INTERVENTO MEDICO E CONSENSO O DISSENSO DEL PAZIENTE
Sommario: Premessa – 1. Inquadramento generale: il fondamento della liceità dell’attività medico-chirurgica e l’ammissibilità delle scriminanti non codificate.– 2.Trattamenti terapeutici non necessari né obbligatori: i requisiti del consenso, quale presupposto imprescindibile di liceità dell’intervento medico-chirurgico – 3. Il trattamento medico arbitrario: evoluzione giurisprudenziale dalla sentenza 13 maggio 1992 (Massimo) ai più recenti arresti della Suprema Corte– 4. Rifiuto espresso e trattamento sanitario necessario: rilevanza penale dell’intervento medico contra voluntatem e dell’omesso intervento –Conclusioni.
Premessa
Nell’attuale quadro normativo, l’assenza di un’apposita disposizione che disciplini espressamente la fattispecie del trattamento medico-chirurgico e dei limiti entro i quali ne è autorizzato l’esercizio, ha posto in dottrina e giurisprudenza tre interrogativi fondamentali:
1. quale sia il fondamento della liceità penale del trattamento medico-chirurgico;
2. e in tale ambito, quale sia l'esatta rilevanza giuridica del consenso del paziente;
3. infine, quali fattispecie delittuose contro la persona siano configurabili nel caso di trattamento medico arbitrario, sia sotto il profilo di un'ipotetica offesa all'incolumità individuale che sotto quello di una potenziale lesione della libertà morale.
In ordine alla prima questione, si registrano tre tesi fondamentali:
a) la teoria dell’azione socialmente adeguata;
b) quella che ammette la configurabilità di scriminanti non codificate, attraverso un applicazione analogica in bonam partem di quelle codificate;
c) ed, infine, quella (prevalente) che riconduce il fondamento di liceità dell’attività medico-chirurgica alle scriminanti già previste dall’ordinamento, invocando di volta in volta l’art. 50, l’art.51 o l’art.54 c.p., a seconda della tipologia di intervento che viene in rilievo (di chirurgia estetica; terapeutico; sperimentale; sperimentale-terapeutico) e delle circostanze fattuali (es. necessità e urgenza terapeutica) nelle quali viene effettuato.
Strettamente connessa alla prima, è, poi, la seconda questione inerente la rilevanza e i requisiti del consenso del paziente, con particolare riferimento ai trattamenti sanitari non urgenti né necessari, nei quali la copertura consensualistica del trattamento assurge a presupposto imprescindibile di liceità degli stessi. Con la conseguenza che ove detto consenso difetti o sia invalido l’intervento del medico sarà arbitrario e come tale suscettibile di assumere rilevanza penale.
Intorno a quest’ultima e più delicata tematica -relativa alle conseguenze penali del trattamento sanitario c.d. arbitrario- ruota un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che è tuttora lungi dal comporsi in modo univoco.
Indubbiamente, la materia si presenta particolarmente spinosa, considerata la straordinaria pregnanza degli interessi in gioco: da un lato, le istanze di tutela della dignità morale e della libertà di autodeterminazione del paziente ex artt. 13 e 32 Cost.; dall’altro, l'esercizio dell'attività medica che, per quanto intrinsecamente rischiosa, è ex art. 2 e 32 Cost. attività autorizzata, regolamentata ed incentivata dall'ordinamento, per le irrinunciabili finalità di interesse sociale (salvaguardia dell’integrità fisio-psichica degli individui) cui è preordinata.
A seconda che si attribuisca maggiore rilevanza all’uno o all’altro interesse contrapposto, si perverrà a conclusioni diverse in ordine alle conseguenze penali del trattamento medico arbitrario.
Occorre, sul punto, ulteriormente distinguere l’ipotesi di intervento medico-chirurgico effettuato “in assenza di consenso” (o in presenza di un consenso invalido) da quella in cui l’intervento sia praticato “nonostante il dissenso espresso” del paziente.
La distinzione assume rilievo decisivo nel caso in cui l’intervento sia c.d. necessario (giustificato, cioè, dal presupposto fattuale della necessità e urgenza di cui all’art.54 c.p.). Se da un lato, infatti, si riconosce, ormai pacificamente, la liceità dell’intervento arbitrario necessario effettuato in assenza di consenso, altrettanto non è a dirsi per l’intervento effettuato nonostante il rifiuto espresso del paziente.
Riassunti, quindi, i termini del problema, occorre prendere le mosse dalla questione preliminare, tuttora ampiamente discussa, del fondamento di liceità penale dell’attività medico chirurgica.
1. Inquadramento generale: il fondamento della liceità dell’attività medico-chirurgica e l’ammissibilità delle scriminanti non codificate.
L’attività medico-chirurgica presenta indubbie ed irrinunciabili finalità di utilità sociale, essendo preordinata alla salvaguardia di beni supremi dell’ordinamento quali la vita e l’integrità psico-fisica, tuttavia, al contempo, per la sua frequente intrinseca pericolosità, può integrare fatti astrattamente conformi ad ipotesi di reato (segnatamente i delitti contro la vita e l’incolumità individuale).
Si è posto, pertanto, il problema preliminare di individuare, in assenza di una causa di giustificazione ad hoc[1][1], quale sia il fondamento normativo della liceità penale di tale attività ed entro quali limiti lo svolgimento della stessa sia autorizzato, e dunque scriminato, dall’ordinamento.
La questione in oggetto, comune all’esercizio dell’attività sportiva violenta, investe la più ampia tematica dell’ammissibilità delle c.d. scriminanti non codificate o atipiche (o tacite) nel nostro sistema penale, ovvero di cause di giustificazione non espressamente previste dalla legge e che hanno l’effetto di rendere lecite talune condotte astrattamente costituenti reato.
Secondo una prima tesi, della c.d. azione socialmente adeguata, mutuata dalla dottrina tedesca, sarebbero scriminate tutte quelle condotte che, pur astrattamente punibili in assenza di apposita norma giustificatrice che le consenta o le autorizzi, siano ritenute “socialmente adeguate”, cioè conformi alle finalità sociali perseguite da una determinata collettività in un dato momento storico.
Tale tesi, se può trovare cittadinanza in altri ordinamenti, ispirati ad un principio di legalità sostanziale (e ad una concezione sostanziale del reato e dell’antigiuridicità) è, pressoché pacificamente, ritenuta incompatibile con un ordinamento come il nostro, informato al principio di legalità formale. Di guisa che, se è reato solo ciò che è espressamente previsto dalla legge, non può la natura illecita di un fatto essere rimossa in forza della mutevolezza del sentire sociale rispetto alle previsioni legislative. A ciò si aggiunge la considerazione, secondo la quale l’accoglimento di una tale tesi finirebbe inevitabilmente con l’innescare incertezze applicative insuperabili: perché ciò che sia socialmente adeguato ed inadeguato in un dato momento storico è rimesso alla valutazione discrezionale del giudice caso per caso, con buona pace del principio di riserva di legge (tassatività e determinatezza della fattispecie) costituzionalmente sancito all’art.25 Cost.
La seconda tesi, autorevolmente sostenuta[3][3], perviene all’ammissibilità di dette scriminanti tacite, sul presupposto- estremamente controverso- di una applicazione analogica in bonam partem di quelle codificate, atteso il loro carattere non strettamente penalistico e l’effetto conforme alla ratio sottesa al divieto di analogia, che si assume essere la salvaguardia della libertà personale (favor libertatis)[4][4].
La tesi attualmente prevalente, invece, ritiene il divieto di analogia assoluto, in quanto ispirato ad esigenze di certezza ed univocità del comando penale; nega, quindi, ogni possibilità di applicazione analogica delle scriminanti e, per l’effetto, riconduce il fondamento della liceità di tali condotte alle scriminanti già previste dall’ordinamento[5][5].
Si afferma, peraltro, che non abbia rilevanza pratica, oltre che dogmatica[6][6], la categoria delle cause di giustificazione non codificate, in quanto le ipotesi più discusse (attività medico-chirurgica ed attività sportiva violenta) sarebbero in realtà pienamente riconducibili alle scriminanti codificate.
Alcuni, ulteriormente precisando, pervengono a tale risultato applicativo attraverso il funzionamento congiunto e combinato di più scriminanti codificate.
Più nel dettaglio, il fondamento della liceità dell’attività medico-chirurgica viene da taluno individuato nel consenso dell’avente diritto di cui all’art.50 c.p., purchè “informato, esplicito, libero e attuale”[7][7].
Una tale impostazione, tuttavia, presta il fianco ad una obiezione difficilmente superabile e che deriva dal combinato disposto di tale norma con l’art.5 c.c.
