di una sua pertinenza a situazioni concrete connotate in modo specifico da rischi di questo genere, e sarà  utile, pertanto, soppesare le "ragioni" specifiche del suo dissenso, per dedurre da esse i limiti "contenutistici" del rifiuto di cure.
[77][77]Cfr. VALLINI, op. cit.  
[78][78] In questo senso cfr. Falzea, Diritto alla vita, diritto alla morte, in I diritti dell’uomo nell’ambito della medicina legale, Milano, 1981, 127; Ass. Firenze, 18/10/1990, cit., 242. La distinzione tra right to refuse medical treatment (costituzionalmente tutelato) e right to die (privo di riconoscimento costituzionale) è stata di recente sottolineata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America (sent. 26/6/1997, Washington et al. c. Glucksberg et al.; sent. 26/6/97, Vacco et al. c. Quill et al., entrambe in Foro it., 1998, IV,  76 ss.).
[79][79] Cfr., tra i tanti, Eusebi, Omissione dell'intervento terapeutico ed eutanasia, in Arch.pen., 1985, 523 ss.; Magro, Eutanasia cit.,  133 ss.; Mantovani, Eutanasia, cit.,  427.
[80][80] Cfr., in materia di sciopero della fame del detenuto, Fiandaca, Sullo sciopero della fame nelle carceri, in Foro it., 1983, II, 241.
[81][81] Tale condotta, si ricorda, può assumere rilievo anche sotto altri profili: ad esempio deontologico; e soprattutto può integrare una responsabilità di carattere civilistico (contrattuale “da contatto sociale”, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza). Per una recente ricognizione giurisprudenziale su quest’ultimo profilo si rinvia a CARINGELLA-GAROFOLI-GIOVAGNOLI, Giurisprudenza civile 2005, Milano, 2005, 248 ss.

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