mercoledì 3 novembre 2010

il modo migliore di scrivere il diritto amministrativo

La responsabilità civile della stazione appaltante è una species della più generale responsabilità civile della pubblica amministrazione della quale condivide e riproduce gli aspetti fondamentali. Ebbene, occorre evidenziare come la configurabilità della responsabilità civile dell’apparato pubblico per danni cagionati a terzi nello svolgimento della propria attività, sia una conquista piuttosto recente nel nostro ordinamento.


Tradizionalmente vigeva infatti il dogma dell’infallibilità della P.A. nell’esercizio della potestà autoritativa, racchiuso nell’espressione “the king cannot do wrong”. Tali considerazioni non riguardavano tuttavia i danni eventualmente cagionati all’individuo dall’attività comportamentale della P.A. (condotte materiali illecite poste in essere attraverso i suoi dipendenti): in tale settore il privato si riteneva infatti titolare di situazioni di diritto soggettivo perfetto, protette dal divieto del neminem laedere e garantite, in caso di lesione, dalla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.p. Al contempo, però, si manteneva forte il privilegio della P.A. per l’eventuale illecito commesso nell’esercizio dell’attività provvedimentale: ciò tanto nel caso in cui il cittadino mirasse, rispetto al provvedimento, alla conservazione della propria sfera giuridica (interesse legittimo oppositivo), quanto nel caso in cui vantasse un interesse all’ampliamento della medesima (interesse legittimo pretensivo). Ne sono derivate forti resistenze alla risarcibilità degli interessi legittimi incisi dall’attività provvedimentale illegittima della P.A.; resistenze che hanno trovato il proprio referente nella L.A.C., Lg. 20 marzo 1865, n. 2248, All. E, che ammetteva la tutela giurisdizionale del privato nelle sole “controversie in cui si faceva questione di un diritto civile o politico”. Negli altri casi l’unico mezzo di tutela per il privato era il ricorso giustiziale interno, ove la stessa P.A. si trovava a riesaminare i propri atti, eventualmente caducandoli. Il lento cammino verso la risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi è poi proseguito con la Legge Crispi, istitutiva della IVº sez. del Consiglio di Stato; con l’entrata in vigore della Costituzione, i cui artt. 28 e 113 hanno dato fondamentale copertura alla tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo ed alla responsabilità della P.A. per gli atti compiuti, nonché con la Lg. 1034/1971, istitutiva dei T.A.R. In forza di tali disposizioni il G.A. aveva assunto il potere di annullare il provvedimento amministrativo illegittimo, senza però poter accordare al privato il risarcimento del danno sofferto. La svolta è tuttavia derivata dal D.Lgs. 80/1998, che ha esteso al G.A., nell’ambito della sua giurisdizione esclusiva, la facoltà di assicurare ai privati una tutela piena, sia demolitoria, che risarcitoria, anche in forma specifica, nonchè dalla sentenza n. 500/1999 delle SS.UU. della Corte di Cassazione, che ha riconosciuto all’interesse legittimo la natura di situazione giuridica sostanziale, correlata all’interesse del titolare al conseguimento o alla conservazione di un bene della vita, la cui lesione può dare luogo ad un danno ingiusto risarcibile. Infine, l’art. 7 della Lg. 205/2000 ha devoluto al G.A. la cognizione delle controversie risarcitorie, inerenti l’intero ambito della sua giurisdizione, concentrando innanzi ad esso giudizio di annullamento e giudizio risarcitorio. Ciò premesso, nel settore degli appalti pubblici, la risarcibilità degli interessi legittimi era stata affermata dalla Lg. 142/1992, attuativa della direttiva CE/89/665, il cui art. 13, oggi abrogato, stabiliva che i soggetti subivano lesioni a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti di lavori o forniture o delle relative norme interne di recepimento, potevano chiedere all’Amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno. La domanda risarcitoria era proponibile innanzi al G.O., ma solo previo annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo da parte del G.A. Tale previsione rispondeva all’imperativo comunitario di impedire alle Amministrazioni, in sede di pubblica competizione per l’affidamento di lavori, di favorire imprese nazionali o locali a scapito di quelle provenienti dall’ambito C.E. Ecco, sebbene la tutela risarcitoria assegnata al privato fosse ancora macchinosa (era necessario ricorrere a due diversi giudici per ottenere il risarcimento) e limitata, la previsione ha avuto il merito di estendere la tutela risarcitoria anche all’interesse legittimo pretensivo o dinamico, incarnato qui dall’interesse dell’operatore ad ampliare la propria sfera giuridico-patrimoniale attraverso l’aggiudicazione dell’appalto (alcuni l’hanno invece interpretata quale norma eccezionale, limitata allo specifico settore, comprovante la generale irrisarcibilità degli interessi dinamici. Si ammetteva infatti la tutela risarcitoria dei soli interessi oppositivi, connessi cioè alla conservazione di un bene della vita già esistente nella sfera giuridica dell’individuo). Ebbene, a prescindere dall’interpretazione accolta, tale disposizione costituisce una prima forma di riconoscimento della responsabilità civile della stazione appaltante. Ad oggi, la regolamentazione generale degli appalti pubblici è contenuta nel D.Lgs. 163/2006, con cui il nostro sistema giuridico si è uniformato alla disciplina di settore di derivazione comunitaria. Alla luce di tale disciplina, la procedura di affidamento di lavori, servizi e forniture (denominata procedura ad “evidenza pubblica” poichè mira alla selezione dell’operatore che offra le condizioni