L’art. 50 c.p., da un lato, pone un limite invalicabile alla sua efficacia, precisando che deve trattarsi di diritti dei quali la persona può validamente disporre; dall’altro, l’art.5 c.c. prevede un divieto, di natura imperativa, a disporre del proprio corpo ove ciò possa cagionare “una diminuzione permanente dell’integrità fisica”.
Ne consegue, pertanto, che, stante il divieto di cui all’art.5 c.c., si verte in materia di diritti solo parzialmente disponibili, di guisa che l’art.50 c.p. non può costituire esclusiva causa fondante della liceità penale dell’attività medica [8][8].
A conferma di ciò, si sostiene, il divieto di natura imperativa di cui all’art.5 c.c. non è che espressione del più generale principio di ordine pubblico di salvaguardia dei beni supremi della vita e della salute anche a scapito- entro certi limiti- della libertà di autodeterminazione del singolo. Applicazioni di questo principio si rinvengono, inoltre, a livello costituzionale, nell’art.32 Cost. con la previsione di trattamenti sanitari obbligatori, nonché, in seno allo stesso codice penale, nell’incriminazione dell’omicidio del consenziente di cui all’art.579 c.p.
Il suddetto consenso ex art.50 c.p. ex se considerato può, al più, valere a scriminare le sole ipotesi, marginali, di trattamenti chirurgici di natura puramente estetica o “di routine”, la cui minima invasività (e comunque non intrinseca pericolosità) consente ragionevolmente di ritenere sufficiente, ai fini dell’esonero di responsabilità del sanitario, il consenso informato prestato dal paziente.
Al di fuori di tali ipotesi, la tesi prevalente, nel valorizzare l’evidente utilità sociale dell’attività medico-chirurgica, invoca a suo fondamento la causa di giustificazione dell’art.51c.p. sub specie di esercizio del diritto[9][9], “rinvenendone il baricentro garantista nel c.d. diritto alla salute, consacrato nell’art.32 della Costituzione”. Si sostiene, infatti, che tale attività, pur intrinsecamente pericolosa, è tuttavia attività che l’ordinamento autorizza e promuove, regolamenta e finanzia a certe condizioni ed entro certi limiti[10][10].
Più nel dettaglio, si individuano tre requisiti di liceità del trattamento medico- chirurgico, sussistendo i quali opererebbe l’art. 51 c.p. (e dunque l’autorizzazione legislativa dell’attività in oggetto):
- la finalità terapeutica (ovvero la finalità di cura e recupero della salute del paziente);
- il rispetto delle regole dell’ars medica (di natura precauzionale, che valgono a ridurre e perimetrare i confini del c.d. rischio consentito[11][11]);
- il consenso del paziente che si sottopone alle cure [12][12].
Solo alla ricorrenza di tutti i presupposti sopra citati, il medico che effettua il trattamento andrà esente da responsabilità penale, anche laddove l’esito sia infausto, nel senso di un aggravamento delle condizioni di salute preesistenti del paziente o, addirittura, di morte dello stesso in conseguenza dell’intervento.
In questa prospettiva, il consenso del paziente assume un ruolo decisivo, necessario, ma comunque da solo insufficiente a scriminare, in quanto funzionerebbe non come consenso scriminante ex art.50 c.p., ma come presupposto indefettibile di operatività di altra scriminante, individuata nell’esercizio del diritto di cui all’art.51 c.p. [13][13].
Si danno, tuttavia, delle eccezioni.
L’orientamento giurisprudenziale e dottrinario prevalente ha, infatti, diversificato il fondamento e i presupposti della liceità a seconda del tipo di trattamento medico che viene in rilievo. Si distingue, in primo luogo, tra attività medico chirurgica terapeutica e/o sperimentale e attività puramente estetica (con finalità non stricto sensu curative, ma di mera vanità).
Nel caso di trattamenti di chirurgia estetica e plastica, come già detto, appare sufficiente a scriminare la condotta medica il solo consenso ex art. 50 c.p., purchè si mantenga entro i limiti di cui all’art. 5 c.c.[14][14].
Con la precisazione, peraltro, che l’operatività di detta scriminante è comunque esclusa quando le lesioni o la morte del paziente siano dipese da un errore del medico (sub specie di violazione del complesso di leges artis che regolamentano il trattamento sanitario).
Ove si versi, invece, in tema di attività medico-chirurgica terapeutica o terapeutico-sperimentale o sperimentale pura (c.d. scientifica) di norma opera la scriminante di cui all’art.51 c.p., nei limiti e alla ricorrenza dei presupposti di cui si è detto. Si danno, tuttavia, talune ipotesi, circoscritte all’attività terapeutica (o al più terapeutico-sperimentale), nelle quali si prescinde dal consenso del paziente, quale presupposto ineludibile di liceità della condotta.
Si tratta, in primo luogo, degli interventi sanitari c.d. necessari, caratterizzati dal presupposto fattuale della necessità e urgenza ( c.d. terapeutica) di intervenire per far fronte ad un imminente e grave pericolo alla salute o alla vita del paziente: le eventuali conseguenze infauste dell’intervento sarebbero scriminate, secondo alcuni autori[15][15], a norma dell’art.54 c.p., ricorrendo gli estremi dello stato di necessità. Altri, ulteriormente precisando, ritengono operare l’art.51 c.p., ma sub specie di adempimento del dovere (stante la posizione di garanzia rivestita dal sanitario) integrato, sul piano fattuale, dal requisito dell’urgente necessità terapeutica, come descritto dall’art.54 c.p.[16][16]
Nel caso, infine, di trattamenti sanitari obbligatori per legge si ritiene, pacificamente, che operi per ciò solo la scriminante dell’esercizio del diritto di cui all’art.51 c.p., sub specie di attività autorizzata dal legislatore ex art.32 della Cost. in combinato disposto con le singole leggi di riferimento. In tale ambito, l’assenza di consenso del paziente o addirittura il suo rifiuto espresso all’intervento non assumerebbero rilievo ai fini dell’operatività dell’art. 51 c.p., prevalendo sulla libertà di autodeterminazione del singolo la salvaguardia della vita e della salute, seppur nei limitati casi espressamente previsti dalla legge[17][17].
Al di fuori di questi casi, e cioè nelle ipotesi più ricorrenti e più complesse di trattamenti sanitari non urgenti, né obbligatori, né puramente estetici, opererebbe, come detto, la scriminante dell’art.51 c.p. sul presupposto, imprescindibile, del consenso del paziente.
2.Trattamenti terapeutici non necessari né obbligatori: i requisiti del consenso, quale presupposto imprescindibile di liceità dell’intervento medico-chirurgico.
Come già accennato, tra i presupposti di liceità dei trattamenti medico-chirurgici non necessari né obbligatori un ruolo centrale è attribuito al consenso del paziente che si sottopone alla cura.
Tale consenso, si ribadisce, non funge di per sé da causa di giustificazione ex art.50 c.p., ma è più semplicemente espressione della libertà di autodeterminazione del singolo, il quale, a norma dell’art.32 Cost., ha il diritto di rifiutare le cure, salvo i casi, tassativamente previsti dalla legge, di trattamenti obbligatori. Si tratta, quindi, di un atto di volontà che è specificazione del riconoscimento della libertà personale di cui all’art. 13 Cost., e il cui fondamento, oltre che nel citato art. 32 Cost., si rinviene nell’art. 3 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo a norma del quale “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”.
In altri termini, “il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto delle proprie integrità corporee, le quali sono tutte profili della libertà personale proclamata inviolabile dall'art. 13 cost. Ne discende che non è attribuibile al medico un generale "diritto di curare", a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell'ammalato che si troverebbe in una posizione di "soggezione" su cui il medico potrebbe "ad libitum" intervenire, con il solo limite della propria coscienza; appare, invero, aderente ai principi dell'ordinamento riconoscere al medico la facoltà o la potestà di curare, situazioni soggettive queste derivanti dall'abilitazione all'esercizio della professione sanitaria, le quali, tuttavia, per potersi estrinsecare abbisognano di regole, del consenso della persona che al trattamento sanitario deve sottoporsi” [18][18].
Affinché il consenso sia frutto di una consapevole e ponderata manifestazione della libertà individuale occorre che sia dotato di certi requisiti, in ordine ai quali dottrina e giurisprudenza risultano alquanto prodighe di aggettivi: si richiede così, di volta in volta, che questo sia personale, esplicito, specifico, libero, attuale, informato e consapevole.
Appare opportuno chiarire i singoli aspetti.
- Il consenso deve, anzitutto, essere personale: deve cioè essere manifestato direttamente dal paziente, purchè si tratti di persona capace di intendere e di volere[19][19].
- Deve poi trattarsi di un consenso esplicito. Si discute, tuttavia, se debba necessariamente essere anche espresso e in forma scritta, ovvero se sia sufficiente un consenso tacito, per facta concludentia[20][20] .