migliori per il perseguimento del fine pubblico, nel rispetto delle regole di trasparenza e concorrenza), si sviluppa in fasi determinate: un primo segmento, pubblicistico ed a rilevanza comunitaria, segnato da atti amministrativi che vanno dalla delibera a contrarre (manifestazione di volontà con cui la P.A si determina a stipulare un determinato contratto), alla determinazione ed approvazione del bando di gara, allo svolgimento della competizione secondo certe modalità, fino all’aggiudicazione definitiva; ed una seconda fase, privatistica, caratterizzata da atti di natura negoziale inerenti la stipulazione e l’esecuzione del contratto. Fermo tale sistema, incorre in responsabilità la stazione appaltante che violi norme di legge inerenti la suddetta procedura ovvero le norme previste dal bando (quale lex specialis della competizione), dando luogo ad un’aggiudicazione illegittima della gara e pregiudicando gli interessi dei partecipanti che ambiscono all’affidamento. Ebbene, accertato che anche le amministrazioni aggiudicatrici in sede di appalti pubblici (ex art. 3, D.Lgs. 163/2006 si tratta delle amministrazioni dello Stato, di enti pubblici territoriali, di enti pubblici non economici, di organismi di diritto pubblico, di associazioni, unioni, consorzi di tali soggetti) possono incorrere in responsabilità, si è posto poi il problema di dare qualificazione alla medesima. Tra le tesi fondamentali che hanno animato il dibattito, c’è quella tradizionale sulla natura extracontrattuale della responsabilità ed altre più recenti che la qualificano in termini precontrattuali o contrattuali. Secondo la prima impostazione la responsabilità dell’amministrazione per atti illegittimi, lesivi dell’interesse del concorrente al conseguimento dell’appalto ricalca il modello aquiliano ex art. 2043 c.p. Per la sua sussistenza e per la relativa tutela è tuttavia necessario che il soggetto leso dimostri gli elementi dell’illecito, quali il fatto materiale (condotta, evento dannoso e nesso di causalità), il danno ingiusto, il dolo o la colpa della P.A. Assai complessa è però la dimostrazione dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo: la prima perché in ordine alla lesione degli interessi pretensivi è necessario che il giudice accerti che in assenza dell’atto illegittimo il soggetto avrebbe conseguito il bene della vita anelato (accertamento alquanto difficile nel settore dei contratti pubblici, data anche la natura tecnico-discrezionale dell’attività compiuta della P.A.); la seconda perché l’elemento tradizionalmente personalistico della colpa viene qui ad essere imputato ad un soggetto pubblico, che persegue interessi pubblici. Altro modello cui è stata ricondotta la responsabilità della stazione appaltante è quello precontrattuale: qui le norme di riferimento sono gli artt. 1337, 1338 c.c. Tale tesi, sorta dapprima stentatamente in dottrina e giurisprudenza, data la difficoltà di inquadrare la stazione appaltante come semplice contraente nella fase dell’evidenza comunitaria, si è affermata di recente in modo più incisivo. Ciò stante il superamento della netta separazione tra la fase pubblicistica e quella privatistica dell’evidenza pubblica, attualmente qualificata come procedura complessa, a duplice dimensione, caratterizzata da atti amministrativi negoziali che segnano la formazione progressiva del consenso contrattuale. La fase delle trattative non è dunque soltanto quella che segue l’aggiudicazione, estendendosi anche al procedimento di scelta del contraente, ove la P.A. è soggetta agli stessi canoni di buona fede e correttezza che valgono per il contraente semplice e che i partecipanti alla gara si attendono da lei. L’eventuale violazione di tali fondamentali regole può essere fonte di responsabilità precontrattuale per la stazione appaltante, ove leda il legittimo affidamento del concorrente nel corretto espletamento delle procedure di gara e nel buon esito della partecipazione. Ebbene, è abbastanza pacifica in giurisprudenza la natura precontrattuale della responsabilità del committente pubblico che receda ingiustificatamente da trattative giunte ad uno stadio avanzato, che rifiuti la stipula del contratto a seguito dell’aggiudicazione definitiva, che tenga condotte scorrette e pregiudizievoli per il contraente designato nel lasso temporale tra l’aggiudicazione e la formale stipulazione del contratto. La responsabilittà precontrattuale è stata altresì enunciata con forza nei casi di revoca, seppur legittima, tuttavia contraria a correttezza e buona fede, dell’avvenuta aggiudicazione (o di altro atto anteceente o del bando): è il caso della revoca intervenuta dopo un lasso di tempo molto lungo rispetto al verificarsi dei motivi di interesse pubblico posti a suo fondamento, o dell’autotutela disposta per mancanza di coperture finanziarie sulle quali la P.A. avrebbe dovuto vigilare prima avviare la procedura di evidenza. Recenti pronunce dei TAR e del Consiglio di Stato hanno evidenziato in questi casi come il soggetto leso dallo ius poenitendi della P.A., esercitato in spregio alla buona fede, abbia diritto oltre che all’indennizzo ex art. 21-quinquies, Lg. 241/1990 (quale risarcimento da atto lecito, paramentrato sul solo danno emergente) anche alla tutela risarcitoria. Ebbene, il risarcimento del danno, limitato all’interesse negativo, comprende qui sia le spese inutilmente sostenute nel corso delle trattative in vista della conclusione del contratto, sia la perdita, ove dimostrata, delle chences di aggiudicazione di altre competizioni. È esclusa invero la ripetizione dei danni che si sarebbero evitati e dei vantaggi che si sarebbero conseguiti con la stipulazione e l’esecuzione del contratto.
Innovativa tesi sulla natura giuridica della responsabilità della P.A. è poi quella inerente la responsabilità da contatto sociale qualificato o da “contatto amministrativo”. Questa sorge dal rifiuto di applicare il modello aquiliano alle ipotesi in cui tra le parti vi sia un qualche contatto o rapporto che genera affidamento reciproco su correttezza e legittimità della condotta altrui. Difatti, mentre l’art. 2043 c.c. regola la responsabilità del “passante o del chiunque” per danni che il suo comportamento ha cagionato a terzi, il contatto amministrativo operatore-P.A. che s’instaura con l’indizione della gara e la partecipazione alla stessa, dà vita ad un obbligo di protezione senza obbligo primario di prestazione, la cui violazione comporta conseguenze risarcitorie ex art. 1218 c.c. Il modello di responsabilità è dunque quello paracontrattuale da contatto qualificato, con le note differenze, rispetto allo schema aquiliano, riguardanti l’inversione dell’onere della prova (sarà sufficiente allegare il contatto amministrativo) e l’allungamento dei termini di prescrizione (dieci anni anziché cinque). Tale forma di responsabilità, connessa all’inadempimento degli obblighi di protezione ricadenti ex lege sulla P.A, sgancia oltrettutto il risarcimento dalla difficile prognosi sulla conseguibilità del bene della vita, nonché dalla dimostrazione dell’elemento soggettivo, riducendo però il quantum risarcibile. Detta tesi è tuttavia criticata sotto due punti di vista: da un lato perché ripropone una concezione superata dell’interesse legittimo, quale interesse meramente formale alla legittimità dell’azione amministrativa; dall’altro perchè il “contatto” e la relativa responsabilità interverrebbero in realtà solo dopo la conclusione dell’accordo, non già nella fase dell’evidenza pubblica. Ne consegue la prevalenza della tesi della responsabilità extracontrattuale della stazione appaltante, nelle ipotesi di illegittima aggiudicazione della competizione o di illegittimo svolgimento della gara. Teoria oggi ulteriormente avvalorata dall’art. 30 del nuovo codice del processo amministrativo (D.Lgs. 104/2010), che qualifica in termini di “danno ingiusto” quello derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa e dispone l’esercizio di un’autonoma azione risarcitoria slegata dalla pregiudiziale di annullamento del provvedimento illegittimo.
In forza dell’adottato modello aquiliano, in sede risarcitoria il giudice dovrà accertare, su domanda del ricorrente e con onere probatorio a carico di questi, la sussistenza del danno ingiusto: se cioè il danno verificato sia qualificabile come ingiusto, stante la sua incidenza su un interesse rilevante; nonché sotto il profilo causale se l’evento pregiudizievole sia connesso alla condotta della P.A. e se sia imputabile alla responsabilità dell’ente. Su quest’ultimo punto la giurisprudenza è giunta oggi ad affermare che l’imputazione soggettiva non si fonda sul mero dato formale dell’illegittimità del provvedimento amministrativo (negazione della tesi della culpa in re ipsa), essendo necessario indagare la rilevanza della colpa (o del dolo) quale elemento imprescindibile della responsabilità aquiliana. Tale elemento, riferito non al funzionario agente, ma all’apparato pubblico, ha assunto peraltro una connotazione oggettiva simile al modello della responsabilità delle istituzioni comunitarie e delle P.A. dei paesi membri, per atti contrari a norme comunitarie sovraordinate. La colpa dell’apparato ricorre cioè quando l’atto amministrativo sia adottato in grave violazione delle norme giuridiche ovvero delle regole di imparzialità, buona amministrazione, correttezza, che presiedono all’azione amministrativa. Sono chiari indici di colpevolezza della P.A., come evidenziato dalla giurisprudenza, la gravità della violazione, il carattere vincolato dell’azione amministrativa, l’univocità e la chiarezza del dato normativo, la rilevanza dell’apporto partecipativo del privato al procedimento. La P.A. può invero salvarsi dall’imputazione solo giustificando la violazione alla luce di un errore scusabile in cui è incorsa, ovvero dell’inesigibilità di una condotta diversa.