- Il consenso deve, inoltre, essere specifico: cioè deve avere ad oggetto il singolo intervento ovvero ognuna fra le ipotesi di trattamento prospettate e non potrà , quindi, essere generico o onnicomprensivo, se non nei limitati casi di interventi di routine e a basso rischio. Più in particolare, si richiede, per interventi dotati di una certa rilevanza per i beni coinvolti, un atto di volontà tanto più specifico quanto più il rischio è elevato, escludendosi, in tali casi, la possibilità di legittimare l'attività del chirurgo in virtù di una 'delega in bianco' conferitagli dal paziente[21][21].
- E soprattutto, affinché sia consapevole e, dunque, espressione di una seria manifestazione di libertà di autodeterminazione terapeutica, si impone un consenso c.d. informato [22][22]. Il che comporta una specifica e particolareggiata informazione, da parte del sanitario, in ordine alla “natura dell’intervento medico e/o chirurgico, alla sua portata ed estensione, ai rischi, ai risultati conseguibili, alle possibili conseguenze negative, alla possibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri interventi e ai rischi di questi ultimi”: solo così il paziente è messo concretamente in condizione di valutare ogni rischio ed ogni alternativa[23][23]. Si afferma, infatti, che il diritto all'informazione esiste se è esercitato positivamente, nel momento in cui il paziente è messo nelle condizioni di attuarlo. Il medico, quindi, ha il compito di informare in modo compiuto il paziente, in quanto è quest’ultimo l’arbitro indiscusso della decisione di sottoporsi alle cure, ovvero di affidarsi a lui, o ancora di non sottoporsi ad alcun intervento[24][24].
- Dal ché consegue che il consenso deve formarsi liberamente e cioè essere immune da vizi[25][25].
- Deve, infine, essere reale ed effettivo, e non già presunto[26][26]; attuale, deve cioè persistere al momento dell’inizio dell’intervento (non anticipato), e sempre revocabile.
In ordine, poi, alla prova dell’intervenuto consenso da parte del paziente, si ritiene pacificamente che il sanitario possa fornirla attraverso l’esibizione dei moduli prestampati di “consenso informato” (ampiamente diffusi nella prassi ospedaliera) debitamente sottoscritti, con la precisazione, tuttavia, che detta sottoscrizione non esonera affatto il sanitario dal fornire al paziente le dovute informazioni verbali -in termini comprensibili al suo livello culturale ed intellettuale- ed inoltre, non esonera da responsabilità, salvo i casi di interventi di routine, ove il modulo contenga indicazioni generiche e non siano inserite postille che tengano conto delle peculiarità della patologia dell’assistito e della connessa terapia[27][27].
3. Il trattamento medico arbitrario: evoluzione giurisprudenziale dalla sentenza 13 maggio 1992 (Massimo) ai più recenti arresti della Suprema Corte
La precisazione dei requisiti che devono sussistere affinché il consenso del paziente possa ritenersi validamente prestato, porta, a contrario, a desumere i casi in cui si versa nel campo del penalmente rilevante, profilandosi l’ipotesi del c.d. intervento medico arbitrario.
In termini più puntuali, ricorre l’intervento medico arbitrario allorché il trattamento sanitario sia effettuato:
- in difetto assoluto del consenso;
- in presenza di un consenso non informato (ossia viziato per effetto della mancata o inesatta informativa) che è equivalente al primo sul piano giuridico;
- ovvero (ipotesi più delicata e più frequente) nel caso di consenso non specificatamente riferito a quel dato intervento praticato dal medico ( il quale, in particolare, ottenuto il consenso per un certo intervento, nella fase intra-operatoria decida di praticarne uno diverso e generalmente più invasivo, ancorchè non ricorrano i presupposti della necessità e urgenza terapeutica e possa, quindi, richiudere la breccia operatoria e consultarsi col paziente).
L’individuazione delle conseguenze penali del trattamento medico arbitrario ha innescato un vivace dibattito in dottrina e giurisprudenza, incentrato essenzialmente sulla diversa rilevanza attribuita, di volta in volta, ai due termini fondamentali della quaestio: da un lato, il consenso del paziente (che difetta o è comunque invalido), dall’altro, l’attività medico chirurgica in quanto tale (e le sue finalità terapeutiche). Appare opportuno, sul punto, distinguere varie ipotesi che possono venire in rilievo. In primis, le soluzioni prospettate variano a seconda che l’esito dell’intervento sia fausto o infausto.
Nel primo caso, è possibile individuare due contrapposti orientamenti: il primo a favore della rilevanza penale della condotta del medico; il secondo in senso contrario.
Secondo il primo orientamento, al di fuori degli atti urgenti o necessari rientranti nello stato di necessità, gli atti operatori solo opportuni, diversi (aggiuntivi o sostitutivi) rispetto a quelli consentiti, sarebbero sempre penalmente rilevanti, anche allorché l’estrema opportunità di essi sia ravvisabile nell’intento di evitare al paziente un nuovo intervento a distanza di tempo ed una nuova anestesia con i rischi connessi. In definitiva, solo il consenso del paziente validamente prestato o del suo legale rappresentante avrebbe efficacia scriminante dell’attività medico chirurgica, a meno che si tratti di atti operatori urgenti o necessari riconducibili allo stato di necessità.
Questo orientamento si distingue al suo interno in due tronconi, in relazione alla tipologia di fattispecie delittuose che possono venire in rilievo.
Secondo un primo filone, estremamente formalistico, verrebbe comunque in rilievo il delitto di lesioni personali, in quanto esso sussisterebbe anche quando il trattamento medico arbitrario abbia esito favorevole, «non potendosi ignorare il diritto di ognuno di privilegiare il proprio stato attuale». Detta conclusione, sarebbe autorizzata dall’accezione del termine malattia accolta nella relazione ministeriale al progetto del codice penale: «qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo»[28][28]. Si sostiene, più nel dettaglio, la ricorrenza del reato di lesioni personali dolose nel caso in cui il medico sia intervenuto nella piena consapevolezza dell’assenza del consenso e di ragioni di necessità e urgenza; nell’ipotesi, invece, nella quale il medico “in assenza di un valido consenso dell'ammalato, abbia effettuato l’intervento terapeutico nella convinzione, per negligenza o imprudenza a lui imputabile, della esistenza del consenso", ricorrerà la fattispecie di lesioni colpose di cui all’art. 590 c.p. e ciò anche ove “la condotta del chirurgo nell’intervento sia di per sé immune da ogni addebito di colpa" [29][29].
Il secondo filone, più recente, muovendo dal presupposto incontrovertibile che l’esito fausto dell’intervento determina un miglioramento delle preesistenti condizioni di salute e non già una “malattia” ex art. 582 c.p.[30][30], ritiene inammissibile- per difetto di tipicità oggettiva- il reato di lesioni e profila, quindi, a carico del sanitario la lesione della sola libertà di autodeterminazione del paziente e, dunque, a seconda dei casi, i delitti di: violenza privata di cui all’art. 610 c.p.; stato di incapacità procurato mediante violenza di cui all’art. 613 o, ancora, nei casi più gravi, di sequestro di persona ex art. 605 c.p. [31][31].
Il secondo orientamento, nel ridimensionare drasticamente la rilevanza del consenso quale condizione imprescindibile di liceità dell’intervento chirurgico, osserva che:
- non può venire in rilievo il reato di lesioni, in quanto “difetterebbe il fatto tipico del reato, arrecando il medico al paziente un miglioramento e non un peggioramento del bene della salute” [32][32];
- parimenti, non sembrano sussistere, se non a fronte di un esplicito dissenso del paziente alle cure, gli estremi dell’art.610 c.p., esulando la violenza, quale elemento descrittivo della fattispecie delittuosa in questione, dall'ordinario esercizio dell'attività medica; né a fortiori sembrano ipotizzabili gli estremi degli altri reati contro la libertà morale evocati.
Con la conseguenza che, in presenza di un esito fausto dell’atto operatorio, allorché il sanitario abbia agito secondo le regole dell’arte medica, non sussisteranno gli estremi di alcun fatto penalmente rilevante, salve comunque eventuali responsabilità di ordine disciplinare e civile[33][33].
E’, tuttavia, nel caso di esito infausto dell’intervento, dal quale derivi un aggravamento delle condizioni fisiche originarie o, addirittura, la morte del paziente, che la questione della responsabilità penale del medico assume rilievo decisivo, anche in ragione della maggiore gravità delle conseguenze che ne discendono.
Superata la tesi, di ispirazione dottrinale, che affermava sussistere in capo al sanitario -in caso di trattamento privo del consenso- una responsabilità penale a titolo di colpa[34][34], è possibile distinguere due orientamenti fondamentali sul tema, ai quali corrisponde storicamente l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale degli ultimi anni del secolo scorso.