Ebbene, fissati tali punti di riferimento, occorre ora indagare le forme di tutela esperibili dal concorrente contro la stazione appaltante in caso di illegittima aggiudicazione della competizione ed esaminare l’evoluzione dei rapporti tra tutela risarcitoria e reintegratoria alla luce dei recentissimi interventi apportati dal D.lg. 53/2010 (che ha recepito la direttiva 2007/66/CE) e dal nuovo codice del processo amministrativo (D.Lgs. 104/2010). A fronte di un’aggiudicazione illegittima, per vizio proprio o di taluno degli atti presupposti, il concorrente che non ha ottenuto la stessa si trova anzitutto di fronte alla necessità di impugnare il provvedimento illegittimo innanzi al G.A. Tale giudizio è notoriamente di stampo impugnatorio-caducatorio e non fa di per sé conseguire al ricorrente l’aggiudicazione del contratto, né lo risarcisce del pregiudizio subito. L’adeguamento del sistema alla disciplina comunataria, l’affermazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale amministrativa sancito dalla stessa Costituzione ed il superamento del dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi, hanno tuttavia riconosciuto al concorrente leso nell’affidamento rimesso nel buon esito della procedura, la possibilità di esperire la tutela risarcitoria per equivalente o in forma specifica, ex art. 2058 c.c. Molte resistenze hanno tuttavia peraltro riguardato l’ammissibilità della tutela reintegratoria, consistente nella restitutio in integrum della situazione sacrificata a fronte dell’atto illegittimo. Tale forma ricostitutiva dello status quo ante si riteneva infatti inapplicabile alla materia degli appalti ed ai casi di lesione degli interessi legittimi pretensivi: da un lato perché si reputava impossibile ripristinare un bene della vita che non faceva ancora parte della sfera giuridica dell’individuo (la tutela reintegratoria avrebbe apportato un indebito vantaggio al ricorrente); in secondo luogo perché il giudice avrebbe dovuto sostituirsi alla P.A. in valutazioni di sua esclusiva spettanza (con violazione del principio di separazione dei poteri), ovvero ordinare alla P.A. l’adozione di un determinato provvedimento, attraverso una sorta di “azione di adempimento” sconosciuta al processo amministrativo. Secondo un’altra opinione l’eventuale conseguimento, da parte dell’interessato, del contratto d’appalto era invece collegato all’effetto demolitorio-conformativo del giudicato amministrativo, in forza del quale una volta che il giudice avesse annullato l’aggiudicazione ritenendola illegittima, spettava alla P.A. provvedere alla riedizione o rinnovazione della gara. Ciò tuttavia non reintegrava necessariamente il ricorrente, salve le ipotesi in cui la P.A. fosse vincolata nella scelta di questi. La tutela reintegratoria è stata peraltro scoraggiata dall’art. 246, comma 4 del D.Lgs. 163/2006 che, in tema le controversie inerenti infrastrutture strategiche e insediamenti produttivi, ha statuito che “la sospensione e o l’annullamento dell’affidamento non comporta la caducazione del contratto stipulato, e il risarcimento del danno evetualmente dovuto avviene solo per equivalente”.
Tutto ciò si scontra con la previsione dell’art. 7, Lg. 205/2000 che, avendo modificato l’art. 7 della Lg. T.A.R, attribuisce al G.A. nell’ambito di tutta la sua giurisdizione, il potere di condannare la P.A. al risarcimento del danno, non solo per equivalente, ma anche mediante reintegrazione in forma specifica. Ecco tale forma di ristoro nella materia degli appalti pubblici, passa necessariamente attraverso l’ottenimento del contratto illegittimamente aggiudicato. La prassi di settore ha tuttavia dimostrato una certa tendenza alla corsa al contratto a seguito dell’aggiudicazione: usanza questa che difficilmente consentiva al concorrente deluso di sostituirsi all’illegittimo aggiudicatario, praticamente precludendogli il ristoro in forma specifica. Nella maggior parte dei casi si verificava infatti che la decisione del giudice sull’annullamento della gara intervenisse dopo la stipula del contratto, mortificando così le regole di concorrenza e la tutela giurisdizionale piena del danneggiato. Si poneva peraltro il problema di quale fosse la sorte del contratto stipulato tra stazione appaltante ed aggiudicatario illegittimo a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione: problematica rilevante sia da un punto di vista sostanziale che processuale e risolta solo di recente dal D.Lgs. 53/2010. Le tesi che hanno animato il dibattito sono state varie: secondo l’impostazione tradizionale la caducazione della procedura di evidenza pubblica a fronte dell’annullamento dell’aggiudicazione rendeva il contratto frattanto concluso annullabile. Si trattava però di un’annullabilità relativa (art. 1441 c.c.), rilevabile in via d’azione o di eccezione solo dalla stazione appaltante, in quanto determinata da vizio della volontà inficiante la procedura di scelta del contraente, quale segmento formativo della volontà e della capacità dell’ente pubblico (cfr. artt. 1425, 1427 c.c.). La natura civilistica della fattispecie portava a radicare innanzi al G.O. la giurisdizione sulle controversie relative alla validità del contratto, con deteriore tutela per il privato contraente che doveva dapprima ottenere l’annullamento dell’aggiudicazione di fronte al G.A. e poi attendere che la P.A. soccombente promuovesse l’annullamento del contratto, oppure adire il G.O. per chiederne la caducazione. In seguito si è affermata la teoria della nullità virtuale del contratto (ex art. 1418, comma 1 c.c.), stante la natura asseritamente imperativa delle disposizioni inerenti la procedura di evidenza pubblica, aventi matrice comunitaria (vi è tuttavia inconciliabilità tra la natura originaria della nullità ed il vizio ivi determinato dalla caducazione dell’atto presupposto). Altra posizione si era attestata invero sulla nullità strutturale del negozio, per difetto dell’accordo delle parti (artt. 1418, co. 2, 1325, n. 1 c.c.). Per i casi di nullità, virtuale o strutturale, si optava tuttavia per l’attrazione entro la giurisdizione del G.O. Affascinante è poi la tesi della caducazione automatica del contratto in forza dell’annullamento dell’aggiudicazione, accolta nondimeno dal Consiglio di Stato. In base a tale argomento sussiste una stretta connessione tra il provvedimento amministrativo e il negozio che sta a valle, tipica del fenomeno del collegamento negoziale e governata dalla regola del “simul stabunt simul cadent”. Tale impostazione, che tende ricondurre la giurisdizione sul contratto in capo al G.A. (già competente a statuire sull’annullamento dell’atto amministrativo presupposto) è tuttavia smentita dal sopracitato art. 264, co. 4, D.Lgs. 163/06 in tema di infrastrutture strategiche e dalla mancata precisazione del tipo di invalidità che colpisce il contratto. Altre tesi propendevano infine per la mera inefficacia del negozio, o altrimenti raffiguravano il rapporto aggiudicazione-contratto con gli istituti della presupposizione o della condizione risolutiva. Al contempo Cassazione e Consiglio di Stato manifestavano diversi orientamenti sull’individuazione del giudice dotato di giurisdizione sulla sorte del contratto (G.O. o G.A.), finchè le S.U. nel 2010 riconobbero la giurisdizione piena del G.A., innanzi al quale il contraente pretermesso avrebbe potuto trovare ristoro, anche chiedendo la reitegrazione in forma specifica.
Le predette questioni, sostanziali e processuali, sono state tacitate con l’entrata in vigore del D.Lgs. 53/2010 che, in recepimento della direttiva 2007/66/CE, sul “miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia di appalti pubblici”, ha preso atto dell’insufficienza degli strumenti processuali classici in detto settore ed ha introdotto metodi alternativi per evitare la stipulazione di contratti all’esito di procedure compiute in violazione del diritto comunitario. Ciò anche per garantire la pienezza e l’effettività della tutela giurisdizionale dei partecipanti alla gara. Si è giunti così alla modifica di varie disposizioni del D.Lgs. 163/2006, prevedendo una “sincronizzazione” tra i termini di impugnazione dell’aggiudicazione e stipula del contratto, diretta a prevenire il problema della condizione giuridica del secondo a seguito di annullamento della prima. È stato così introdotto il meccanismo dello stand still period, una fase di sospensione dalla stipulazione del contratto che consente il previo accertamento della legittimità della procedura di affidamento. Ridotto a trenta giorni (anziché sessanta) il termine per proporre ricorso avverso il provvedimento illegittimo (art. 245 D.Lgs. 163/2006), l’art. 11 del codice dei contratti, appositamente modificato, distingue uno stand still period sostanziale (co. 10), avente durata di trentacinque giorni dall’invio dell’ultima comunicazione del provvedimento di aggiudicazione definitiva ed uno stand still period processuale (co. 10-ter), per il caso in cui avverso l’aggiudicazione definitiva sia proposto ricorso con contestuale domanda cautelare. In quest’ultima ipotesi c’è sospensione obbligatoria della stipula del contratto, dalla notificazione dell’istanza cautelare alla stazione appaltante e per i successivi venti giorni, a condizione che entro il temine intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della sentenza ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva (la presenza di tale sospensione obbligatoria rende superfluo, in materia di appalti, il ricorso alla tutela cautelare ante causam). La corsa all’affidamento dell’appalto, in violazione dei predetti termini, comporta per la stazione appaltante la sanzione dell’inefficacia del contratto medio tempore stipulato, mentre per il legittimo aspirante la possibilità di conseguire l’affidamento o di ricevere tutela risarcitoria per equivalente ex art. 245-quinquies. Le questioni di giurisdizione sono state invero risolte attribuendo al G.A. la giurisdizione esclusiva sia sulle controversie (anche risarcitorie) inerenti l’affidamento di lavori servizi e forniture, sia sulla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione e su eventuali sanzioni alternative. Il D.Lgs. 53/2010 ha altresì potenziato l’accesso e l’informazione dei candidati e degli offerenti in caso di esclusioni ed aggiudicazioni (cfr. art. 79), nonché introdotto il meccanismo dell’informativa sull’intento di proporre ricorso giurisdizionale, o preavviso di ricorso (art. 243-bis), quale strumento finalizzato a stimolare lo ius poenitendi della P.A. in ordine ad atti provvedimentali illegittimi da lei posti in essere.