Si passa, in particolare, da un atteggiamento di massimo rigore nei confronti del sanitario e dell’attività medico-chirurgica -in ossequio alla estrema valorizzazione del consenso del paziente- , ad un atteggiamento più equilibrato di contemperamento tra gli opposti interessi in conflitto (libertà di autodeterminazione, da un lato, attività medica con finalità terapeutiche, dall’altro), maggiormente in grado di offrire soluzioni conformi alle peculiarità dell’attività medico-chirurgica e alle connesse esigenze di equità sanzionatoria.
La prima tesi, seguita a lungo dalla giurisprudenza, si snoda secondo un’impostazione rigoristica del problema stigmatizzata nel 1992 dalla Suprema Corte nel c.d. “caso Massimo”[35][35].
Nel caso di specie, il chirurgo aveva eseguito un intervento demolitore, ben diverso da quello programmato per il quale soltanto il paziente aveva prestato il suo consenso, agendo altresì in assenza dei presupposti di necessità e urgenza. Dall’intervento era conseguita, a causa di complicanze post-operatorie, la morte del paziente.
Il chirurgo veniva, quindi, condannato per omicidio preterintenzionale (art.584 c.p.) sia in primo che in secondo grado. La Cassazione, con tale pronuncia, conferma la condanna, dando ampio conto delle ragioni a sostegno della stessa. Due sono, in particolare, i passaggi salienti della sentenza:
- l’assunto secondo il quale il trattamento sanitario in assenza di valido consenso integra, per ciò solo, il reato-base di lesioni personali dolose (art.582 c.p.);
- la ricostruzione del delitto preterintenzionale come ipotesi di dolo mista a responsabilità oggettiva, e dunque integrabile sulla base dell’accertamento del mero nesso di causalità tra l’evento morte (non voluto) e l’intervento effettuato dal sanitario, a prescindere dalla verifica di qualsivoglia coefficiente psicologico di imputabilità a quest’ultimo dell’evento -più grave- in questione.
Il primo assunto muove da una estrema “valorizzazione” del consenso, quale presupposto imprescindibile di liceità del trattamento, ed è reso possibile, secondo il Collegio, dalla circostanza che “per il reato di lesioni volontarie (cui l’atto deve essere diretto perché possa, in caso di morte quale evento sopravvenuto non voluto, configurarsi il delitto di omicidio preterintenzionale) è richiesto il dolo generico e (…) l’esecuzione di un intervento chirurgico non consentito, in assenza di ragioni di urgenza che lo giustifichino, non fa venir meno l’indicato elemento psicologico essendo irrilevante la circostanza che il soggetto abbia agito per il perseguimento di uno scopo lecito o illecito o per un motivo lecito o illecito”.
In definitiva, per integrare il dolo di lesioni volontarie, si precisa, non è necessario che la volontà dell’agente sia diretta precipuamente alla produzione dell’evento lesivo (cosa che nel caso di specie non ricorre, data la finalità opposta curativa), ma è sufficiente che questi abbia previsto che dal suo comportamento avrebbe potuto determinarsi, come evento collaterale (rispetto allo scopo principale terapeutico) un’offesa all’integrità personale del soggetto passivo ed abbia agito a costo di cagionarla (accettandone cioè il rischio).
Il dolo generico, infatti, a differenza del dolo intenzionale e specifico, è perfettamente compatibile con le forme attenuate del dolo indiretto e eventuale, ed è, quindi, compatibile con la finalità curativa avuta di mira dal medico. Quest’ultima, di conseguenza, è di per sé irrilevante in quanto semplice “motivo” o scopo ultimo dell’azione, che nulla toglie alla ricorrenza dei due segmenti necessari ai fini del supposto dolo generico di lesioni: ossia la rappresentazione in capo al medico dell’evento-lesioni e la volontà di realizzarlo (anche solo in termini di effetto collaterale della condotta).
Nel caso di specie, evidenzia la Corte, il medico aveva volontariamente posto in essere l’intervento, “senza averne il diritto e senza che ve ne fosse necessità”, perfettamente rappresentandosi il rischio di lesioni all’integrità fisica del paziente come conseguenza della sua condotta, e agendo “a costo” di cagionarle.
Conclude, quindi, enunciando il seguente principio di diritto:“il chirurgo, il quale, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, sottopone il paziente ad un intervento operatorio di più grave entità, rispetto a quello meno cruento e comunque di lieve entità, del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta, sicché egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale, se da quelle lesioni deriva la morte”.
La responsabilità del medico, a titolo di omicidio preterintenzionale, viene quindi fondata sull’evidente assunto della ricostruzione dell’art.584 c.p. come figura di dolo misto a responsabilità oggettiva. Riconoscendo, nei termini di cui si è detto, la sussistenza del reato base di lesioni, l’evento morte, non voluto, è, infatti, imputato al sanitario solo in quanto eziologicamente consequenziale al processo patologico innescato dall’intervento chirurgico e a prescindere dalla prevedibilità o evitabilità dello stesso, in base alle leggi dell’ars medica.
Quanto all’elemento materiale, esso sarebbe insito nel trattamento chirurgico, essendo la condotta del chirurgo, in difetto di consenso (senza il quale “nulla il medico può fare”), «un atto solo formalmente terapeutico e sostanzialmente illecito».
Il rigore delle conclusioni alle quali è pervenuta la Suprema Corte non poteva non sollevare un vespaio di critiche, sia in sede dottrinale che giurisprudenziale[36][36], tale da condurre nel 2001 ad un decisivo revirement.
Due sono le obiezioni principali a tale impostazione, che fanno leva su una diversa ricostruzione degli elementi strutturali del reato di cui all’art.584 c.p.
In primo luogo, già sotto il profilo oggettivo, si osserva che l’art.584 c.p. richiede la direzionalità finalistica degli atti a ledere o percuotere, mentre nel caso di intervento medico la direzione degli atti è diametralmente opposta (guarire): difetterebbe, quindi, l’elemento oggettivo del reato, atteso che il medico, il quale, avvedutosi dell’inadeguatezza dell’intervento programmato e originariamente consentito, pone in essere il nuovo intervento realizzerebbe una condotta non già diretta a cagionare “una lesione dalla quale derivi una malattia nel corpo o nella mente”, ma al contrario ad impedirne il prodursi, superando lo stato morboso in atto.
Ma è soprattutto sotto il versante soggettivo che la soluzione a favore dell’omicidio preterintenzionale evidenzia insuperabili incongruenze[37][37].
Si osserva, infatti, che, valorizzando la formulazione testuale della norma di cui all’art.584 c.p. (“con atti diretti a”) anche sul versante soggettivo e non solo oggettivo della fattispecie, il dolo dell’evento voluto (in particolare le lesioni) non è quello generico di cui all’art.582 c.p. ma è diretto o intenzionale: come tale palesemente incompatibile con l’opposta finalità- terapeutica- che anima il sanitario [38][38].
Se, dunque, è vero che la finalità terapeutica non assume rilievo ai fini dell’esclusione del dolo, non essendo richiesto il dolo specifico per i reati-base di percosse e lesioni, è, parimenti, indubbio che incide sulla gradazione dello stesso, prospettandolo nella forma meno intensa del dolo eventuale, tale da escludere l’elemento soggettivo del reato base (dolo intenzionale) e dunque, a valle, la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale.
Siffatta soluzione, inoltre, sembra apparire più coerente anche con l’esigenza di attenuare il rigore dell’addebitabilità dell’evento più grave, circoscrivendone l’operatività alle sole ipotesi in cui l’agente abbia almeno direttamente voluto la produzione dell’evento meno grave.
Sviluppando ulteriormente queste considerazioni, si è escluso più a monte che si possa addebitare al medico il reato di lesioni, difettandone l’elemento soggettivo anche nella sua forma generica: in assenza del consenso del paziente, infatti, l’elemento soggettivo si sostanzia non già nella rappresentazione e volontà delle menomazioni qualificabili come “malattia del corpo o della mente”, ma nella sola rappresentazione di compiere un atto contro la volontà del destinatario e dunque nella consapevolezza di ledere non già la sua integrità fisica, che in realtà vuole curare, ma la sua libertà morale[39][39].
Verrebbero, pertanto, in rilievo, sussistendone gli estremi, taluni delitti a presidio della libertà individuale: la violenza privata di cui all’art. 610 c.p.; lo stato di incapacità procurato mediante violenza di cui all’art. 613 ; o, ancora, nei casi più gravi (a fronte di un reciso rifiuto del paziente a sottoporsi alle cure), il sequestro di persona ex art. 605 c.p[40][40].
Con la conseguenza che, nel caso in cui dall'esecuzione del trattamento sanitario arbitrario derivino effetti lesivi o mortali, la natura dolosa dei reati di cui agli artt. 605, 610 e 613 c.p. consentirà di imputare all'agente altresì, a norma dell'art. 586 c.p., l'evento lesione o morte quale conseguenza dell'offesa portata alla libertà morale.
Con favore da chi ha evidenziato che, riconducendo il caso all’art. 586 c.p. il medico beneficerebbe di un trattamento sanzionatorio più equo, essendo la sanzione penale prevista dall’aberratio delicti e dall’omicidio colposo molto più mite di quella prescritta dall’art. 584 c.p. Si correggerebbe, quindi, l’intollerabile iniquità sanzionatoria della soluzione Massimo, che importa una pena più grave, a carico del medico, che abbia cambiato intervento chirurgico senza il previo consenso del paziente, rispetto a quello che, pur formalisticamente autorizzato, abbia agito con negligenza, imperizia ed imprudenza.
Non sono mancate, però, le critiche. Si è, infatti, obiettato che, specie alla luce della sentenza n.364/88 della Corte Costituzionale, l’imputazione a titolo di responsabilità oggettiva dell’evento morte determinerebbe un grave vulnus al principio di personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost. Ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 586 c.p. sarebbe, quindi, comunque necessario un c.d.minimum di attribuibilità psichica dell’evento aggravatore al sanitario.
Le critiche della dottrina, in ciò seguite anche da numerosi tribunali di merito[42][42], determinano una progressiva rimeditazione della questione, culminata nel 2001 nello storico arresto della sezione IV della Cassazione[43][43], con la sentenza n. 28132 c.d. Barese, che segna il definitivo superamento delle soluzioni prospettate nel caso Massimo.
La Suprema Corte, infatti, sottopone a revisione critica il precedente orientamento sotto due versanti fondamentali:
2. con riferimento agli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 584 c.p. (oggettivi e soggettivi);
3. ed in ordine all’eccessiva enfatizzazione del consenso quale presupposto imprescindibile di liceità del trattamento medico.
Sotto il primo versante, la Cassazione mostra di condividere le divergenze dottrinali e giurisprudenziali -di cui si è detto- sulla ricostruzione teorica della struttura dell’omicidio preterintenzionale: e ciò sia sotto il profilo dell’attribuibilità psichica e non meramente eziologia dell’evento morte al chirurgo, sia, soprattutto, sotto il profilo della diversa configurazione dell’elemento psicologico del reato-base di lesioni.
In ordine al primo profilo, si limita incidenter tantum a sottolineare che “pacifico essendo che l’evento voluto debba essere addebitato a titolo di dolo è invece controverso se quello non voluto sia addebitabile a titolo di responsabilità oggettiva, sulla base del semplice rapporto di causalità materiale, ovvero se sia necessaria la colpa. Divergenze che si sono ulteriormente acuite a seguito della sentenza 24 marzo 1988 n. 364, sull’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale (art. 5 cod. pen.) nel caso di ignoranza incolpevole, per l’inevitabile rafforzamento conseguitone del principio di colpevolezza”.
Non affronta in modo più dettagliato la questione, perché risultava comunque già accertata la colpa dell’imputato nella causazione dell’evento più grave.
Passa, quindi, ad affrontare il secondo profilo, che costituisce il vero puctum dolens della configurabilità dell’omicidio preterintenzionale, osservando che “se è vero che la connotazione finalistica della condotta (la finalità terapeutica) è irrilevante – non essendo richiesto il dolo specifico per i reati di lesioni volontarie e percosse – è altrettanto vero che la formulazione dell’art. 584 cod. pen. (“atti diretti a”) fa propendere per la tesi, non da tutti condivisa (anche perché, secondo alcuni orientamenti, la caratteristica prevista dalla legge, riprendendo la formulazione dalla legge usata per il tentativo, riguarderebbe solo la condotta e non l’elemento soggettivo), che l’elemento soggettivo richiesto per l’omicidio preterintenzionale, quanto all’evento voluto, sia costituito dal dolo diretto o intenzionale con esclusione quindi del dolo eventuale”[44][44] .
Questo non vuol dire, ad avviso del collegio, escludere sempre e comunque il dolo del reato di lesioni nel caso di intervento medico con finalità terapeutiche: affermare, infatti, che l’intento terapeutico esclude a priori questa volontà significherebbe “reintrodurre il non richiesto dolo specifico; per converso affermare l’intenzionalità della condotta, ogni volta che non vi sia il consenso del paziente, significa, in realtà, confondere il problema della natura del dolo richiesto per la fattispecie criminosa in esame con l’esistenza della scriminante costituita dal consenso dell’avente diritto”.
Ecco perché, precisa la Corte- fermi restando i presupposti della non necessità del dolo specifico e delle non discusse caratteristiche dell’elemento materiale del reato (ricavabile dal concetto di malattia fatto proprio dall’art. 582 cod. pen.) – ricorre l’elemento soggettivo del reato-base di cui all’art.584 c.p. allorché l’agente si rappresenti anticipatamente (sia pure nel corso dell’intervento chirurgico) l’esito (voluto) della sua condotta e non quando agisca “a costo” di provocarlo.
“Non va infatti dimenticato che, nella fattispecie dell’omicidio preterintenzionale, l’agente pone in essere una condotta che sa, e vuole, diretta a provocare un’alterazione dell’integrità fisica della persona offesa; egli si pone consapevolmente in una situazione di illiceità ponendo coscientemente in pericolo l’incolumità fisica o la salute del paziente”.
Perché ciò si realizzi, soggiunge la Corte, “non è necessario (…) che l’agente sia animato da una “malvagia volontà” nei confronti della persona offesa ma è comunque necessario che egli si rappresenti, come conseguenza della sua condotta voluta, la lesione dell’integrità fisica del paziente”. Rilievo decisivo – proprio per l’incidenza che ne può derivare sulla natura intenzionale dell’elemento psicologico richiesto – assume, al riguardo, la differenza tra i casi nei quali l’intervento arbitrario sia deciso nella fase intra-operatoria per sopraggiunte e imprevedibili (ovvero prevedibili ma non previste) circostanze e il caso in cui detto intervento sia stato programmato con quelle caratteristiche fin dall’inizio.
Concentrandosi sulla prima e più frequente ipotesi, in cui il diverso intervento –senza il consenso del paziente- è giustificato da sopravvenienze emerse in itinere (sebbene non tali da integrare gli estremi della necessità e urgenza terapeutica), la Corte afferma che “la finalità curativa e l’essere la condotta intenzionalmente diretta a tutelare la salute del paziente e non a provocarne una menomazione valgono ad escludere non solo la sussistenza del dolo intenzionale per l’omicidio preterintenzionale, ma addirittura lo stesso dolo generico di cui all’art.582, residuando al più una responsabilità a titolo di colpa, ove se ne accerti la ricorrenza”[45][45].
Nel tentativo, poi, di enucleare alcune ipotesi esemplificative, nelle quali è possibile configurare in capo al sanitario detto dolo intenzionale[46][46], la Cassazione chiarisce che si tratta “dei casi nei quali, già nella rappresentazione dell’agente, il normale rapporto tra costi (certi) dell’intervento e benefici (eventuali) di esso è ampiamente e preventivamente conosciuto e rappresentato dall’agente come assolutamente squilibrato verso i primi”: in tali casi, infatti, il chirurgo, o il medico, pur animato da intenzioni terapeutiche, agisce “essendo conscio che il suo intervento produrrà una non necessaria menomazione dell’integrità fisica o psichica del paziente”.
Così ricondotto l'elemento soggettivo del reato entro i suoi limiti naturali, la Corte evidenzia, poi, la preoccupazione per una “eccessiva enfatizzazione” del consenso, “le cui finalità sono in realtà diverse rispetto a quella di legittimare interventi lesivi dell'integrità del paziente” e la cui rilevanza “non ha un ambito di applicazione generalizzato” ove si tenga conto dei limiti posti dalla legge (art. 5 cod. civ.) agli atti di disposizione del proprio corpo e delle ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori nonché dei casi di trattamenti nei confronti di persone non consenzienti (per es. colui che ha tentato il suicidio o che effettua lo "sciopero della fame" o "della sete") o non in grado di esprimere il consenso.
In queste ipotesi, osserva la Corte, il consenso- di per sé- non assume rilievo decisivo nè ai fini di rendere lecito l’intervento (stante il divieto di cui all’art.5 c.c.) nè, a contrario, al fine di renderlo illecito penalmente (non è, infatti, necessario nei casi di trattamenti obbligatori e di interventi necessari e urgenti).
Il discorso cambia- soggiunge- nel caso di dissenso esplicito del paziente.