Ebbene, con la recentissima entrata in vigore del codice della giustizia amministrativa, le norme processuali in tema di contenzioso appalti sono trasmigrate, con taluni aggiustamenti, dal codice dei contratti (così come modificato dal D.lgs. 53/2010) al nuovo D.Lgs. 104/2010, trovando collocazione in corrispondenza degli artt. 120-125. Fondamentale è tuttavia anche l’art. 133 del D.Lgs 104/2010 che, alla lettera e), n. 1, ribadisce la giurisdizione esclusiva del G.A. sulle controversie inerenti procedure di affidamento di lavori ecc., svolte secondo la disciplina dell’evidenza pubblica, ivi incluse le contese risarcitorie e quelle sull’inefficacia del contratto a seguito della’annullamento dell’aggiudicazione ed alle sanzioni alternative.
Ebbene, dalla lettura delle nuove disposizioni emerge come il legislatore abbia graduato il trattamento del caso concreto in relazione alla gravità della violazione in cui sia incorsa la stazione appaltante nella procedura di affidamento (cd. “inefficacia a geometria variabile”). Ha pertanto distinto tra:
1) “violazioni gravi” (ex art. 121, co. 1) suscettibili di condurre, oltre che all’annullamento dell’aggiudicazione, anche alla declaratoria di inefficacia del contratto. Dalla lettura della disposizione emerge tale declaratoria possa essere disposta anche ex officio dal giudice, a prescindere dalla domanda di parte (tale affermazione non è del tutto pacifica dato il richiamo che l’art. 121, co.1 fa alle “deduzioni delle parti”), quale conseguenza necessaria connessa alla natura sanzionatoria della pronuncia. Emerge inoltre come lo stesso giudice sia chiamato a stabilire l’inefficacia ex tunc o ex nunc del negozio, tenedo conto di una serie di elementi: le deduzioni delle parti, la gravità della condotta tenuta dalla stazione appaltante, la situazione di fatto. Le fattispecie indicate come violazioni gravi sono classificabili in due gruppi: il primo contempla l’aggiudicazione avvenuta senza previa pubblicazione del bando o dell’avviso di indizione della gara, ove essa sia prescritta dal diritto comunitario e nazionale (si tratta di violazione intrinsecamente connessa alla negazione delle preminenti regole di trasparenza e libera concorrenza che giudano l’affidamento di lavori e servizi pubblici). Entro tale genus rientra inoltre l’aggiudicazione avvenuta con procedura negoziata senza bando o con affidamento in economia fuori dai casi consentiti, qualora ciò abbia determinato l’omessa pubblicità del bando (le fattispecie testè richiamate sono prescritte ex lett. a, b co. 1, art. 121). Il secondo gruppo di violazioni (lett. c, d co. 1, art. 121) contempla invero la stipulazione del contratto in violazione del termine di stand still period sostanziale e di quello processuale. Tale violazione è tuttavia ritenuta “grave” solo in presenza di tre condizioni: - che appunto vi sia violazione del termine dilatorio per la stipulazione del contratto; - che sia stata pregiudicata l’effettiva possibilità di difesa per il ricorrente; - che la violazione dello stand still, concorra con vizi propri dell’aggiudicazione. L’art. 121, co. 2, contempla tuttavia casi eccezionali in cui, nonostante violazioni gravi commesse dalla stazione appaltante (121, co.1) , il contratto stipulato rimane in piedi. Ciò si verifica per far fronte ad esigenze imperative di interesse generale, tra cui quelle imprescindibili di carattere tecnico o di altro tipo, che rendano evidente come il solo contraente, seppur illegittimamente designato, possa rispettare gli obblighi contrattuali (art. 121, co. 2, D.Lgs 104/2010). In tali casi la tutela reintegratoria del terzo aspirante è evidentemente preclusa, mentre si potrà ipotizzare a suo favore una tutela risarcitoria per equivalente, con applicazione di sanzioni alternative per la stazione appaltante (ciò si evince dal combinato disposto degli artt. 121, co. 4, 123, co. 2 e 124).
2) “sottoinsieme della categoria delle violazioni gravi” costituito dalle ipotesi a) e b) dell’art. 121 co.1, in cui l’inefficacia del contratto è esclusa ove la stazione appaltante abbia posto in essere una particolare procedura diretta a “sanare” l’omessa pubblicità del bando (121 co. 5). Si tratta di una procedura di trasparenza incentrata sul cd. avviso volontario per la trasparenza preventiva.
3) “violazioni gravi diverse da quelle descritte ex art. 121 co. 1 e dall’art. 123 co. 3 ”, normalmente riguardanti la procedura di aggiudicazione, a fronte delle quali è rimessa all’apprezzamento del giudice, condotto caso per caso, la declaratoria di inefficacia del contratto (si tratta della cd. inefficacia facoltativa ex art. 122), ovvero il mantenimento del medesimo con concessione del risarcimento per equivalente (art. 124). In tali casi, se il negozio rimane in vita non si applicano le sanzioni alternative di cui al successivo art. 123. Dal tenore dell’art. 122 si evince peraltro come l’inefficacia facoltativa, diversamente da quella disposta ex art. 121 co.1, non è conseguenza necessaria della violazione. Occorre dunque un’espressa domanda di parte in tal senso, diretta ad una pronucia costitutiva affine alla risoluzione giudiziale. Peculiare è l’indicazione, da parte del legislatore, di una serie di criteri guida che il giudice deve seguire nello statuire l’inefficacia o meno del contratto. Tra questi vi sono: a) il tipo di vizio riscontrato, che sia tale da consentire oltre all’annullamento dell’aggiudicazione, anche l’aggiudicazione a favore del ricorrente senza necessità di ripetizione della gara (difatti non sempre l’annullamento dell’aggiudicazione è seguito dall’assegnazione al ricorrente del bene della vita: ciò si verifica solo se il ricorrente segua in graduatoria l’illegittimo aggiudicatario e la sua offerta sia stata appositamente vagliata dalla stazione appaltante sotto il profilo dell’anomalia); b) lo stato di esecuzione del contratto (è evidente che se l’esecuzione è conclusa o quasi, l’invalidazione del contratto ed il subentro del ricorrente è svantaggioso ed antieconomico per lui e per l’interesse pubblico); c) l’avvenuta proposizione da parte del ricorrente di una domanda di subingresso nel contratto; - gli interessi reciproci delle parti, ivi compresa l’eventuale buona fede dell’illegittimo aggiudicatario.
4) casi di violazioni gravi in cui il contratto resta comunque efficace o è inefficace solo ex nunc (art. 121 co. 4), cui l’art. 123 connette, in via alternativa o cumulativa, l’applicazione delle sanzioni alternative ex art. 123 co. 1: la sanzione pecuniaria per la stazione appaltante di importo dallo 0,5 al 5% del valore del contratto, ovvero la riduzione della durata del contratto, ove possibile, entro limiti determinati. Ai sensi dell’art. 123 co. 2, l’eventuale condanna al risarcimento del danno può cumularsi con le sanzioni alternative, avendo funzione diversa rispetto a queste ultime.
5) “violazioni non gravi” che inducono il mantenimento in vita del negozio concluso e l’applicabilità delle sanzioni alternative (art. 123, co. 3). Si tratta delle fattispecie di cui all’art. 121, comma 1 lett. c) e d), a condizione che la violazione del termine non abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi dei mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e non abbia influito sulle sue possibilità di ottenere l’affidamento.
La norma di riferimento sulle tutele esperibili dal concorrente illegittimamente pretermesso dall’aggiudicazione dell’appalto è comunque l’art. 124, da collegare peraltro con l’art. 120 che precisa le modalità ed i termini del ricorso giurisdizionale avverso l’aggiudicazione illegittima, ovvero contro gli altri atti della procedura di affidamento. L’art. 124 racchiude invero la disciplina del rapporto tra tutela reintegratoria in forma specifica e per equivalente, anche in relazione alla pronuncia d’inefficacia del contratto, sulla scia del precedente art. 245-quinquies del codice dei contratti. Assai rilevante è che dal testo dell’art. 124 è scomparso ogni riferimento alla cd. pregiudiziale amministrativa o di annullamento: ciò coerentemente con i principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale e con la disposizione dell’art. 30 del D.Lgs. 104/2010, che dispone l’emancipazione dell’azione risarcitoria da quella di annullamento del provvedimento lesivo, assoggettando la prima ad un termine decadenziale di 120 giorni. Ebbene, da una lettura preliminare della disposizione emerge l’intenzione del legislatore di accordare prevalenza alla tutela reintegratoria, diretta al conseguimento del contratto, rispetto al risarcimento per equivalente. Ciò soprattutto per evitare che la stazione appaltante si trovi a pagare lo stesso appalto una pluralità di volte, dapprima all’esecutore e poi ad altri concorrenti che, attraverso l’impugnativa dell’aggiudicazione, non perseguano il contratto ma il solo risarcimento del danno. Occorre peraltro ricordare che la tutela in forma specifica (in senso stretto) non è sempre possibile, posto che solo in taluni casi l’annullamento dell’aggiudicazione è seguito dall’assegnazione al ricorrente del bene della vita: ciò si verifica se il ricorrente segue in graduatoria l’illegittimo aggiudicatario. Diversamente sarà necessaria la ripetizione della gara. È dunque più corretto parlare di “azione di esatto adempimento”.