“A fronte di una manifestazione di volontà esplicitamente contraria all'intervento terapeutico il pericolo grave ed attuale per la vita o per la salute del paziente configura lo stato di necessità (…) e vale certamente ad escludere il dolo diretto di lesioni in quanto ciò che si rappresenta il medico, nell'intervenire malgrado il dissenso del paziente, è la salvaguardia della sua vita e della sua salute poste in pericolo”. Al di fuori di queste ipotesi “l'esplicito dissenso del paziente rende l'atto, asseritamente terapeutico, un'indebita violazione non solo della libertà di autodeterminazione del paziente ma anche della sua integrità con conseguente applicazione delle ordinarie regole penali”.
Sebbene non fornisca una soluzione esplicita al riguardo, la Corte sembra in parte condividere la tesi dottrinale, sopra illustrata, secondo la quale, essendo il bene giuridico protetto di cui si lamenta la lesione la libertà di autodeterminazione del paziente, il reato astrattamente configurabile sarebbe quello previsto dall'art. 610 cod. pen. (violenza privata) e l'eventuale evento lesivo o mortale che ne fosse derivato diverrebbe punibile secondo la previsione dell'art. 586 cod. pen.
Con la precisazione, peraltro, in ordine alla condotta di cui all’art. 610 c.p., che è da escludersi la possibilità che l’attività del medico si sostanzi nella minaccia, mentre potrebbe al più ipotizzarsi la violenza, sebbene “nei soli casi di dissenso espresso del paziente al trattamento chirurgico”.
Nel caso di specie:
- era stato effettuato un intervento demolitivo non espressamente consentito (ma neppure rifiutato) dal paziente;
- in violazione delle leges artis (risultava processualmente accertato l’errore diagnostico e terapeutico in cui era incorso il medico[47][47]);
- e in assenza di ragioni di necessità e urgenza che lo giustificassero.
La Corte condanna, quindi, il chirurgo per omicidio colposo, sussistendo i presupposti della colpa medica, e rileva che “se è vero che le finalità che l'agente si propone sono, nel nostro caso, irrilevanti è altrettanto vero che l'erronea rappresentazione della realtà si riverbera sull'elemento soggettivo sì da escludere non solo il dolo generico del delitto di lesioni volontarie ma altresì quello intenzionale richiesto per l'omicidio preterintenzionale”[48][48].
Riassumendo, è, quindi, possibile affermare che nel caso di intervento medico praticato“in assenza del consenso del paziente o in presenza di un consenso viziato”:
1) ove il trattamento sia necessario (ossia effettuato in presenza di una situazione di necessità e urgenza terapeutica) e/o obbligatorio, e sia eseguito secundum leges artis, l’attività è comunque scriminata, rispettivamente, ex art. 54 c.p. ovvero dall’art.51 sub specie di adempimento del dovere, integrato dal presupposto fattuale dell’urgente necessità terapeutica, ovvero nel secondo caso ex art. 51 c.p. sub specie di esercizio del diritto;
2) ove, invece, il trattamento sanitario non sia né necessario né obbligatorio la finalità terapeutica, salvo ipotesi in cui ricorra la colpa medica o addirittura il dolo- nei termini di cui si è detto- di lesioni, esclude la configurabilità dei reati contro l’incolumità individuale, lasciando al più residuare ipotesi delittuose contro la libertà morale.
In ordine a tale tematica, di recente, la Cassazione è andata ancora oltre, precisando ulteriormente che è escluso che il medico che effettui, in mancanza di esplicito consenso, un trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure “possa essere chiamato a rispondere dei presunti danni cagionati alla vita o all'integrità fisica e psichica del soggetto sul quale ha operato a regola d'arte”; e circoscrivendo, viceversa, alla sola ipotesi di rifiuto espresso del paziente la configurabilità del delitto di violenza privata[49][49].
La prima affermazione fa perno sulla considerazione della natura “obbligata, per non dire forzata” della pratica sanitaria[50][50], specialmente quella chirurgica, salvo rare eccezioni, tale per cui “sembra lecito(…) prospettare l'esistenza di uno stato di necessità generale e, per così dire, "istituzionalizzato", intrinseco, cioè, ontologicamente, all'attività terapeutica”.
Con la conseguenza che quando “il giudice di merito riconosce, in concreto, il concorso di tutti i requisiti occorrenti per ritenere l'intervento chirurgico eseguito con la completa e puntuale osservanza delle regole proprie della scienza e della tecnica medica deve, solo per questa ragione, anche senza fare ricorso a specifiche cause di leicità codificate, escludere comunque ogni responsabilità penale dell'imputato, cui sia stato addebitato il fallimento della sua opera”.
Questa soluzione trova la sua giustificazione, ad avviso della Corte, in due dati fondamentali:
- la preminenza, nell’attuale contesto normativo, delle esigenze di salvaguardia della salute dell’individuo sulla sua libertà di autodeterminazione, ove non espressa[51][51];
- ma, soprattutto, in altre ragioni che attengono propriamente alla natura intrinseca dell'attività sanitaria e al rilievo, anche costituzionale, ad essa attribuito dall'ordinamento[52][52].
Viceversa, osserva la Corte, la volontà del soggetto interessato svolge un ruolo decisivo quando sia espressa in forma negativa, “dovendosi (…) ritenere insuperabile l'espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorché l'omissione dell'intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell'infermo e, persino, la sua morte. In tale ultima ipotesi, qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata ma non - nel caso in cui il trattamento comporti lesioni chirurgiche ed il paziente muoia - il diverso e più grave reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali all'intervento terapeutico, possano rientrare nella previsione di cui all'art. 582 cod. pen.”
La prospettiva, pertanto, muta sostanzialmente ove si passi dall’intervento medico “in assenza di consenso” a quello effettuato “nonostante il rifiuto espresso” del paziente. E ciò anche nell’ipotesi in cui sussistano i presupposti della necessità e urgenza terapeutica. La delicatezza della questione ne rende opportuna una trattazione separata.
4. Rifiuto espresso e trattamento sanitario necessario: rilevanza penale dell’intervento medico contra voluntatem e dell’omesso intervento.
Tra i casi più complessi e problematici che possono presentarsi nell’esercizio dell’attività medica, si pone indubbiamente quello del rifiuto espresso del paziente a sottoporsi ad una determinata terapia, specie quando tale scelta comporti un grave pericolo per la salute e per la sua stessa vita.
Si pensi, ad esempio, alle ipotesi di rifiuto di emotrasfusioni “salvavita” da parte dei testimoni di Geova o dello “sciopero della fame” praticato in carcere dai detenuti in agitazione.
Anche in tale ambito appare opportuno, in via preliminare, distinguere le tre ipotesi di rifiuto che possono venire in rilievo, ovvero con riferimento ad un:
- trattamento obbligatorio per legge;
- trattamento necessario;
- trattamento non obbligatorio né necessario.
La prima ipotesi non desta alcuna difficoltà, essendo la volontà di autodeterminazione del singolo irrilevante o comunque recessiva a fronte della preventiva valutazione del legislatore (costituzionale ex art.32 Cost. e ordinario[53][53]) circa l’obbligatorietà del trattamento: l’intervento sarà, dunque, scriminato ex art. 51c.p. sub specie di esercizio di attività autorizzata, purché praticato nel rispetto dei limiti prescritti e delle regole dell’arte medica.
Parimenti incontroversa, sebbene sotto l’opposto profilo dell’illiceità penale, è la terza ipotesi, salvo poi ad individuare le concrete fattispecie delittuose che vengono in rilevo.
Alla stregua dell’orientamento giurisprudenziale oggi prevalente (v.§3) è indubbio che l'esplicito dissenso del paziente rende l'atto, asseritamente terapeutico, un'indebita violazione della libertà di autodeterminazione del paziente, configurando il reato di violenza privata di cui all’art.610 c.p.
A ciò si aggiunge, secondo parte della giurisprudenza, anche la lesione dell’integrità fisica del paziente[54][54].
L’ipotesi più problematica è indubbiamente quella in cui il trattamento sanitario sia necessario ed urgente, rendendo più acuto e lacerante il conflitto tra il bene giuridico della vita e quello della libertà morale individuale [55][55].
Innanzi al medico, chiamato gestire tali vicende, si prospetta una drammatica alternativa:
- rispettare la libertà di autodeterminazione del paziente, astenendosi dall’intervento e di conseguenza agevolando il peggioramento, fino alla morte in casi estremi, del paziente (decisione tanto più difficile quanto più sussistano concrete possibilità di restituire il malato ad una vita normale, e quanto più le ragioni del rifiuto di cure appaiano difficilmente comprensibili o irrazionali);
- imporre coattivamente il trattamento sanitario, con il rischio, tuttavia, di integrare gli estremi di una violenza privata, particolarmente umiliante non solo perché rivolta al "corpo" del paziente, ma soprattutto perché destinata a svilire le convinzioni personali più radicate e profonde dell'interessato ed in definitiva il suo diritto di ergersi ad unico "vero" arbitro dei propri più intimi interessi[56][56].