Il primo comma della disposizione reca il principio per cui l’accoglimento della domanda di conseguimento dell’aggiudicazione e subingresso nel contratto è subordinata alla declaratoria di inefficacia del medesimo ex artt. 121, co. 1 e 122. Viene dunque a delinearsi una sorta di pregiudiziale composita determinante una stretta interdipendenza tra annullamento dell’aggiudicazione illegittima, dichiarazione di inefficacia del contratto e conseguimento del negozio da parte del ricorrente (o di altro bene strumentale), con contestuale ottenimento del bene della vita anelato. Secondo la dottrina la norma in esame risulta piuttosto ovvia, poiché è lo stesso sistema a precludere al ricorrente vittorioso di ottenere l’affidamento dell’appalto, se non viene prima eliminato il contratto concluso con l’illegittimo aggiudicatario. Limite della disposizione è tuttavia che non chiarisce: 1) se la domanda di parte inerente la dichiarazione di inefficacia sia necessaria; 2) quali conseguenze comporta la sua mancata proposizione. Si potrebbe ad esempio ipotizzare la necessità della suddetta domanda nei soli casi ex art. 122, ove cioè le violazioni in cui è incorsa la stazione appaltante non sono talmente gravi da procurare la declaratoria necessaria di inefficacia, ex officio (cfr. art. 121, co.1). Secondo l’opinione prevalente la concessione della tutela in forma specifica avrà luogo mediante pronuncia costitutiva del G.A. promossa su domanda di parte: nello stesso giudizio di annullamento occorrerà dunque avanzare domanda di inefficacia del contratto e domanda di subentro nel medesimo. La mancanza di quest’ultima è per così dire “sanzionata” ex art. 1227 c.c. con la riduzione o l’esclusione del risarcimento per equivalente in caso di mantenimento dell’efficacia del contratto (124 co. 2); riduzione o esclusione del quantum risarcitorio che ha luogo anche ove l’ente aggiudicatore offra all’operatore vittorioso, a seguito di annullamento dell’aggiudicazione, il subentro nel contratto e questi lo rifiuti ingiustificatamente. Il primo comma dell’art. 124 D.Lgs. 104/2010 prosegue poi sulla tutela per equivalente statuendo che il giudice, laddove non dichiari l’inefficacia del contratto, dispone il risarcimento del danno subito e provato. Tale norma presenta elementi differenziali rispetto al sostituito art. 245-quinquies D.Lgs. 163/2006. Non vi è infatti riprodotto il frammento inerente la limitazione del risarcimento alla «…domanda di parte ed a favore del solo ricorrente avente titolo all’aggiudicazione»; previsione questa che appunto circoscriveva la tutela per equivante ad un’esplicita domanda ed alla “probatio diabolica” del sicuro conseguimento dell’aggiudicazione in assenza della procedura illegittima. In base alla precedente disciplina poteva dunque verificarsi che gli operatori economici, lesi dalla competizione illegittima, si trovassero nell’impossibilità sia di conseguire il contratto, sia di ottenere il risarcimento, essendo assai difficile dimostrare di aver avuto titolo all’aggiudicazione. Alla luce della vecchia disposizione sembrava preclusa anche ogni forma di risarcimento della perdita di chances di aggiudicazione, con rilevanti sospetti di contrarietà della disciplina al diritto comunitario ed ai principi costituzionali. Ebbene, l’intervento del legislatore ha avuto il merito di rivitalizzare la risarcibilità del danno da perdita di chance, ivi intesa in senso ontologico come perdita della probabilità di vittoria (bene in sé considerato): non occorre infatti dare prova della certezza dell’aggiudicazione, quanto della consistente e non trascurabile possibilità di conseguimento dell’affidamento (ciò sulla base in un giudizio condotto ex ante, fondato sulla migliore scienza ed esperienza e sul criterio dell’id quod plerumque accidit). Altro merito della previsione è, secondo alcuni, quello di aver sganciato la tutela per equivalente dall’espressa domanda del ricorrente. La tesi non è del tutto condivisibile: si dovrebbe infatti ipotizzare che il giudice, in automatico, conservando il contratto, provveda sul risarcimento del danno subito dai portatori di posizioni qualificabili in termini di chance. Soggetti questi, che dovrebbero comunque aver proposto domanda di annullamento della gara e subingresso nel contratto, a pena di riduzione o esclusione della tutela per equivalente (art. 1227 c.c.).
Altro profilo da non sottovalutare è la necessità che gli interessati diano prova del danno subito. Sul punto, l’attribuzione dell’onere probatorio in capo al danneggiato, porta definitivamente a superare l’opinione giurisprudenziale che quantifica il mancato utile dell’impresa nella misura forfetaria del 10% del prezzo offerto in gara. Restano validi, invero, gli arresti giurisprudenziali inerenti l’irrisarcibilità dei costi sostenuti per la partecipazione alla gara, rientranti nel rischio d’impresa, e costituenti danno emergente solo nel caso di illegittima esclusione dell’operatore; la risarcibilità del cd. “danno curriculare” (quale pregiudizio subito dall’impresa che non ha arricchito il proprio curriculum professionale, a causa dello sfumato affidamento dell’appalto per la condotta illegittima della P.A.), alquanto difficile da provare nel quantum e per questo liquidato in via equitativa. La risarcibilità infine del cd. “danno da fermo tecnico” inerente l’immobilità di macchinari e maestranze predisposti per l’esecuzione dell’appalto (secondo la giurisprudenza spetta qui all’operatore dimostrare di non aver utilizzato tali mezzi per lo svolgimento di altri analoghi servizi o lavori).
Resta tuttavia contraddittoria la previsione in capo al ricorrente dell’onere probatorio del pregiudizio subito scollegato dalla relativa domanda di risarcimento del danno per equivalente. È dunque innegabile la carenza dell’art. 124 in ordine a tale forma di tutela. La norma, data l’assenza di specifici criteri di delega, ha inoltre omesso di regolare il risarcimento del danno in tutti i suoi profili, tanto da mantenere aperte le questioni inerenti la natura della responsabilità, l’elemento soggettivo, il nesso di causalità ed il quantum risarcitorio. Sono e saranno dunque fondamentali su tali aspetti gli interventi di dottrina e giurisprudenza.

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