In ogni caso, la responsabilità per la gestione di tali vicende viene a ricadere interamente sul medico, con esiti, sotto il profilo penale, gravemente contradditori in giurisprudenza e in dottrina.
Sul punto è possibile distinguere tre tesi fondamentali, che pervengono a soluzioni diverse in ragione del diverso peso attribuito ai due valori in conflitto: libertà di autodeterminazione, da un lato; salvaguardia della salute e della vita dell’individuo, dall’altro.
Secondo il primo orientamento –minoritario e rigoristico-, ancorato al dogma dell'assoluta indisponibilità della vita, incomberebbe, in capo al medico, nonostante il rifiuto di cure, un obbligo di intervento a tutela della salute del paziente e ciò in ragione della posizione di garanzia da questi rivestita e della sussistenza nel nostro ordinamento di un presunto "dovere di vivere" quale limite implicito al diritto, costituzionalmente tutelato, di rifiutare le cure[57][57].
La posizione di garanzia in tal caso -ove non solo manca una volontà di affidarsi alle cure del medico ma addirittura è espressa una volontà contraria- viene desunta su base meramente fattuale-funzionale: ovvero in forza del potere di signoria del medico sull’evento lesivo, potendo egli, attivandosi, impedirne la verificazione[58][58].
Quanto, poi, alla presunta sussistenza, nel nostro ordinamento, di un limite implicito al diritto di rifiutare le cure, tale da escludere un’illimitata disponibilità del bene-vita e il c.d. diritto a lasciarsi morire, si adducono a sostegno taluni dati normativi[59][59].
In particolare, si enumerano le norme del codice penale in materia di omicidio del consenziente e di agevolazione del suicidio; nonché il più volte citato art.5 c.c.; e soprattutto l’art.54 c.p., la cui funzione, altrimenti vanificata, sarebbe proprio quella di scriminare condotte “necessitate” dall’esigenza di salvaguardare beni supremi dell’individuo, quali la vita e l’integrità fisio-psichica.
Con riferimento, infine, alla Costituzione, si richiamano ora l'obbligo costituzionale di adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà sociale, di cui agli artt.2 e 4 Cost. (obbligo rispetto al quale atti di disposizione "negativa" della propria salute o, addirittura, della propria vita costituirebbero un'inaccettabile "scappatoia"), ora il valore costituzionale della (dignità della) "persona umana", gerarchicamente sovraordinato rispetto ai diritti alla libertà e all'autodeterminazione, e da intendersi «non come volontà di realizzarsi liberamente, ma come valore da preservare e realizzare nel rispetto di se stessi» [60][60].
Tale impostazione, tuttavia, presta il fianco a numerose critiche, due delle quali appaiono difficilmente superabili[61][61].
Da un lato, infatti, si desume un supposto "principio generale" di indisponibilità del bene vita da norme che sono pur sempre di legge ordinaria, come tali incapaci di fissare limiti alla regola sancita in modo generale ed inequivoco dall'art.32, 2° comma, Cost.
Dall’altro, pur richiamando anche norme costituzionali a supporto, tale tesi tende a svalutare il puntuale dettato normativo dell’art.32 Cost. secondo comma a favore di concetti ambigui quali la dignità sociale e il dovere solidaristico di cui agli artt. 2 e 4 Cost. e finisce, nella sostanza, col trasformare surrettiziamente il “diritto alla salute” in “dovere alla salute”: “il benessere psico-fisico viene ad essere, così, inteso non più come prerogativa del singolo, atta a fondare una pretesa solidaristica nei confronti dello Stato e della società, ma come prerogativa dello Stato e della società, implicante una pretesa verso il singolo, affinché egli si tenga bene "in forma" per meglio poter "servire" alla collettività” [62][62]. Il ché, se può apparire conforme ad istanze "utilitaristiche" di regimi totalitari, non può sicuramente conciliarsi con una norma costituzionale che, in una opposta prospettiva liberale e individualistica, sancisce expressis verbis l'illiceità di ogni trattamento sanitario contra voluntatem, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge.
Facendo, quindi, perno sulla chiara lettera del secondo comma dell'art.32 Cost., la tesi attualmente prevalente, tende a riconoscere un significato assoluto e preminente al rifiuto di cure[63][63], ora qualificandolo nei termini di una "scriminante" del reato eventualmente realizzato con l'omissione di terapie[64][64], ora nei termini di un fatto che impedisce il sorgere dello stesso "obbligo di garanzia" nei confronti del malato dissenziente (e con ciò la stessa configurabilità di un fatto tipico omissivo)[65][65].
Più in particolare, si afferma che sussisterebbe non la mera facoltà, ma addirittura l’obbligo in capo al medico di astenersi dall’intervento. Dalla qual cosa discenderebbe, come conseguenza ineludibile, l’illiceità penale dell’intervento effettuato in dispregio della volontà contraria del paziente: a prescindere dall’esito e dalla perfetta osservanza delle regole dell’arte medica, sarebbero, infatti, integrati gli estremi della fattispecie di violenza privata di cui all’art.610 c.p.[66][66] .
In tale direzione, talune decisioni dei giudici di merito che hanno ritenuto giuridicamente doverosi e dunque scriminati ex art.51 c.p. l’omissione del trattamento e il conseguente mancato impedimento dell’evento letale, in conformità al contrario e consapevole parere dell’assistito, e per l’effetto hanno mandato assolto il medico, il quale, in presenza del rifiuto di un testimone di Geova, aveva omesso di praticargli un trattamento trasfusionale “salvavita”, nonché il direttore di un istituto penitenziario, il quale, non disponendo l’alimentazione forzata di un detenuto in sciopero della fame, non ne aveva impedito la morte[67][67].
Se questo è l’orientamento prevalente, specie in dottrina, al suo interno è tuttavia emerso un filone- di matrice giurisprudenziale- che, nel tentativo di individuare un giusto equilibrio tra gli opposti valori costituzionali in conflitto, è pervenuto ad una soluzione mediana: si è, in definitiva, riconosciuta la liceità penale dell’astensione, ma al tempo stesso, si è rinvenuto nell’art.54 c.p. il fondamento normativo per scriminare gli interventi connotati dai presupposti della necessità e urgenza terapeutica.
Con ciò, implicitamente, degradando l’obbligo in facoltà di astensione.
Tale tesi, pur riconoscendo la liceità penale dell’astensione, ammette, tuttavia, in capo al medico la facoltà di intervenire contra voluntatem, in presenza di una situazione di pericolo grave ed attuale per la vita o di danno grave alla salute della persona, non altrimenti sventabile, riconducendo la liceità dell’intervento al paradigma di cui all’art.54 c.p.
Se, da un lato, infatti, si riconosce decisivo rilievo al diritto del paziente di rifiutare le cure, ove cristallizzato in un’espressa e informata manifestazione di volontà, dall’altro, tuttavia, si ritiene che, qualora il rifiuto afferisca a terapie indispensabili per la sopravvivenza, deve poter trovare applicazione la previsione dello stato di necessità. Con la conseguenza che, laddove il medico, pur non obbligato, decida di intervenire, la sua condotta sarà comunque scriminata ex art.54 c.p.[68][68]
Strettamente connessa a tale tematica è, infine, la vexata quaestio della persistente validità di un rifiuto alle cure, quando il paziente, in stato di incoscienza, non sia in grado di confermarlo e le cure, in precedenza rifiutate, si prospettino necessarie e improcrastinabili[69][69].
La differenziazione delle tesi sopra esaminate non poteva non riverberarsi anche su tale tema: è, infatti, possibile distinguere tre opzioni ermeneutiche.
Un primo orientamento tenta di risolvere la questione, affermando che, nella contrapposizione tra opposti principi costituzionali -solidaristico e consensualistico (ex art.32 primo e secondo comma), nel caso di specie avrebbe ragione di essere invocato il primo, di talché l’intervento medico risulterebbe comunque doveroso.
A ciò è facile obiettare che, così ragionando, si azzera in modo aprioristico e astratto il principio volontaristico: se, infatti, il paziente, non è più in grado, nella contingenza, di estrinsecare la propria volontà (confermando il rifiuto alle cure), ciò, di per sé, non può significare che quel valore non inerisca più alla sfera delle sue prerogative giuridiche[70][70].
Il secondo orientamento afferma la necessità di ricostruire il "vero" interesse del paziente, ricorrendo a criteri quali "consenso presunto", ovvero ad un consenso verso le cure che sarebbe costantemente da presumersi ogni qual volta si prospetti altrimenti, per il paziente incosciente, un rischio di morte: e ciò perché, si afferma, l'istinto di autoconservazione sarebbe insopprimibile in ogni essere vivente[71][71].
Dal ché si desumerebbe la liceità, se non talvolta la doverosità, dell’intervento medico, venendo meno la rilevanza giuridica del rifiuto, non più attuale.
Anche tale tesi non è esente da critiche, fondandosi su presunte regole "empiriche" o "equitative", non dimostrabili e suscettibili di interpretazioni altamente discrezionali, senza la guida di alcun referente normativo a sostegno. Inoltre, si evidenzia, essa condurrebbe, sotto il profilo dei risultati applicativi, a sovvertire sempre e comunque il valore del dissenso già espresso dal paziente, sacrificandolo sull’altare di un presunto e prevalente istinto di auto-conservazione[72][72].
Appare, quindi, preferibile un terzo orientamento che afferma la necessità di rinvenire nell’attuale tessuto normativo i referenti ermeneutici utili a guidare l'interprete.
Più nel dettaglio, si richiama l’art.9 della Convenzione di Oviedo, oggi trasmigrato, dal mero ambito "deontologico", dov'era "confinato" dall'art.34 del Codice di deontologia medica, a livello di legge ordinaria (legge 28 marzo 2001 n.145 di ratifica della Convenzione)[73][73]. Tale disposizione, si afferma, se da un lato non è in grado, in positivo, di offrire un criterio certo di comportamento, non essendo chiaro cosa significhi, in concreto, "tener conto" delle direttive anticipate, sicuramente, in negativo, non può voler dire che il precedente dissenso verso le cure del paziente incosciente non debba mai assumere rilevanza[74][74]. Come dire, “a fronte dell'incertezza – innegabile– circa la prevalenza, nel caso di specie, di un interesse a curarsi o a non curarsi, l'unico dato normativamente sicuro è che un qualche valore il precedente dissenso lo deve avere” [75][75] .
Questi i passaggi fondamentali della tesi in questione:
- il rifiuto di cure vincola il medico a non intervenire, anche se ciò dovesse comportare una compromissione seria dello stato di salute, o addirittura la morte;
- non è rinvenibile nel sistema una regola che sancisca l'invalidità sempre e comunque di una manifestazione di dissenso verso le cure, qualora il manifestante cada successivamente in uno stato di incoscienza;
- esiste, invece, una regola diversa, alla stregua della quale tale volontà deve avere ancora un (qualche) significato.
Nel tentativo di chiarire in che cosa questo "significato" ex art.9 cit. possa concretizzarsi, tale tesi afferma che si tratta di una disposizione, la quale, dando per scontata la validità assoluta della manifestazione di volontà contraria alla terapia (già evincibile dall'art.5 della Convenzione medesima, non a caso rubricato "regola generale"), pone a carico del medico, nel caso in cui il paziente versi in stato di incoscienza, una sorta di "onere cautelare", consistente nel sincerarsi circa l'effettiva riferibilità di quel dissenso a quelle cure. In definitiva, l'atto di autodeterminazione è sempre potenzialmente valido, in linea di massima, anche in casi così particolari, solo che l'impossibilità di una sua conferma ed ulteriore specificazione da parte del paziente rende in concreto più problematico comprendere se esso effettivamente "si attagli" alla particolare situazione, rivolgendosi a quella prestazione terapeutica o diagnostica, implicando l'accettazione di quegli specifici esiti.
La sopravvenuta incoscienza, in questa prospettiva, viene considerata non già come evenienza suscettibile di determinare per ciò solo l'applicazione di una regola specifica e diversa da quella ordinaria, che vieta l'attuazione di trattamenti sanitari contra voluntatem (regola che sarebbe priva di un qualsivoglia fondamento normativo), ma come dato fattuale suscettibile in concreto di rendere più difficoltoso, in un'ottica lato sensu "probatoria", l'accertamento dell'esistenza di un effettivo dissenso rispetto alle cure[76][76].
In conclusione, poi, si precisa che con tale soluzione “non si ipotizza l'attribuzione al medico di un autonomo potere-dovere "inquirente" come un pubblico ministero: ciò che conta è che il sanitario compia quelle verifiche, circa la "reale" volontà del paziente, esigibili in situazioni di così pressante emergenza, nei limiti delle concrete possibilità offerte ad un soggetto privo di qualsiasi autorità "istituzionale" in tal senso. Se dovesse poi a posteriori risultare che, in realtà, quel dissenso non era significativo, l'omissione di terapie, con esito mortale, potrà comunque considerarsi non dolosa – se il medico era assolutamente convinto della presenza di un rifiuto di cure – e neppure colposa, se tale convinzione discendeva da una considerazione sufficientemente attenta dei dati a sua conoscenza”[77][77].
Il tutto, con la precisazione che l'art.32 della Cost. non contempla un'alternativa tra curarsi e lasciarsi morire, tra curarsi e lasciarsi ammalare, ma si riferisce esclusivamente al diritto di rifiutare determinati trattamenti sanitari[78][78].
Ne consegue che, il medico destinatario di un dissenso non già generalizzato, ma riferito soltanto a specifiche cure, non sarà per ciò solo liberato da qualsiasi dovere nei confronti del paziente, ma dovrà comunque ricorrere a tutte le terapie alternative rispetto a quella divenuta impraticabile, purché esse abbiano legittimazione scientifica (giacché il dovere del curante si informa per l'appunto alla miglior scienza ed esperienza medico).
Qualora, però, il dissenso sia di così ampia portata da rendere in sostanza impraticabile qualsiasi tipo di intervento (venendo con ciò a coincidere con una vera e propria richiesta di eutanasia consensuale passiva[79][79]), a carico del medico residuerà comunque un dovere di dialogare col paziente circa le implicazioni di una tale scelta, essendo un'adeguata informazione, e se opportuno una corretta e sapiente attività di persuasione, gli ultimi mezzi disponibili per ottemperare al proprio compito di garante [80][80].
Conclusioni
La tematica della rilevanza penale dell’intervento medico arbitrario, sotto i tre diversi profili esaminati (in assenza del consenso, in presenza di un rifiuto espresso, e su persona in stato di incoscienza che abbia in precedenza espresso un rifiuto alle cure), resta a tutt'oggi aperta[81][81].
La mancata copertura consensualista dell’atto medico, in violazione dell’art.32 Cost., degrada, per le ragioni di cui si è detto, una condotta lecita e autorizzata dall’ordinamento in comportamento suscettibile di assumere rilevanza penale.
E’ tuttavia possibile affermare che, se da un lato, emerge prepotentemente un diritto del paziente a non sottoporsi alle cure ex art.32 Cost., quale immediata derivazione del principio personalistico di cui all'art. 2 Cost. e della libertà di autodeterminazione di cui all’art.13 Cost.; dall’altro non possono sottacersi insopprimibili istanze solidaristiche di tutela della salvaguardia dell’integrità fisio-psichica dell’individuo, nonché di promozione e miglioramento dell’attività medico-chirurgica.
Ecco perché si è imposta la distinzione tra le ipotesi di mera mancanza di consenso e le fattispecie in cui sia stato opposto un esplicito rifiuto al trattamento terapeutico: solo nelle seconde si è, infatti, cristallizzata una specifica estrinsecazione del patrimonio spirituale e culturale dell'individuo.
Con la conseguenza che, se in costanza di dissenso consapevole ed informato del paziente, si tende a profilare quanto meno la lesione del bene giuridico della libertà morale; nel caso di mera assenza del consenso, la finalità terapeutica può e deve, a certe condizioni, prevalere, escludendo la responsabilità penale del sanitario. In particolare, ove l’intervento risulti assolutamente necessario ed indilazionabile non può non essere pienamente scriminato (ex art.54 c.p.), non emergendo in alcun modo un interesse personale contrario e prevalente rispetto a quello valorizzato in via principale dall'ordinamento, ovvero l'interesse "alla salute".
E, tuttavia, anche nell’ipotesi in cui l’intervento sia solo opportuno e non effettivamente necessario, un atteggiamento di eccessivo rigore come quello prospettato nel caso Massimo, rischia di originare danni ancor più gravi di quelli inferti alla libertà di autodeterminazione del singolo: ossia, da un lato, una elevata conflittualità giudiziaria, indotta dalla sempre maggiore diffidenza dei cittadini verso le strutture sanitarie e verso coloro che vi lavorano; dall’altro l'inquietante fenomeno della "medicina difensiva", di cui sono, tra l'altro, espressione la spasmodica ricerca da parte dei medici di adesioni "modulistiche" sottoscritte dai pazienti, nell'erronea supposizione di una loro totale attitudine esimente” e , per converso, il rallentamento se non a volte la paralisi di pratiche chirurgiche altamente rischiose.
La giurisprudenza ha, in tale ambito, un compito tanto decisivo, quanto estremamente delicato ed angosciante.
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